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Escatologia nel nostro tempo
Hans Urs Von Balthasar

Escatologia nel nostro tempo

Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo

Prezzo di copertina: Euro 17,00 Prezzo scontato: Euro 16,15
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 183
ISBN: 978-88-399-0483-6
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 128
Titolo originale: Eschatologie in unserer Zeit. Die letzten Dinge des Menschen und das Christentum
© 2017, 20192

In breve

Prefazione di Alois M. Haas
Postfazione di Jan-Heiner Tück

Risuonano qui in una prosa potente le riflessioni di von Balthasar, gigante della teologia del XX secolo, sulla “teologia della finitezza” e sull’auspicata futura perfezione delle creature di Dio. In questi due saggi inediti il suo pensiero acquista un’attualità che può sviluppare tutta la sua forza unicamente in riferimento alla libera, sovrana opera creatrice di Dio.

Descrizione

Questo libro riproduce per la prima volta due saggi di un’attualità sconcertante: stesi nel 1955 e mai editi prima d’ora «per motivi non più ricostruibili», oggi vengono pubblicati a cura di un profondo conoscitore dell’opera balthasariana, il teologo svizzero A.M. Haas, e con una documentata e illuminante Postfazione del teologo di Vienna J.-H. Tück.
In queste pagine von Balthasar riesce a delineare una teologia delle cose ultime nel senso di «una teologia della finitezza» (W. Löser). Con l’affascinante forza linguistica della sua prosa teologica, von Balthasar presenta l’insegnamento escatologico della chiesa in alcuni aspetti che segneranno il suo pensiero successivo: risultano decisivi, in particolare, il recupero della centralità di Cristo e della speranza universale, ma anche il riferimento alla teologia della croce e alla “discesa agli inferi”. Quest’ultimo elemento è stato indicato da Joseph Ratzinger come il vero contrassegno del pensiero balthasariano.

«Queste righe vengono consegnate alle stampe, superando le mie esitazioni, unicamente per far risplendere meglio possibile nella dottrina tradizionale della chiesa – dalla quale non ci si deve scostare in alcun punto – la centralità cristologica». Così lo stesso von Balthasar in una sua Prefazione, che concludeva richiamando l’importanza della “discesa agli inferi”: «Chi si rifiuta di guardare in quella profondità difficilmente potrebbe riuscire a sviluppare tutto il concetto di grazia e redenzione che ci è accessibile nella fede».

Recensioni

Il volume Escatologia nel nostro tempo. Le cose ultime dell'uomo e il cristianesimo raccoglie due saggi di von Balthasar sulla teologia delle cose ultime o "teologia della finitezza", scritti nel 1955, mai editi per motivi non piu ricostruibili, pubblicati a cura di A.A. Haas (teologo svizzero) con una postfazione di J.H. Tück (teologo di Vienna). Il primo saggio, Escatologia nel nostro tempo (pp. 7-71), il cui manoscritto originario era intitolato "Pensieri sulla dottrina della fine", redatto per una conferenza (1954/55),era preceduto da una Prefazione - che poi lo stesso von Balthasar cancellò, senza sostituirla, quando decise di consegnare il testo alla stampa - nella quale precisava: «Quasi ognuna delle frasi dette solleva una caterva di altre questioni che restano necessariamente senza risposta; qualche formulazione, per la medesima brevità, resta non documentata e ambigua. Il lettore capirà tuttavia perché queste righe, superando le esitazioni, sono consegnate alle stampe: unicamente per far risplendere meglio possibile nella dottrina tradizionale della chiesa, dalla quale non ci si deve scostare in nessun punto, la centralità cristologica, in maniera piu chiara forse di quanto risplenda in qualche animo e coscienza cristiana» (p. 109). Il secondo, Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo (pp. 73-96), che potrebbe risalire al 1955, sviluppa argomenti che assillarono von Balthasar sin dalla dissertazione per il dottorato, diretti a una cerchia più vasta.

I due saggi, se collocati all'interno della sua opera poderosa e inesauribile (oltre 85 libri propri, 500 saggi, traduttore di circa 100 opere e direttore di circa 10 collane e di molte opere antologiche) si presentano come dei contributi minori. Invece, se situati nel contesto del suo cammino teologico, essi acquistano valore segnando il passaggio da una comprensione delle cose ultime (De novissimis)trattata come una appendice nella dogmatica scolastica a «una decisa riduzione cristologica di tutti gli enunciati escatologici» (p. 99). Infatti, negli anni '50, a seguito di un intenso lavoro patristico, von Balthasar partendo dall'Apocalisse comincia a riflette sui 'novissimi', da una parte cercando i nessi con il pensiero prodotto dalla filosofia, in particolare con i pensatori del XVIII-XX secolo, e dall'altra prendendo le distanze da una visione scolastica delle cose ultime (in particolare dall'escatologia medievale) dirigendosi verso una teologia del descensus Christi intesa come la rivelazione di Dio nel mondo e il fondamento della speranza cristiana, per tutti.

Alla base del suo pensiero vi è l'idea di relazione tra Dio e mondo secondo la formula dell'analogia entis che consente di affermare da una parte la fondamentale somiglianza dell'essere creaturale all'essere del Creatore e dall'altra l'ineliminabile dissomiglianza tra il Creatore e la creatura. Si tratta di una relazione non adeguatamente descrivibile attraverso i concetti di immanenza e trascendenza, dell'essere-in e dell'essere-di-fronte, che si comprende soltanto quando essa diventa partecipazione della libera autorivelazione di Dio. Infatti, l'accesso alla vita eterna è dischiuso da Cristo. Con l'incarnazione del Figlio e la sua ascesa al cielo, sono "offerti" alle esperienze umane «un nuovo spazio in Dio, un'appartenenza a Dio, un diritto di cittadinanza presso Dio, una sicurezza in Dio stesso. Nel mistero dell'unione ipostatica si compie questa realtà fondamentale, che le cose temporali ricevono una possibilità di esistenza, anzi una giustificazione e sono recuperate all'interno della vita eterna di Dio» (p. 35).

In tal modo, tutto ciò che è stato "attaccato" a Dio è stato ricondotto a Dio, anche ciò che è piombato nel punto più basso possibile, nel 'fondo' del regno dei morti. La risurrezione di Cristo avviene dallo Šᵉ’ôl. Nella vittoria sullo Šᵉ’ôl il messaggio cristiano indica come giustamente compiuto l'evento della redenzione il cui effetto è «unico nel suo genere e agisce (parlando nel tempo del mondo) in modo retro attivo e in avanti» (p. 53). In questa prospettiva si raccoglie tutto, tutto ciò che sta all'origine di ogni persona e tutto ciò di cui viene spogliata la natura umana con la morte. Tutto viene raccolto in Cristo, «il nostro morire e risorgere, anzi il nostro stesso essere giudicati, il nostro andare all'inferno e in paradiso non possono cadere al di fuori del campo cristologico» (p. 62). Nella Postfazione, il teologo Tück fa notare che questo è uno degli aspetti innovativi dell'escatologia di Balthasar, nel quale avviene «l'atteso spostamento da una cristologia dimensionata cosmologicamente a un'escatologia personale-cristologica» (p. 103).

Nelle sue pagine von Balthasar, con la forza linguistica che lo contraddistingue, riesce a delineare una teologia della finitezza che trova nell'evento cristologico della croce e del descensus lo spazio e la possibilità di apertura del finito all'infinito, del tempo all'eternità, la raccolta e l'elevazione in Dio di tutta la realtà della creazione. La Postfazione e le note del lavoro critico al testo a cura di J.-H. Tück contribuiscono a impreziosire i due saggi di Balthasar la cui lettura risulterà utile a coloro che cercano di indagare sul senso delle "cose ultime”.


G. Zambon, in Studia Patavina 1/2019, 143-145

Due saggi inediti divon Balthasar, il teologo svizzero definito da Henri de Lubac «l'uomo più colto del nostro tempo». Attualissimi entrambi, eppure risalenti alla prima metà del secolo scorso.

Il «teologo della finitezza» nel primo contributo si sofferma sulla centralità di Cristo, sulla speranza e sull'importanza della «discesa agli inferi»: Gesù «è in grado di conferire all'esserci umano e di inscrivere in esso un senso trascendente, ininterrotto, eterno».

Nel secondo von Balthasar si concentra sull'uomo, visto come «metafisicamente rassegnato».


In Jesus 4/2018, 91

Antonio il Grande, il padre dei monaci, un giorno chiese direttamente a Gesù se fosse sulla buona strada e il Cristo gli rispose: «Va molto bene, ma ad Alessandria c’è un calzolaio che ti precede». Antonio corse subito a trovarlo e constatando la banalità della sua esistenza provò a interrogarlo. Il calzolaio gli rispose: «Forse perché di quanto guadagno faccio tre parti, una per la mia famiglia, una per i poveri e la terza per la Chiesa». Ma Antonio non rimase convinto: lui stesso aveva venduto tutti i suoi beni ai poveri per seguire Gesù dopo aver sentito in chiesa la parabola del giovane ricco. Così insistette. E il calzolaio di rimando: «Mentre lavoro, davanti alla mia bottega vedo passare tanta gente e allora prego che tutti siano salvati, solo io merito di essere perduto».

La storia del calzolaio di Alessandria è tramandata dal IV secolo ai monaci, soprattutto orientali, di generazione in generazione, e ben rappresenta il desiderio della salvezza universale, che non può essere una certezza perché vorrebbe dire svuotare la vita spirituale della sua serietà, ma un anelito e una speranza: l’oggetto della nostra preghiera. L’hanno sostenuto nei primi secoli della Chiesa i padri orientali e, in tempi più recenti, teologi e filosofi come Hans Urs von Balthasar, Jacques Maritain e Olivier Clément.

Proprio del teologo svizzero, che nel 1985 fece molto discutere perché nel suo libro Sperare per tutti, pubblicato in Italia da Jaca Book, esprimeva la speranza che la salvezza portata da Cristo potesse riguardare tutti gli uomini, l’editrice Queriniana ha da poco mandato in libreria il volume Escatologia del nostro tempo (Brescia, 2017, pagine 128, euro 17) che contiene due suoi testi inediti sulle cose ultime.

Von Balthasar se la prende in particolare con l’immaginario della Scolastica dell’aldilà e con la rappresentazione dell’inferno realizzata da Dante, «con la sua terrificante rigidità e totale mancanza di eventi». Il viaggiatore attraversa l’inferno e lo lascia così come vi è entrato. Come espressione di questa mentalità, il teologo di Basilea, creato cardinale da Giovanni Paolo II ma morto prima di vestire la porpora, cita un passo di Fulgenzio di Ruspe, discepolo di Agostino, che non solo dà per sicura la dannazione di un numero enorme di esseri umani, ma la considera una verità di rivelazione.

A questa concezione egli oppone una rivalutazione del Sabato santo e della discesa agli inferi, che non è solo la continuazione nel tempo dell’abbandono del Figlio sulla croce, ma la sua proiezione oltre il tempo. «Non c’è nessuna morte che non possa essere recuperata, nemmeno la più dannata» scrive von Balthasar, che poi precisa: «La discesa di Cristo nella morte seguita dallo Sheol indica per tutti gli uomini il superamento della poena damni inflitta di diritto a tutti come una potenza ineluttabile del destino». La vittoria di Cristo sulla morte fa sì che per l’avvenire il giudizio è nelle mani del Redentore, che il destino eterno di tutti gli uomini sia posto in maniera incondizionata nelle sue mani.

È accaduto insomma, «nelle cose ultime, il cambiamento che tutto decide, a differenza di quanto l’escatologia medievale rappresentava nelle sue asserzioni figurate e mitiche: che prima e dopo la redenzione il mondo dell’infernum restasse sostanzialmente uguale, che l’effetto dell’azione di Cristo si limitasse al più alto ricettacolo degli inferi e lasciasse immutati tutti i ricettacoli inferiori».


R. Righetto, in L’Osservatore Romano 20 settembre 2017

«L’uomo è per natura la creatura che termina senza avere, in senso terreno, completato e perfezionato le cose, e questa sua interruzione getta su tutto il suo esserci un’apparenza di inutilità». Basterebbero queste parole di Hans Urs von Balthasar per intuire il tono della sua riflessione escatologica nell’inedito, presentato per la prima volta nel 2005 e tradotto recentemente per i tipi della Queriniana con il titolo Escatologia nel nostro tempo. Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo (BTC 183).

Quella del teologo di Basilea, non è un’escatologia “divinatoria” su quello che sarà, ma è una ricca riflessione esistenziale, culturale e teologica allo stesso tempo. Una vera «teologia della finitezza» come la mette W. Löser.

Balthasar, con una sensibilità che anticipa l’evoluzione della riflessione escatologica recente, avverte dall’inizio della sua opera che “le quattro cose ultime”, come solitamente vengono chiamate morte, giudizio, paradiso e inferno, non possono costituire «una sorta di episodio all’esistenza umana». Queste quattro realtà si ripercuotono immancabilmente su tutto l’esserci temporale. Esse non sono un epilogo, ma una ricapitolazione. Sono la luce che viene gettata sulla vita per rivelare quello che è stata e quello che è.

«La loro verità è misura; guardando ad esse, la vita si regola giustamente». Scrive Balthasar: «Dentro di noi – e da nessun’altra parte – paradiso e inferno, quanto meno la morte (secondo Scheler, Simmel, Rilke, Heidegger), così come il giudizio è già insito nella vita […]. Proprio perché le “cose ultime” sono l’orizzonte trascendente dell’esserci, il loro riverbero è immanente ad ognuno dei suoi momenti».

Uno può anche mettere in dubbio giudizio, inferno e paradiso, ma non può farlo rispetto alla morte, il cui «crudo factum è tutt’altro che un limite non problematico dell’esserci, anzi – in quanto limite – la morte solleva più di ogni altra cosa tutte le decisive questioni della vita. La si può saggiamente salutare come liberatrice o come annunciatrice, ma non si può fare a meno di sperimentarla come un’intrusa e una scompigliatrice assoluta».

Balthasar esplora alcune delle risposte che si è tentato di dare lungo i secoli, riassumendole in tre: la soluzione magica, la soluzione idealistica e la soluzione cosmica.

Balthasar prosegue nell’esplorazione attraverso una rassegna dei luoghi fondamentali dell’escatologia occidentale, mostrando l’insufficienza della platonica sopravvivenza e immortalità dell’anima, ma anche l’ingenua concezione di vedere nell’aldiqua un semplice preludio verso la futura esistenza considerata come l’unica vera.

Giunge così la proposta balthasariana che si articola in quattro tesi:

1. Unicamente Dio è la realtà ultima dell’uomo. L’uomo, morendo, va a Dio. Dio è la sua verità e perciò il suo giudizio e quindi la sua eterna salvezza o perdizione. «Secondo l’intenzione divina l’uomo nasce per Cristo, per il suo inserimento in lui come membro del suo corpo mistico».

2. L’accesso alla vita eterna di Dio è dischiuso da Cristo. Interpretare la creazione nella luce di Cristo non significa soprannaturalizzarla o saltare i suoi contenuti temporanei di senso. Cristo si fa veramente uomo: come l’essere-uomo potrebbe non significare nulla per Dio! Ed egli si fa essere umano per salvare l’umano e per salvare per mezzo di lui il cosmo. Cristo è la chiave che dischiude tutto. In Cristo, Dio discende nel tempo, l’uomo sale all’eternità. Scendendo, Dio riempie il temporale di senso eterno. L’uomo, salendo, riceve un compimento di senso nell’eternità di Dio.

3. La risurrezione di Cristo avviene dallo Sheol. Data la discesa di Cristo negli inferi, «non c’è nessuna morte che non possa essere recuperata, nemmeno la più dannata, perché chi tra i figli degli uomini può paragonarsi al Figlio eterno, dove si tratta dell’esperienza dell’eterna origine da Dio Padre, dell’eterno dipendere e del sempre nuovo sgorgare da lui, dell’esistenza nella fonte della generazione? Chi come lui quindi può valutare nella profondità ultima che cosa vuol dire essere abbandonato, piantato in asso dal Padre? quale poena damni è comparabile a questo?». Cristo assume la dannazione dei dannati per salvare molti. «Uno ha attraversato il mondo della perdizione e sotto i passi compiuti da colui che era il più perso e il più abbandonato, questo carcere è crollato. L’essere-cristiano esiste innanzitutto per questo evento; in questa discesa il cristiano è battezzato, come sanno bene i Padri della Chiesa».

4. Il nostro tempo nell’eternità. La vita eterna di Dio, nel cui spazio di vita deve entrare la creatura per mezzo della grazia di Cristo, non può essere compresa come una semplice “continuazione”, sia pure migliorata, della vita temporale. Questa rappresentazione non è adeguata, perché l’eternità è “contemporanea" ad ogni momento dell’esserci temporale dell’uomo. Di più ancora: era immanente perché, in forza dell’unione ipostatica dell'Uomo-Dio e della sua risurrezione, il cristiano quanto meno (e in modo incoativo ogni uomo) possiede la grazia di vivere il suo tempo nell’eternità, la sua terra nel cielo, persino la sua mortalità nel mondo della risurrezione.

Riassumendo, nell’opera di von Balthasar, che – come puntualizza Jan-Heiner Tück nella sua Postfazione – rientra nella sua seconda fase di riflessione escatologica, possiamo vedere una concentrazione teologica e cristologica dell’escatologia in chiave esistenziale che si riassume in due punti: la reciproca compenetrazione tra vita terrena e vita eterna da un lato, e la personalizzazione delle istanze dei novissimi, personalizzazione che si riassume nelle celebri parole di un altro saggio balthasariano: «Dio è la realtà ultima della creatura. In quanto conquistato è cielo, in quanto perduto è inferno, in quanto ci esamina è giudizio, in quanto ci purifica è purgatorio. […] Lo è però così com’è rivolto al mondo, cioè nel suo Figlio Gesù Cristo, che è l’aspetto rivelato di Dio e quindi il compendio delle “ultime cose”».


R. Cheaib, in Theologhia.com 28 settembre 2017

Questo libro riproduce per la prima volta due saggi di un'attualità sconcertante: stesi nel 1955 e mai editi prima d'ora «per motivi non più ricostruibili», oggi vengono pubblicati a cura di un profondo conoscitore dell'opera balthasariana, il teologo svizzero A.M. Haas, e con una documentata e illuminante Postfazione del teologo di Vienna J.-H. Tück.

In queste pagine von Balthasar riesce a delineare una teologia delle cose ultime nel senso di «una teologia della finitezza». Con l'affascinante forza linguistica della sua prosa teologica, von Balthasar presenta l'insegnamento escatologico della chiesa in alcuni aspetti che segneranno il suo pensiero successivo: risultano decisivi, in particolare, il recupero della centralità di Cristo e della speranza universale, ma anche il riferimento alla teologia della croce e alla "discesa agli inferi". Quest'ultimo elemento è stato indicato da Joseph Rarzinger come il vero contrassegno del pensiero balthasariano.

«Queste righe vengono consegnate alle stampe, superando le mie esitazioni, unicamente per far risplendere meglio possibile nella dottrina tradizionale della chiesa – dalla quale non ci si deve scostare in alcun punto - la centralità cristologica». Così lo stesso von Balthasar in una sua Prefazione, che concludeva richiamando l'importanza della "discesa agli inferi": «Chi si rifiuta di guardare in quella profondità difficilmente potrebbe riuscire a sviluppare tutto il concetto di grazia e redenzione che ci è accessibile nella fede».


M. Merlina, in Consacrazione e Servizio 4/2017, 150

Una delle menti più fulgide del XX secolo di fronte a una delle questioni più complesse della dottrina cristiana: così, in estrema sintesi, potrebbe essere presentato questo libro che contiene due testi inediti del teologo svizzero Hans Urs von Balthasar, definito dal celebre studioso gesuita Henri de Lubac “l’uomo più colto del nostro tempo”, scomparso a 83 anni nel 1988, due giorni prima di ricevere la berretta cardinalizia dalle mani di san Giovanni Paolo II.

A rendere ancor più accattivante il volume concorre il fatto che l’autore è rimasto famoso per aver avanzato l’ipotesi che l’inferno, pur esistendo realmente, sia completamente vuoto.

Ma andiamo per ordine. Con il termine “escatologia” viene indicata quella parte della teologia che prende in considerazione gli eventi finali (l’aggettivo éskhatos in greco significa “ultimo”) riguardanti l’esistenza umana, ovvero la morte, il giudizio divino, l’inferno e il paradiso.

E proprio alle questioni escatologiche sono dedicati i due saggi contenuti nel presente volume, risalenti al 1955 e rimasti inediti sino a oggi. Nel primo scritto, Von Balthasar presenta i tentativi precristiani di dare soluzione al problema delle cose ultime, prestando particolare attenzione a quello platonico e a quello stoico; si sofferma poi a descrivere “la curva dell’escatologia occidentale” sino all’approdo hegeliano, e conclude la sua trattazione sintetizzando il messaggio cristiano, che egli vede imperniato su due elementi insostituibili: la convinzione che “unicamente Dio è la realtà ultima dell’uomo” e la certezza che “l’accesso alla vita eterna di Dio è dischiuso da Cristo”. Tra le verità contenute nel “Credo” della chiesa cattolica vi è quella della discesa agli inferi di Cristo che, prima della resurrezione, si recò nella dimora dei morti per annunziare la salvezza anche in quel luogo, rendendo con ciò palese l’immensa ampiezza della sua opera redentrice.

Il particolare interesse manifestato da Von Balthasar per tale articolo di fede è stato considerato da Joseph Ratzinger il vero contrassegno dell’escatologia del teologo svizzero. In questo contesto speculativo, l’ipotesi che all’inferno non vi sia nessuno poteva far pensare alla riproposizione di un’antica dottrina giudicata eretica, quella dell’apocatastasi, sostenuta dal grande pensatore cristiano Origene, vissuto nel III secolo, secondo cui alla fine dei tempi avrà luogo una redenzione universale che riguarderà anche Satana, rendendo così evidente il fatto che l’inferno non è una realtà definitiva. È noto che Von Balthasar non volle mai allontanarsi dalla verità professata dalla chiesa: non casualmente, egli afferma che l’indagine sulla misteriosa discesa di Cristo agli inferi mira “a sviluppare tutto il concetto di grazia e redenzione che ci è accessibile nella fede”.


M. Schoepflin, in Il Foglio 28 giugno 2017

Non è infrequente il rimprovero, peraltro spesso infondato, mosso alla Chiesa dei nostri tempi di non parlare più delle cose ultime (tradizionalmente indicate in morte, giudizio, paradiso e inferno). Nella dottrina sono considerati gli eventi, le situazioni e le implicazioni che giungono al termine dell’esistenza e che si spingono fin verso il confine, superato il quale si trasformano nella perfezione che le creature di Dio acquistano nella comunione finale con Cristo.

Troppo pesantemente la cultura moderna ha implicato uno stare prima della linea, un al di qua che deve, di necessità, racchiudere e completare ogni nostro disegno e ogni nostro pensiero, il senso stesso della nostra esistenza. In questo modo le “cose ultime" sono diventate cose di questo mondo, elementi definibili tra altri elementi, quasi oggetti di una riflessione che si limita a inserirli nel contesto loro abituale e lì rimangono in attesa della morte che li cancellerà per sempre derubricando la riflessione che li ha preceduti a ingenua e ridicola dabbedaggine di uomini ritardatari, fermi sulla via del progresso.

In realtà, secondo il pensiero del grande teologo Hans Urs von Balthasar, le cose ultime, «per quanto diversamente la si possa pensare - come morte e poi più nulla o come aldilà cristiano o in qualche altro modo religioso - si ripercuotono immancabilmente, come conclusiva interpretazione di senso, su tutto l'esserci temporale: qui viene alla luce che cosa la vita è stata ed è». Quindi, il pensiero escatologico è tutto il contrario del disinteresse per l'esserci temporale dell'uomo nelle sue manifestazioni mondane e terrestri.

È in questo nodo problematico che si delinea una vera e propria “teologia della finitezza" capace di tener testa alla nozione di finitudine che negli anni Cinquanta, gli anni nei quali sono stati scritti i due saggi che Queriniana pubblica nella «Biblioteca di Teologia Contemporanea» (Hans Urs von Balthasar, Escatologia del nostro tempo. Le cose ultime dell'uomo e il cristianesimo), la cultura filosofica del tempo diffondeva attraverso il pensiero esistenzialista di Heidegger, Sartre, Jaspers.

Questo tener testa di von Balthasar è apprezzabile non solo per il periodo, che anche per il suo lavoro fu sostanzialmente di ricerca e di consolidamento della sua opera in fieri, ma soprattutto per il nostro presente, nel quale alla finitezza esistenzialista, sostanzialmente atea, si è sostituito un pensiero che nella finitezza coglie solo l’inciampo grave che le tradizioni di pensiero, teologico o no, pongono all'incedere vincente del progresso tecnico-scientifico.

Le cose ultime appaiono sempre più penultime, sempre meno oggetto di riflessione e sempre più oggetto di un interesse orientato al loro superamento nella dimensione del prolungamento tecnico della vita, quando non all'inserimento e all'esaurimento della vita all'interno del processo tecnico-economico della sua valorizzazione.

Nei due saggi, inediti, presentati con la prefazione di Alois M. Haas e una postfazione di Jan-Heiner Tück, il pensiero di von Balthasar raccoglie la sfida dell'epoca consentendo al lettore la possibilità di rilanciarla nel presente, oltre che di leggerli non come due reperti di una discussione esaurita e già storicizzata, ma come il ripresentarsi della soluzione cristiana al problema del mondo. In Escatologia del nostro tempo e in Le cose ultime dell'uomo e il cristianesimo, scrive Jan-Heiner Tück, «sono già anticipati i motivi decisivi che determinano anche i successivi lavori escatologici» del teologo e, soprattutto, il fermo orientamento cristologico dell'escatologia.

I termini nei quali per von Balthasar si esprimerà la soluzione cristiana al problema delle cose ultime, il cristiano universalismo della salvezza, fondato sulla teologia della Croce e del Descensus Christi, sarà indicato, osserva Tück, da Joseph Ratzinger come il vero nucleo del pensiero di uno dei più importanti teologi moderni.


R. De Benedetti, in Avvenire 16 maggio 2017

Pubblicato originariamente in Germania nel 2005 in occasione dei cento anni della nascita del teologo cattolico Hans Urs von Balthasar (1905-1988), come quinto volume degli Studienausgabe, il testo presenta due contributi, scritti in una prosa espressivamente e teologicamente potente: «Un lavoro scritto negli anni Cinquanta del secolo scorso, ma mai pubblicato per motivi non più ricostruibili», dedicato al problema cristiano dell’escatologia; e «un testo più breve sul medesimo tema che assillò Balthasar fino alla sua dissertazione per il dottorato» (Prefazione, 5), pubblicata nel 1930, che rende disponibile un contributo di notevole importanza sull’escatologia «come centro della teologia» (99).

Il primo contributo, Escatologia nel nostro tempo, databile tra il 1954 e il 1955 – pur essendo in continuità con i lavori letterario-teologici che Balthasar aveva dedicato all’escatologia negli anni Trenta con i volumi Geschichte des eschatologischen Problems in der modernen deutschen Literatur (1930) e Apokalypse der deutschen Seele. Studien zu einer Lehre von letzten Haltungen (1937-1939), dei quali riprende, soprattutto nella I parte, tutta una serie di riflessioni e intuizioni filosoficometafisiche e storico-teologiche – è una loro radicale ricollocazione in una chiave strettamente cristologica. Se le «cose ultime» sono «l’orizzonte trascendente dell’esserci» (10), solo Gesù Cristo «è in grado di conferire all’esserci umano e di inscrivere in esso un senso trascendente, ininterrotto, eterno» (34-35). È l’incarnazione del Figlio, la discesa di Dio nel tempo, a fare in modo che a tutte le esperienze umane venga offerto «un nuovo spazio in Dio» (35), «un compimento di senso nell’eternità di Dio» (36). Nessuna filosofia escogitata dall’uomo ha mai lontanamente potuto presentire o immaginare «che Dio dischiudesse all’uomo defunto la sua vita eterna, per introdurlo, elevarlo ed eternizzarlo con tutta la sua temporalità ed esistenza temporale per mezzo di un miracolo nuovo ancora più alto di quello della creazione» (42).

Grazie all’influsso di Adrienne von Speyr, la cui presenza, a partire dagli anni Quaranta, si fa sempre più decisiva e operante nei suoi scritti, ma anche grazie alle riflessioni di Henry de Lubac e di Erich Przywara, e di quei poeti e scrittori francesi, come Charles Peguy, che sono stati profondamente segnati da un serrato confronto con il dogma dell’inferno, Balthasar affronta il tema teologico del «descensus ad inferos» di cui parla il Credo, partendo dal «mistero del Sabato santo», che si palesa come l’elemento più innovativo della sua teologia della speranza. Se Cristo è disceso nell’assoluta disperazione dello Še’ôl, «sotto i suoi passi le porte dell’inferno sono state aperte, le catene eterne sono state spezzate e coloro che stavano nella tenebra e in ombre di morte sono stati avvolti dalla grande luce» (52). Nello Še’ôl – scrive Balthasar – ha iniziato «a muoversi la speranza di Cristo, che non può scaturire da altra fonte se non dalla redenzione della croce e dall’abbandono di Dio provato da Cristo stesso» (53).

Se il cristianesimo è «la religione della redenzione» (54), perché l’amore di Dio per l’uomo è arrivato a tale punto da dare il suo unico Figlio, ogni essere umano può avere fiducia nel giorno del giudizio (cf. 1Gv 4,17), in quanto la speranza cristiana, riferita al giudizio del Redentore, sta al di là dell’autaut di Origene e Agostino, per cui resta del tutto aperta la possibilità di collegare gli insondabili giudizi di Dio con «la speranza che tutti gli uomini siano salvati» (60), perché, come dice Teresa di Lisieux, assieme a molti altri santi, «non si può sperare troppo da Dio» (62). Se «il nostro morire e risorgere, anzi il nostro stesso essere giudicati, il nostro andare all’inferno e in paradiso non possono cadere al di fuori del campo cristologico» (62), il tempo umano risulta del tutto inserito nell’eternità di Dio. L’essere umano possiede la grazia di vivere «la sua terra nel cielo, persino la sua mortalità nel mondo della risurrezione» (63) e in lui ogni fibra del suo essere anela a che «tutto “ciò che è mortale venga assorbito dalla VITA” (2Cor 5,1-4)» (64). Contro il platonismo e la mistica platonizzante che partono ancora dalla contrapposizione tra idea e manifestazione, Balthasar ritiene che solo l’escatologia orientata in senso cristologico possa salvaguardare «la piccola effimera durata della creatura, e ogni umile bellezza del divenire e del passare, del morire e dell’avvizzire, del guadagnare e del perdere può trovare compimento e manifestare il suo lato di eternità» (70).

Il secondo contributo – Le cose ultime dell’uomo e il cristianesimo –, databile sul finire degli anni Venti, è volto a essenzializzare la riflessione escatologica in uno stretto dialogo con l’uomo moderno il quale, a differenza di quello antico, è «metafisicamente rassegnato» (76) e sembra essersi «stancato di interrogarsi a fondo oltre il tempo, sull’eterno» (76). Di fronte alla visione del mondo tipica della scienza moderna, il cristiano sa, come del resto l’ebreo dell’Antico Testamento, che la sua fede «non è legata a una determinata cosmologia», e che la sua vita può essere pienamente compresa solo a partire da Dio, «dal sovratempo, dall’eternità» (78), perché «Dio è la cosa ultima dell’uomo, unicamente Dio» (79). Se la scienza moderna consente di vedere la morte in un senso mitico, come «sopravvivenza, sia pure mutata e superiore, di ciò che c’era prima» (79), in un aldilà immaginario, il cristianesimo la coglie, invece, come un cercare «nell’eternità, in Dio, la verità della vita temporale vissuta una volta per tutte» (80) e «la risurrezione della carne è l’unico salvataggio dell’esistenza terrena in Dio» (84).

Se Dio è la cosa ultima dell’uomo, il giudizio su ogni essere umano – ognuno per sé ma anche tutti insieme – avverrà alla presenza della «verità eterna di Dio» (81), di fronte a quella «misura di Dio» (85) che, soltanto, è capace di assegnare la piena verità a ogni nostro pensiero e azione. Il fatto che Gesù Cristo abbia assunto la nostra natura umana e che abbia in tal modo «sperimentato con un cuore eterno i brividi dolci e amari dell’esistenza» (86), sarà per ogni uomo motivo di salvezza, ma anche l’estremo pericolo per coloro che, volontariamente, avranno calpestato il Dio vivente (cf. Eb 10,26.29.31). È qui che la purificazione dei molteplici «no» e delle resistenze più recondite che l’uomo avrà opposto a Dio assume un pieno significato. Tale purificazione va pensata come un atto estremamente doloroso e imbarazzante che non ci permetterà «di distogliere lo sguardo da quest’occhio dell’amore che ci abbatte nella vergogna e nel disonore, quest’occhio che scruta – fisso – noi che non siamo abituati all’amore» (89). Questa potenza purificatrice dell’amore divino può avere corso già in vita, come scrive Giovanni nell’Apocalisse, qui ampiamente citata da Balthasar, ma essa è talmente esigente – una sorta di «chirurgia per le anime» (91) –, da poter essere rifiutata, da renderle possibile il mistero del rifiuto di Dio.

Di fronte a tale drammatica possibilità, il paradiso resta, per la creatura, non un luogo delimitato da un altro luogo, ma quell’essere presso Dio, quello stare verso di lui costantemente aperti. Scegliere il paradiso vuol dire scegliere Dio, «il fondamento senza fondo e l’abisso sui cui io riposo, dal quale salgo, senza mai staccarmi da esso» (92). In esso tutto il mio essere temporale – tutto ciò che ciascuno ha veramente seminato – si svelerà nella sua eterna profondità, nel suo appartenere a Dio.


G. Coccolini, in Il Regno Attualità 8/2017, 229