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Il male che viene
Pierre-Henri Castel

Il male che viene

Saggio incalzante sulla fine dei tempi

Prezzo di copertina: Euro 11,00 Prezzo scontato: Euro 10,45
Collana: Books
ISBN: 978-88-399-2893-1
Formato: 13,5 x 21 cm
Pagine: 96
Titolo originale: Le mal qui vient. Essai hâtif sur la fin des temps
© 2020

In breve

Noi stiamo vivendo i tempi della fine che precedono la fine dei tempi: «Fra l’ultimo uomo e me trascorrerà meno tempo che fra me e, per dire, Cristoforo Colombo». Ecco la prospettiva di cui sondare le conseguenze. Senza inutili allarmismi.

Un libro controcorrente, che si interroga sul futuro della terra e dell’umanità, scrutando seriamente e laicamente l’attuale orizzonte apocalittico.

Descrizione

Questo breve saggio nasce da un’idea a prima vista insopportabile: la fine della storia è ormai cosa certa. È insomma passata l’epoca in cui potevamo sperare di impedire, con un ultimo sussulto di orgoglio collettivo, l’annientamento prossimo del nostro mondo. È iniziato il tempo in cui la fine dell’umanità è diventata del tutto certa, nel volgere di un periodo storico abbastanza breve.
Ne consegue che affrettarsi a distruggere tutto, magari provandoci gusto, diventerà non solo sempre più allettante, ma anche sempre più ragionevole: che altro resta da fare, infatti, se tutto è perduto? Anzi, per certi versi la tentazione del peggio anima fin da ora coloro che sanno che viviamo i tempi della catastrofe finale.
Sotto questa luce crepuscolare, il Male – così come la violenza e il senso della vita – cambia valore e contenuto. Castel se ne lascia interpellare ed esplora le conseguenze – talora paradossali – di questa prospettiva reale, già presente più che futuribile. Al Male imminente, esiste forse un qualunque Bene da opporre? Insomma: siete pronti per la fine del mondo?.

Recensioni

Si racconta che il confessore di un granduca di Toscana, un frate cappuccino, al suo penitente moribondo avesse ingenuamente suggerito: «Altezza, è bello andare in paradiso!». Ma il granduca con un filo di voce replicò: «Ma io sto così bene anche a Palazzo Pitti!». Uno degli effetti non voluti del coronavirus è stato quello di sbattere in faccia a tanti un volto sempre esorcizzato, quello che pochi chiamano con san Francesco «Sorella Morte». Di fronte ad essa le reazioni spesso sono spontaneamente affini a quella del granduca. Nelle ultime settimane, non di rado, l’incontro con la morte non ha avuto neppure quel corteo di atti rituali consolatori che sono in vigore anche in questa civiltà secolarizzata.

Tutte le religioni hanno cercato in forme diverse di varcare la frontiera mortale che è il segno più netto della nostra creaturalità, cercandovi «l’altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi», come suggeriva Rilke. Lo stesso desiderio di gettare uno sguardo oltre quel limite ha pervaso per secoli la storia dell’arte, della letteratura e della filosofia (Platone insegna) in mille iconografie e tipologie diverse di terrore e di gloria. Persino Clint Eastwood, ad esempio, ha raccolto questa sfida nel 2011 col film Aldilà, esplicito già nel titolo. Naturalmente un coro parallelo di negatori si è affacciato in quell’«oltre», convinti col Caproni del Franco cacciatore, che la «morte è un trapasso. / Certo, dal sangue, al sasso».

Imponente e incessante è, dunque, la bibliografia che si è insediata su questo terreno confinario minato, tenendo spesso i piedi piantati sulle zolle terrestri e terrene, come ha fatto recentemente in un’auto-confessione quieta eppur incandescente il grande genetista non credente Edoardo Boncinelli col suo Essere vivi e basta, emblematicamente sottotitolato «Cronache dal limite». Il suo è un percorso accidentato su quel crinale tagliente, avanzando con lucida attenzione, ma anche sballottato dal vento di una tempesta, «confuso e allucinato nella testa, sofferente e incontrollabile nel corpo», in pratica col bagaglio pesante della fragilità legata alla vecchiaia. Tanti sono i pensieri e le emozioni che hanno suscitato in me, di poco lontano dall’età del professore, pur nella diversità degli approcci, le sue pagine pacatamente agitate. Ma non li svilupperò perché, nella carrellata di testi recenti sul tema in questione, dedicherò la selezione solo a chi guarda «al di là», sia pure da angolature diverse.

Il primo a venire idealmente incontro è un noto esegeta di Tubinga, Gerhard Lohfink, coi suoi 86 anni e con un saggio scandito da un interrogativo lapidario Alla fine il nulla?, subito però attutito e neutralizzato dal sottotitolo pacificamente cristiano, «Sulla risurrezione e sulla vita eterna». Questa dualità è, in un certo senso, strutturale al testo. Infatti, esso si apre con una lunga disamina sul «che cosa si pensa riguardo all’aldilà», un orizzonte nel quale non è accampata solo la legione di coloro che impugnano il drappo nero del Nulla, ma neppure la processione di coloro che inalberano il vessillo bianco pasquale. Si muovono, infatti, tante pattuglie con soluzioni intermedie. Dal quesito «Che cosa avverrà di noi?», dotato nel libro di un ampio spazio di pagine, si ramifica un grappolo di risposte le più varie.

Ci si può aggrappare all’immortalità «mnemonica», non rara anche in alcune concezioni religiose, ossia nel sopravvivere rimanendo incisi su quella lastra tombale viva che è la memoria dei posteri. Oppure ci si abbandona al flusso incessante della natura, la grande creatrice, gigantesca macchina che tutto produce e trasforma in un ciclo costante. In questa linea, anche se pubblicato in forma anonima nel 1783, si muoveva il Frammento sulla natura che esprimeva la concezione del giovane Goethe: «La natura, come mi ha messo qui, così mi porterà via. Ho fiducia in lei. Non odierà la sua opera... Tutto è colpa sua, tutto è merito suo». Ma la ricerca di Lohfink è squisitamente teologica e il suo programma, molto articolato (talvolta anche un po’ verboso e predicatorio), ha il compito di trasferire il lettore dal «nulla» del titolo alla «risurrezione e vita eterna» del sottotitolo.

Nell’Otello verdiano il perfido alfiere Jago non esita a cantare: «La Morte è il Nulla / e vecchia fola il Ciel» (Atto II, Scena II). In antitesi ideale il teologo tedesco intona, invece, il Resurrexit cristiano, ricercandone le radici nell’esperienza dell’Israele biblico, attestandosi poi in modo pieno sul «che cosa venne al mondo con Gesù». L’evento cristiano vede l’incrocio stretto tra l’umano mortale e il divino eterno per una nuova creazione che il teologo Joseph Ratzinger delineava così: «Nella risurrezione la materia apparterrà allo spirito in modo del tutto nuovo e definitivo e che per questo sarà tutt’uno con la materia». Finito e infinito intrecciati inestricabilmente, temporale e trascendente avvinghiati in unità, al modo dell’espressione paolina «Dio sarà tutto in tutti» (1Corinzi 15,28).

Sta di fatto che quella frontiera interpella un po’ tutti, anche un non credente come il filosofo e scienziato francese Pierre-Henri Castel che sottotitola un suo scritto così: «Saggio incalzante sulla fine dei tempi», ridimensionato da un titolo più pessimistico ma pertinente, Il male che viene. La sua è un’apocalisse senza il regno di Dio finale. Le sue riflessioni non si appoggiano a nessuna fede, pur transitando per i crocevia ideali soprattutto cristiani. Il suo sguardo sulla storia, sulle varie follie umane a livello planetario, sugli sconvolgimenti della natura e della stessa nostra esistenza fisica (e qui può riaffacciarsi il Covid-19) lo conduce a un estuario antitetico rispetto a quello cristiano: «La dinamica del peggio è l’unica a rendere conto del carattere intrinsecamente traboccante del Male».

È, quindi, un confronto dialettico aspro con la speranza che regge l’escatologia cristiana. Ma è anche un vaccino contro ogni semplificazione consolatoria o astrazione illusoria dal terreno della storia: significativo è il duello finale che simbolicamente anche l’Apocalisse neotestamentaria mette in scena tra Babilonia e Gerusalemme, tra la Prostituta e la Sposa, tra la Bestia e la Chiesa, ma con un esito radicalmente differente da quello prospettato da Castel.


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 12 aprile 2020, IX

L’idea della fine dei tempi è un’idea ricorrente nella storia e riemerge pure nel nostro tempo con connotati diversi. L’inverno nucleare durante la Guerra fredda, il riscaldamento globale oggi: l’euristica della paura fa prendere coscienza dei problemi ma può produrre anche l’effetto contrario, paralizzante, che dà luogo a un atteggiamento cinico e fatalista. Il breve saggio percorre il labirinto delle interpretazioni antropologiche e scientifiche che adombrano la possibilità di una catastrofe a piccoli passi.


G. Azzano, in Il Regno Attualità 6/2020, 160

Sono molti gli intellettuali laici che negli ultimi decenni si sono cimentati con i temi delle cose ultime e, all'ingresso nel XXI secolo, si parlò di ritorno di un "pensiero della fine dei tempi". Fra i primi, già nel 1995, Norberto Bobbio pronunciò a Torino un intervento sull'aldilà che fece molto discutere: «Qualche volta, pensando alla morte di una persona cara - disse il filosofo -, mio padre ad esempio, so che quella persona che ho amato ora non c'è più. E che ci sia qualcosa di lui in un altro luogo - che non so dove sia - a me non importa assolutamente nulla». Parole amare, più che dure. Poco prima aveva provato a descrivere a suo modo, alludendo a un'iniziativa di questo giornale che aveva chiesto ai suoi lettori di inviare racconti sull'Apocalisse, l'ultimo giorno della vita sulla Terra: tutto sommato molto banale.

Da parte sua un altro maitre-à-penser della cultura laica, Umberto Eco, sulla rivista "Liberal" in quegli anni scrisse: «Ciascuno gioca con il fantasma dell'Apocalisse e al tempo stesso lo esorcizza. Il pensiero della fine dei tempi è oggi più tipico del mondo laico che di quello cristiano». Un esempio di questa tendenza è il recente volume dello scienziato e filosofo francese Pierre-Henri Castel, Il male che viene. Saggio incalzante sulla fine dei tempi, un tentativo stimolante di affrontare l'idea di un orizzonte apocalittico secondo una prospettiva non religiosa.

Se nel dopoguerra simili prove vennero affrontate da pensatori come Jaspers, Jonas e Anders, soprattutto in riferimento alla possibilità di un'estinzione dell'umanità a causa di una guerra nucleare, ora sono gli scenari del cambiamento climatico o di una catastrofe dovuta a epidemie (come la vicenda del coronavirus sta a dimostrare) a definire la retorica della fine del mondo. Se l'angoscia si era un poco attenuata dopo il crollo del muro di Berlino e la fine della contrapposizione fra Est e Ovest, ciò non significa affatto che la questione sia caduta nell'oblio. Una volta la minaccia si basava su contrapposizioni ideologiche e nasceva dalla volontà di supremazia sul globo, ora deriva dal nostro stesso sistema di vita. Sostiene Castel: «Produrre i nostri alimenti in quantità industriale per quello che sembra essere il bene delle masse; alimentare di energia i luoghi in cui viviamo e lavoriamo; disfarci dei nostri rifiuti - in breve, vivere non solo normalmente ma, in molti casi, in stretta conformità con i nostri ideali di benessere individuale e collettivo e perfino con l'idea che ci facciamo della libertà e della giustizia, ecco cosa ci garantisce ormai lo sterminio». Il tutto «sullo sfondo di siccità e inondazioni, di carestie, di ingiustizie sociali dapprima circoscritte e poi generalizzate, di migrazioni, di epidemie, di crisi economiche». In poche parole, è il funzionamento stesso della civiltà, il modello del capitalismo che tutto riduce a merce e vuole riprodursi ovunque, a cospirare alla propria autodistruzione.

Ma l'analisi di Castel resta a livello filosofico e deliberatamente non fa cenno alle iniziative di mobilitazione come i Friday for Future: ciò che gli sta a cuore è delineare il volto del «Male che viene», di quella che Anders chiamava «un'apocalisse senza regno». Pur consapevole di muoversi su un terreno già abbondantemente arato dalle tradizioni religiose, egli non mette in campo nessuna osservazione desunta dal cristianesimo o dal buddhismo e preferisce illustrare ciò in cui consiste l'ateismo vero: «La consapevolezza che il reale non è stato "fatto" (da nessuna potenza divina) né perché lo si conosca, né perché lo si viva, né perché se ne goda». Nichilismo puro? Andiamoci piano, dato che le sue provocazioni vanno prese sul serio. Chiamiamo semmai la sua posizione catastrofismo illuminato.

Che sia imminente o lontana, la fine del mondo avverrà. E con tutta probabilità accadrà che alcuni si rallegreranno a distruggere tutto, affrettando in qualche modo la fine. Gli ultimi uomini saranno ancor più cattivi e commetteranno i peggiori atti possibili. Sarà l'esplosione di una malvagità deliberata di cui gli orrori di Auschwitz e Hiroshima rappresentano solo i prodromi. «La dinamica del peggio – sottolinea ancora Castel - è l'unica a rendere conto del carattere intrinsecamente traboccante del Male». Va qui segnalato come fra i segni dell'imminenza della fine che compaiono nei Vangeli e negli scritti dei Padri della Chiesa vi siano proprio l'aumento della malvagità umana, la tribolazione dei santi, la comparsa di tanti falsi profeti. Fino all'avvento dell'Anticristo e allo scontro finale. In un noto passo di Matteo si legge: «Un popolo si solleverà contro un altro popolo, un regno contro un altro regno; vi saranno pestilenze, carestie e terremoti in vari luoghi... il sole si oscurerà, la luna non darà più la sua luce, le stelle cadranno dal cielo, e le potenze dei cieli saranno sconvolte». Tommaso d'Aquino parla di un regno universale del Maligno alla fine dei tempi, mentre Gregorio Magno nei suoi Dialoghi rileva come via via che il mondo attuale si avvicina alla fine, il mondo dell'eternità si lascia intravvedere più da vicino, ipotizzando quindi un aumento delle reciproche influenze fra terra e cielo.

Gli elementi essenziali dell'escatologia cristiana contemplano dunque la parusìa preceduta dall'ultima prova della Chiesa davanti all'Anticristo, la fine dei tempi, la resurrezione e il giudizio universale. E il Nuovo Catechismo precisa che «il Regno non si compirà attraverso un trionfo storico della Chiesa secondo un progresso ascendente, ma attraverso una vittoria di Dio sullo scatenarsi ultimo del male».

Di tutto questo, nella sua prospettiva esclusivamente laica, non c'è traccia nel saggio di Castel. Così anche la speranza, chiaramente affermata nella visione cristiana, è appena accennata ove egli parla di un Bene che possa opporsi al Male imminente. Dinanzi all'ebbrezza della distruzione, al perverso godimento del Male che dominerà gli ultimi giorni dell'umanità, quale Bene immaginare? Esso dovrà «divenire non intimidibile di fronte al Male che viene». Il che significa rifiutare di diventare protagonisti di azioni di stampo criminale: vivere in poche parole un soprassalto di umanità, ritrovare quelle qualità morali, quelle virtù come la sincerità o la compassione che ci contraddistinguono come esseri umani. Senza però cedere alla mitezza ma mostrando forza e fierezza. Combattendo dunque per il bene: «Né candore né innocenza e neanche gli epiteti tradizionali di cui si intreccia la corona dei santi».

Come si vede, un pensiero sulla fine dei tempi assai lontano da una Weltanschauung religiosa e in cui la dimensione della trascendenza è totalmente abbandonata. Così come l'idea che il bene che abbiamo fatto possa essere recuperato nell'aldilà. Si tratta di riflessioni più improntate a Freud e Nietzsche che ad esempio a un Camus, il quale senza essere cristiano non era disposto a rassegnarsi dinanzi all'ingiustizia e alla sofferenza, dinanzi alle "pesti" vecchie e nuove. In ogni caso, quelle di Castel costituiscono un pungolo per i credenti, che molto spesso hanno dimenticato di occuparsi delle cose ultime, e la dimostrazione che, se le ideologie sono cadute, non per questo i laici devono rinunciare ad avere valori forti, per i quali è possibile spendere la vita.


R. Righetto, in Avvenire 6 marzo 2020, 13