Fare dello sport un oggetto d’indagine non è poi così inusuale. Riflettere sistematicamente sulla sua componente teologica invece è una novità degna di nota. Lincoln Harvey, anglicano, dottore di teologia, ha proposto un lavoro dal titolo Breve teologia dello sport.
L’editoriale di Marco Dal Corso, che apre il volume 377, ne introduce la novità. È un libro che rientra nella collana «Giornale di Teologia», proposta dalla Queriniana e diretta da Rosino Gibellini. Quello di Harvey è un testo davvero interessante, in quanto riesce a proporre una ricostruzione storica, abbastanza scorrevole e sintetica, di come lo sport sia stato inteso fin dalle origini dal cristianesimo. Quanto si riesce a scoprire è molto interessante. Le pagine del libro accompagnano il lettore fornendo molte informazioni storiche capaci di arricchire quanti ne gustano la sintesi. Nello stesso si può comprendere come, attraverso i secoli, il gioco sia stato sempre presente e come il suo fascino sia stato avvertito da tutti i popoli che hanno abitato ed abitano la terra. Lo sport, in fondo, non è un fenomeno né locale né nuovo; è un fenomeno universale. Ovviamente, i toni ed i modi sono notevolmente cambiati, le motivazioni e la sacralità anche, ma resta il fatto che “il gioco è gioco” ed è bene rispettarne le caratteristiche. Vi sono realtà per le quali il concetto di scopo non esaurisce la loro ragion d’essere. Ecco, una di queste realtà è lo sport. Esso è – tecnicamente – “autotelico”. Ha il suo proprio (auto) scopo (télos). La parola “sport” deriva da “diporto” (disport) che, a sua volta, è formato da “portare” e “fuori” (dis-). Tradotto: quando giochiamo ci portiamo al di fuori delle attività necessarie alla nostra esistenza. Tutto ciò nel testo risulta molto chiaro. Lo sport non può essere “usato” ma solo vissuto. In fondo lo sport è una questione di gioco!
L’autore mette in risalto i chiari passaggi sull’atteggiamento che la Chiesa ha nutrito nei confronti del gioco. Dall’iniziale rifiuto alla sua utilizzazione, dalla condanna alla strumentalizzazione. Il rifiuto è rintracciabile in una serie di riflessioni che i primi Padri avanzarono relativamente agli spettacoli proposti all’epoca. Il valore religioso dei primi Giochi olimpici è evidente. Contro questa forma di divinizzazione si batterono i pastori cristiani. Non solo, alcuni giochi venivano condannati per la loro crudeltà, tanto da negare ai cristiani una libera partecipazione, cioè, senza conseguenza per la loro morale. La vita è sacra e perderla nel gioco è un peccato. Altri pensatori “non cristiani” invece ne esaltavano la capacità di rendere il corpo più adatto alla vita, associandolo alla formazione della mente. Il corpo e la mente devono essere curati. La diffusione capillare dello sport rese necessario un approfondimento. Se l’uomo è naturalmente attratto dagli spettacoli sportivi allora è bene capire la ragione di fondo. Il duplice atteggiamento che governava i primi secoli era perciò di ammonimento e di ammirazione. Ecco perché i Padri della Chiesa furono spinti a riflettere sullo sport. La Realpolitik di lungo corso del panem et circenses sembrava essere minata dalla decisione dell’imperatore Costantino, che decise di bandire i giochi gladiatorii nel 325 d.C. anche se, a dispetto di ogni divieto morale e civile, i giochi continuarono ad essere praticati. Allora la loro “utilizzazione” poteva essere l’arma vincente. Meglio permettere che proibire il gioco, a questa conclusione sembrava essere arrivata la Chiesa. Ovviamente, con qualche limitazione. Lo sport era accettabile se finalizzato a qualche scopo (come lo svago, la salute ecc.).
Harvey evidenzia nel testo anche la visione puritana dello sport, così come la visione medievale, arricchendo il volume di precisazioni storiche che impreziosiscono l’opera. Infatti, dai primi giochi romani al controverso periodo delle crociate, le analisi sono chiare e sintetiche. Molto interessante la precisazione che non tutti i giochi sono sport. Ma la particolarità che l’autore anglicano propone è l’accomunare lo sport al culto. È lo stesso ad affermare che: «Il culto è la celebrazione di chi è Dio; lo sport la celebrazione di chi siamo noi».
Dalla lettura del testo emerge come riflettere sullo sport può essere davvero produttivo. Inoltre, può catapultare tutti in un linguaggio da sempre espresso e mai “programmato”. La libertà che esprime un bambino nell’atto di giocare è singolare. Una esperienza ed una espressione di/da sogno. Quel sogno che alimenta la vita di chi, nel gioco, esprime il vero carattere. È lo stesso Harvey a rilevare come lo sport parli della nostra identità più profonda. Il gioco è gioco. E lasciamo che sia così. Uno spazio “altro” con le proprie regole, dimensioni e tempi. Ecco perché accomuna tutti, perché, in fondo, tutti sognano di “giocare”. Per i contenuti e l’originalità del volume, se ne raccomanda la lettura.
D. De Angelis, in
www.frammentidipace.it 9 febbraio 2017