Dopo molteplici studi riguardanti la storia e le pratiche dell’evangelizzazione, pubblicati con l’editrice Cittadella (Evangelizzare la vita cristiana. Teologia e pratiche di nuova evangelizzazione, 2012; L’annuncio del Vangelo. Dal Nuovo Testamento alla Evangelii gaudium, 2015), Carmelo Dotolo, ordinario di Teologia delle religioni alla Pontificia Università Urbaniana e decano della Facoltà di missiologia, si presenta al pubblico con il nuovo saggio Teologia e postcristianesimo. Un percorso interdisciplinare (2017).
La tesi perseguita segna un’evoluzione rispetto ai lavori precedenti: l’A. sostiene la valenza orientativa della teologia dimostrando la sua capacità di intercettare le domande dell’uomo contemporaneo e i suoi itinerari spirituali e culturali. Nell’attuale contesto di post-cristianesimo, la teologia deve sia saper dialogare con i grandi temi del postmoderno, aprendosi a un percorso interdisciplinare, sia saper assumere una dimensione epistemologica di confine, dimensione che le è congeniale a motivo del suo linguaggio (“paradosso conoscitivo”) derivante dalla Rivelazione, che «porta con sé qualcosa di inusuale, eccedente, perché dice ciò che altri linguaggi non dicono, indica un universo di possibilità per altre vie non accessibile, suggerisce di pensare il significato del mondo diversamente, a partire dalla sua simbolicità» (p. 65). Grazie a uno stile maieutico, esistenziale e profetico, attento a una critica dello status quo, la teologia può giungere a comprendere in maniera ‘trasgressiva’ la vita e il mondo, e a entrare nei circuiti conoscitivi della realtà «suggerendo ipotesi che aprono a una ragione critica e a una lettura cooperativa dell’enigmaticità di quanto esiste» (p. 70).
Una volta chiarito il senso dell’esercizio teologico nel postmoderno, Dotolo sviluppa la sua tesi partendo dalle questioni “Tradizione” e “fare teologia”, ove la tradizione va anzitutto pensata come «indicatore di uno spazio significativo di memoria culturale e di identità credenti aperte» (p. 88) e il fare teologia si attua partendo “dalla” tradizione ma con una certa “discontinuità”, in quanto la ripresa creativa del messaggio originario è legata al dinamismo della storia che modifica modelli conoscitivi e criteri etici. Il secondo passo da fare è quello di ripensare il nesso tra natura umana, esperienza religiosa e fede cristiana. Le rappresentazioni naturalistiche del mondo oggi avanzano la pretesa di spiegare quanto avviene a livello dei processi biologici e culturali. Rimane tuttavia problematico dire come avviene la nascita della ‘individualità’, come si forma «quel quid che dice l’umano nella sua tipicità» (p. 105). È a questo livello che si pone la questione teoretica del coniugare l’ipotesi delle basi biologiche dell’io, con quella della sua soggettività che dà senso al vivere. L’A. risponde ripercorrendo la via della critica nei confronti della religione e delle rappresentazioni dell’esperienza religiosa; riporta il dibattito nell’ambito della fede cristiana che segnala l’irrompere di una «differenza nell’alterità di Dio» (p. 158) che si lascia incontrare nell’evento storico di Gesù Cristo e che interpella la libertà dell’uomo provocando un decentramento delle proprie certezze e rappresentazioni umane.
Dopo le due grandi questioni introduttive sul fare teologia dalla tradizione e sulla fede cristiana in rapporto alla religione e all’esperienza religiosa, Dotolo offre tre approfondimenti sul cristianesimo tra le religioni (cap. IV), sulla spiritualità e liturgia (cap. V) e sulla filosofia “cristiana” (cap. VI). Il rapporto tra cristianesimo e le altre religioni è la «questione decisiva per la riflessione teologica chiamata a una differente responsabilità argomentativa e, verosimilmente, a un diverso metodo di approccio» (p. 163). Tenuto conto dell’evento della Rivelazione come irruzione dell’alterità di Dio e della centralità dell’incarnazione, il cristianesimo ha oggi una duplice possibilità: quella di mostrare la sua specificità proponendosi come «religione dell’apertura all’alterità» (p. 206) e quella di presentarsi come percorso «mai definitivo di universalizzabilità» mettendo ovviamente in gioco se stesso come religione. Lo stile del dialogo con altre esperienze religiose non potrà che essere ‘provocatorio’ in quanto la singolare universalità della rivelazione cristiana è legata alla scandalosa particolarità di Gesù, l’ebreo di Nazareth. A sostegno di tale argomentazione, Dotolo invita a una rivisitazione del tema della Rivelazione inteso come “concetto critico” per l’interpretazione del cristianesimo (vedi pp. 183-187).
Proseguendo negli approfondimenti, interessante è la ripresa del tema della spiritualità ripensata alla luce della specificità del cristianesimo. La spiritualità cristiana deve saper coniugare qualità e capacità di futuro imparando a intercettare i desideri di vita spirituale non necessariamente espressi attraverso i canali di un’appartenenza religiosa; una spiritualità cristiana che crea identità progettuali, capaci di farsi dono per una convivialità e per una storia di liberazione che si nutre del rito, di cui l’essere umano ha un ineliminabile bisogno per conferire significato al proprio vissuto, ma anche per esprimerlo. Se il rito viene pensato in tal modo, la liturgia non è altro che momento ermeneutico dell’umano, che alla luce dell’evento pasquale di Cristo fa immaginare diversamente la realtà umana e il religioso.
Nell’ultimo capitolo, sulla filosofia cristiana, l’A. pone il senso della filosofia cristiana stessa come questione. Afferma che se il compito della filosofia è di riflettere sull’intera esperienza umana, nello specifico della filosofia “cristiana” è il dato della Rivelazione che introduce uno spazio del conoscere dove c’è un differente contatto con la verità, che richiede a qualsiasi forma di conoscenza la rinuncia a presentarsi come orizzonte di senso insuperabile ed esclusivo. Partendo dal pensiero di J.L. Marion sull’Io che riconosce il suo carattere non originario bensí derivante da una donazione, Dotolo elabora la tesi sulla possibilità di una filosofia cristiana come “euristica”, cioè come filosofia che orienta la ricerca di senso verso ciò che il fenomeno religioso comunica. Pertanto, «la filosofia cristiana […], in quanto filosofia del fatto cristiano offre una tematizzazione del senso della realtà, della vita, dell’uomo che si aggiunge come possibile lettura del mondo, convocando il sapere a uno sguardo inedito e meno pregiudiziale» (p. 264). Lo snodo decisivo è quello del senso, che nell’evento-principio dell’incarnazione congiunge kenosi e salvezza, cioè l’essere-per l’altro come l’essere di Dio per noi, dono di vita.
Nella Conclusione (pp. 285-311), come sintesi del percorso, l’A. individua tre tesi provvisorie: «a) il futuro della teologia sta nella sua capacità interdisciplinare; b) il futuro della teologia sta nella capacità di alimentare un’ecologia della razionalità e/o delle idee; c) il futuro della teologia sta nella capacità dialogica e critico-profetica di mostrare la responsabilità interculturale del cristianesimo» (p. 286). Tutto ciò presuppone disponibilità a ripensare lo statuto epistemologico della teologia come “epistemologia di confine”, data l’impossibilità di spiegare la realtà da un unico punto di vista.
L’opera di Dotolo è di pregio: si inserisce nel panorama teologico internazionale con un contributo propositivo intorno al dibattito sul cristianesimo nel postmoderno. L’A., convinto che la visione della vita offerta dal cristianesimo non sia superata, ma soffra di marginalizzazione, chiede che si riprenda l’esercizio della riflessione teologica uscendo dall’autoreferenzialità, ed entrando con vivacità critico-profetica nell’agone del confronto pubblico sui grandi temi che interessano l’essere umano, ai quali non solo il cristianesimo dà una risposta. Egli invita ad andare oltre la retorica sul dialogo e il confronto tra i saperi, scoprendo l’originaria specificità del cristianesimo e la sua provocatoria visione della realtà e dell’essere umano, che orienta al futuro e chiede apertura all’Altro/altro, superando qualsiasi forma di rassegnazione e di ripiegamento su di sé.
G. Zambon, in
Studia Patavina 2/2019, 331-333