Pubblicato originariamente in Germania nel 2005 in occasione dei cento anni della nascita del teologo cattolico Hans Urs von Balthasar (1905-1988), come quinto volume degli Studienausgabe, il testo presenta due contributi, scritti in una prosa espressivamente e teologicamente potente: «Un lavoro scritto negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma mai pubblicato per motivi non più ricostruibili», dedicato al problema cristiano dell’escatologia; e «un testo più breve sul medesimo tema che assillò Balthasar fino alla sua dissertazione per il dottorato» (Prefazione, 5), pubblicata nel 1930, che rende disponibile un contributo di notevole importanza sull’escatologia «come centro della teologia» (99).
Il primo contributo, Escatologia nel nostro tempo, databile tra il 1954 e il 1955 – pur essendo in continuità con i lavori letterario-teologici che Balthasar aveva dedicato all’escatologia negli anni Trenta con i volumi Geschichte des eschatologischen Problems in der modernen deutschen Literatur (1930) e Apokalypse der deutschen Seele. Studien zu einer Lehre von letzten Haltungen (1937-1939), dei quali riprende, soprattutto nella I parte, tutta una serie di riflessioni e intuizioni filosoficometafisiche e storico-teologiche – è una loro radicale ricollocazione in una chiave strettamente cristologica. Se le «cose ultime» sono «l’orizzonte trascendente dell’esserci» (10), solo Gesù Cristo «è in grado di conferire all’esserci umano e di inscrivere in esso un senso trascendente, ininterrotto, eterno» (34-35). È l’incarnazione del Figlio, la discesa di Dio nel tempo, a fare in modo che a tutte le esperienze umane venga offerto «un nuovo spazio in Dio» (35), «un compimento di senso nell’eternità di Dio» (36). Nessuna filosofia escogitata dall’uomo ha mai lontanamente potuto presentire o immaginare «che Dio dischiudesse all’uomo defunto la sua vita eterna, per introdurlo, elevarlo ed eternizzarlo con tutta la sua temporalità ed esistenza temporale per mezzo di un miracolo nuovo ancora più alto di quello della creazione» (42).
Grazie all’influsso di Adrienne von Speyr, la cui presenza, a partire dagli anni Quaranta, si fa sempre più decisiva e operante nei suoi scritti, ma anche grazie alle riflessioni di Henry de Lubac e di Erich Przywara, e di quei poeti e scrittori francesi, come Charles Peguy, che sono stati profondamente segnati da un serrato confronto con il dogma dell’inferno, Balthasar affronta il tema teologico del «descensus ad inferos» di cui parla il Credo, partendo dal «mistero del Sabato santo», che si palesa come l’elemento più innovativo della sua teologia della speranza. Se Cristo è disceso nell’assoluta disperazione dello Še’ôl, «sotto i suoi passi le porte dell’inferno sono state aperte, le catene eterne sono state spezzate e coloro che stavano nella tenebra e in ombre di morte sono stati avvolti dalla grande luce» (52). Nello Še’ôl – scrive Balthasar – ha iniziato «a muoversi la speranza di Cristo, che non può scaturire da altra fonte se non dalla redenzione della croce e dall’abbandono di Dio provato da Cristo stesso» (53).
Se il cristianesimo è «la religione della redenzione» (54), perché l’amore di Dio per l’uomo è arrivato a tale punto da dare il suo unico Figlio, ogni essere umano può avere fiducia nel giorno del giudizio (cf. 1Gv 4,17), in quanto la speranza cristiana, riferita al giudizio del Redentore, sta al di là dell’autaut di Origene e Agostino, per cui resta del tutto aperta la possibilità di collegare gli insondabili giudizi di Dio con «la speranza che tutti gli uomini siano salvati» (60), perché, come dice Teresa di Lisieux, assieme a molti altri santi, «non si può sperare troppo da Dio» (62). Se «il nostro morire e risorgere, anzi il nostro stesso essere giudicati, il nostro andare all’inferno e in paradiso non possono cadere al di fuori del campo cristologico» (62), il tempo umano risulta del tutto inserito nell’eternità di Dio. L’essere umano possiede la grazia di vivere «la sua terra nel cielo, persino la sua mortalità nel mondo della risurrezione» (63) e in lui ogni fibra del suo essere anela a che «tutto “ciò che è mortale venga assorbito dalla VITA” (2Cor 5,1-4)» (64). Contro il platonismo e la mistica platonizzante che partono ancora dalla contrapposizione tra idea e manifestazione, Balthasar ritiene che solo l’escatologia orientata in senso cristologico possa salvaguardare «la piccola effimera durata della creatura, e ogni umile bellezza del divenire e del passare, del morire e dell’avvizzire, del guadagnare e del perdere può trovare compimento e manifestare il suo lato di eternità» (70).
Il secondo contributo – Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo –, databile sul finire degli anni Venti, è volto a essenzializzare la riflessione escatologica in uno stretto dialogo con l’uomo moderno il quale, a differenza di quello antico, è «metafisicamente rassegnato» (76) e sembra essersi «stancato di interrogarsi a fondo oltre il tempo, sull’eterno» (76). Di fronte alla visione del mondo tipica della scienza moderna, il cristiano sa, come del resto l’ebreo dell’Antico Testamento, che la sua fede «non è legata a una determinata cosmologia», e che la sua vita può essere pienamente compresa solo a partire da Dio, «dal sovratempo, dall’eternità» (78), perché «Dio è la cosa ultima dell’uomo, unicamente Dio» (79). Se la scienza moderna consente di vedere la morte in un senso mitico, come «sopravvivenza, sia pure mutata e superiore, di ciò che c’era prima» (79), in un aldilà immaginario, il cristianesimo la coglie, invece, come un cercare «nell’eternità, in Dio, la verità della vita temporale vissuta una volta per tutte» (80) e «la risurrezione della carne è l’unico salvataggio dell’esistenza terrena in Dio» (84).
Se Dio è la cosa ultima dell’uomo, il giudizio su ogni essere umano – ognuno per sé ma anche tutti insieme – avverrà alla presenza della «verità eterna di Dio» (81), di fronte a quella «misura di Dio» (85) che, soltanto, è capace di assegnare la piena verità a ogni nostro pensiero e azione. Il fatto che Gesù Cristo abbia assunto la nostra natura umana e che abbia in tal modo «sperimentato con un cuore eterno i brividi dolci e amari dell’esistenza» (86), sarà per ogni uomo motivo di salvezza, ma anche l’estremo pericolo per coloro che, volontariamente, avranno calpestato il Dio vivente (cf. Eb 10,26.29.31). È qui che la purificazione dei molteplici «no» e delle resistenze più recondite che l’uomo avrà opposto a Dio assume un pieno significato. Tale purificazione va pensata come un atto estremamente doloroso e imbarazzante che non ci permetterà «di distogliere lo sguardo da quest’occhio dell’amore che ci abbatte nella vergogna e nel disonore, quest’occhio che scruta – fisso – noi che non siamo abituati all’amore» (89). Questa potenza purificatrice dell’amore divino può avere corso già in vita, come scrive Giovanni nell’Apocalisse, qui ampiamente citata da Balthasar, ma essa è talmente esigente – una sorta di «chirurgia per le anime» (91) –, da poter essere rifiutata, da renderle possibile il mistero del rifiuto di Dio.
Di fronte a tale drammatica possibilità, il paradiso resta, per la creatura, non un luogo delimitato da un altro luogo, ma quell’essere presso Dio, quello stare verso di lui costantemente aperti. Scegliere il paradiso vuol dire scegliere Dio, «il fondamento senza fondo e l’abisso sui cui io riposo, dal quale salgo, senza mai staccarmi da esso» (92). In esso tutto il mio essere temporale – tutto ciò che ciascuno ha veramente seminato – si svelerà nella sua eterna profondità, nel suo appartenere a Dio.
G. Coccolini, in
Il Regno Attualità 8/2017, 229