Nella Chiesa da tempo si è sollecitata la riflessione sulla sesta domanda del Padre nostro «Non ci indurre in tentazione», perché venga riformulata in modo più consono alla sensibilità contemporanea e più coerente con la predicazione di un Dio misericordioso. L’approvazione della terza edizione del Messale Romano ha formalizzato un cambiamento, con la traduzione «E non abbandonarci alla tentazione». Altre proposte erano state ventilate, come quella di p. Pietro Bovati in questa rivista: «Non metterci alla prova» (cfr Civ. Catt. 2018 I 215-227). Altre ancora erano state formulate da studiosi e persino approvate da episcopati.
Thomas Söding, professore di Esegesi del Nuovo Testamento a Bochum (Germania), raccoglie 11 interventi teologici – cattolici ed evangelici –, che sottolineano i pro e contro di una modifica linguistica, ma soprattutto approfondiscono le ragioni di questo delicato cambiamento. Non si tratta infatti di un problema letterario – la traduzione è corretta (compresa quella latina: Et ne nos inducas in tentationem); il verbo ha un significato attivo: «condurci dentro»; il sostantivo greco peirasmos significa proprio «tentazione, tentativo, esame, prova» –, ma teologico. C’è sullo sfondo l’irrisolto problema del male nel mondo e della sofferenza innocente. Da un lato, la lettera di Giacomo (cfr Gc 1,12-15) esclude che sia Dio a tentare l’uomo al male; e tuttavia Dio «tenta», nel senso che mette alla prova i suoi servitori, facendoli sentire in pericolo e sfidandoli a combattere per rafforzarli. Dall’altro lato, Gesù al Getsemani invita i discepoli a vegliare «per non entrare in tentazione», per non scivolare nella pigra indifferenza o nel tremendo rinnegamento. Tacendo in certi momenti della storia, Dio stesso provoca sia la sfiducia in lui, sia la testarda supplica: «Non smettere di liberarci dal male».
Sono due donne – la cattolica Julia Knop, di Erfurt, e l’evangelica Isolde Karle, di Bochum – a focalizzare la perplessità decisiva. La correzione proposta («Non abbandonarci alla tentazione») suona più gradevole alla sensibilità moderna, ma riduce la complessità misteriosa e abissale di Dio, il quale è contemporaneamente giusto e misericordioso. Dio espone gli esseri umani alla possibilità del fallimento – il male che Egli certamente non fa, però lo permette – e, d’altra parte, proibisce loro di metterlo alla prova, mormorando contro di lui ed esigendo da lui un bene materiale come in una negoziazione ricattatoria («Facci questa grazia, e noi ti crederemo»).
Gesù, insegnando il Padre Nostro, ci invita a chiedere al Padre di lasciarci determinare dalla libertà divina (non viceversa), facendoci condurre nelle sconosciute regioni di un Regno escatologico (cui alludono gli altri versetti della preghiera: «Venga il tuo regno, sia santificato il tuo nome»), dove si è risparmiati dagli esiti nefasti della tentazione solo se si prega Dio di non cadervi irreparabilmente (cfr Mt 26,41). Di fronte alla possibilità di essere abbandonato, nel tempo della prova, dal principio buono del mondo, il credente invoca il Padre: «Non metterci in crisi oggi, non portarci a disperare in te dinanzi alla croce di Cristo!» (p. 139). Il male, che Dio non crea né manda, rimane comunque nella sfera del potere divino, che tutto abbraccia nella sua mano e che, offrendosi a noi nel Figlio, «si è esposto al massimo rischio del male» (p. 197).
Il Padre Nostro non è un trattato dogmatico, ma è una preghiera di supplica, che orienta il desiderio dell’orante e ne provoca una maturazione. Dio sa ciò di cui abbiamo bisogno, ma vuole che glielo chiediamo, affinché la nostra volontà si conformi alla sua volontà, che non coincide a priori con la nostra, perché egli non è un idolo. Dio ha pensieri e vie che non sono i nostri: ci contesta e si rende irreperibile ai cuori ostinati. Di lui però conosciamo e crediamo la tenerezza, al punto da domandargli di «liberarci dal male». Quando l’ora delle tenebre si avvicina, noi imitiamo l’atteggiamento del Figlio, il quale avverte la lontananza dell’Abbà, esprime lealmente le proprie angosce, chiede umilmente che l’amaro calice sia allontanato, ma non attende passivamente una soluzione magica, gioca invece tutto sulla preghiera d’invocazione.
P. Cattorini, in
La Civiltà Cattolica 4088 (17 ottobre/7 novembre 2020) 193-194