Si racconta che il confessore di un granduca di Toscana, un frate cappuccino, al suo penitente moribondo avesse ingenuamente suggerito: «Altezza, è bello andare in paradiso!». Ma il granduca con un filo di voce replicò: «Ma io sto così bene anche a Palazzo Pitti!». Uno degli effetti non voluti del coronavirus è stato quello di sbattere in faccia a tanti un volto sempre esorcizzato, quello che pochi chiamano con san Francesco «Sorella Morte». Di fronte ad essa le reazioni spesso sono spontaneamente affini a quella del granduca. Nelle ultime settimane, non di rado, l’incontro con la morte non ha avuto neppure quel corteo di atti rituali consolatori che sono in vigore anche in questa civiltà secolarizzata.
Tutte le religioni hanno cercato in forme diverse di varcare la frontiera mortale che è il segno più netto della nostra creaturalità, cercandovi «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come suggeriva Rilke. Lo stesso desiderio di gettare uno sguardo oltre quel limite ha pervaso per secoli la storia dell’arte, della letteratura e della filosofia (Platone insegna) in mille iconografie e tipologie diverse di terrore e di gloria. Persino Clint Eastwood, ad esempio, ha raccolto questa sfida nel 2011 col film Aldilà, esplicito già nel titolo. Naturalmente un coro parallelo di negatori si è affacciato in quell’«oltre», convinti col Caproni del Franco cacciatore, che la «morte è un trapasso. / Certo, dal sangue, al sasso».
Imponente e incessante è, dunque, la bibliografia che si è insediata su questo terreno confinario minato, tenendo spesso i piedi piantati sulle zolle terrestri e terrene, come ha fatto recentemente in un’auto-confessione quieta eppur incandescente il grande genetista non credente Edoardo Boncinelli col suo Essere vivi e basta, emblematicamente sottotitolato «Cronache dal limite». Il suo è un percorso accidentato su quel crinale tagliente, avanzando con lucida attenzione, ma anche sballottato dal vento di una tempesta, «confuso e allucinato nella testa, sofferente e incontrollabile nel corpo», in pratica col bagaglio pesante della fragilità legata alla vecchiaia. Tanti sono i pensieri e le emozioni che hanno suscitato in me, di poco lontano dall’età del professore, pur nella diversità degli approcci, le sue pagine pacatamente agitate. Ma non li svilupperò perché, nella carrellata di testi recenti sul tema in questione, dedicherò la selezione solo a chi guarda «al di là», sia pure da angolature diverse.
Il primo a venire idealmente incontro è un noto esegeta di Tubinga, Gerhard Lohfink, coi suoi 86 anni e con un saggio scandito da un interrogativo lapidario Alla fine il nulla?, subito però attutito e neutralizzato dal sottotitolo pacificamente cristiano, «Sulla risurrezione e sulla vita eterna». Questa dualità è, in un certo senso, strutturale al testo. Infatti, esso si apre con una lunga disamina sul «che cosa si pensa riguardo all’aldilà», un orizzonte nel quale non è accampata solo la legione di coloro che impugnano il drappo nero del Nulla, ma neppure la processione di coloro che inalberano il vessillo bianco pasquale. Si muovono, infatti, tante pattuglie con soluzioni intermedie. Dal quesito «Che cosa avverrà di noi?», dotato nel libro di un ampio spazio di pagine, si ramifica un grappolo di risposte le più varie.
Ci si può aggrappare all’immortalità «mnemonica», non rara anche in alcune concezioni religiose, ossia nel sopravvivere rimanendo incisi su quella lastra tombale viva che è la memoria dei posteri. Oppure ci si abbandona al flusso incessante della natura, la grande creatrice, gigantesca macchina che tutto produce e trasforma in un ciclo costante. In questa linea, anche se pubblicato in forma anonima nel 1783, si muoveva il Frammento sulla natura che esprimeva la concezione del giovane Goethe: «La natura, come mi ha messo qui, così mi porterà via. Ho fiducia in lei. Non odierà la sua opera... Tutto è colpa sua, tutto è merito suo». Ma la ricerca di Lohfink è squisitamente teologica e il suo programma, molto articolato (talvolta anche un po’ verboso e predicatorio), ha il compito di trasferire il lettore dal «nulla» del titolo alla «risurrezione e vita eterna» del sottotitolo.
Nell’Otello verdiano il perfido alfiere Jago non esita a cantare: «La Morte è il Nulla / e vecchia fola il Ciel» (Atto II, Scena II). In antitesi ideale il teologo tedesco intona, invece, il Resurrexit cristiano, ricercandone le radici nell’esperienza dell’Israele biblico, attestandosi poi in modo pieno sul «che cosa venne al mondo con Gesù». L’evento cristiano vede l’incrocio stretto tra l’umano mortale e il divino eterno per una nuova creazione che il teologo Joseph Ratzinger delineava così: «Nella risurrezione la materia apparterrà allo spirito in modo del tutto nuovo e definitivo e che per questo sarà tutt’uno con la materia». Finito e infinito intrecciati inestricabilmente, temporale e trascendente avvinghiati in unità, al modo dell’espressione paolina «Dio sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).
Sta di fatto che quella frontiera interpella un po’ tutti, anche un non credente come il filosofo e scienziato francese Pierre-Henri Castel che sottotitola un suo scritto così: «Saggio incalzante sulla fine dei tempi», ridimensionato da un titolo più pessimistico ma pertinente, Il male che viene. La sua è un’apocalisse senza il regno di Dio finale. Le sue riflessioni non si appoggiano a nessuna fede, pur transitando per i crocevia ideali soprattutto cristiani. Il suo sguardo sulla storia, sulle varie follie umane a livello planetario, sugli sconvolgimenti della natura e della stessa nostra esistenza fisica (e qui può riaffacciarsi il Covid-19) lo conduce a un estuario antitetico rispetto a quello cristiano: «La dinamica del peggio è l’unica a rendere conto del carattere intrinsecamente traboccante del Male».
È, quindi, un confronto dialettico aspro con la speranza che regge l’escatologia cristiana. Ma è anche un vaccino contro ogni semplificazione consolatoria o astrazione illusoria dal terreno della storia: significativo è il duello finale che simbolicamente anche l’Apocalisse neotestamentaria mette in scena tra Babilonia e Gerusalemme, tra la Prostituta e la Sposa, tra la Bestia e la Chiesa, ma con un esito radicalmente differente da quello prospettato da Castel.
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 12 aprile 2020, IX