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Breve teologia dello sport
Lincoln Harvey

Breve teologia dello sport

Prezzo di copertina: Euro 23,00 Prezzo scontato: Euro 21,85
Collana: Giornale di teologia 377
ISBN: 978-88-399-0877-3
Pagine: 256
Titolo originale: A Brief Theology of Sport
© 2015

In breve

Editoriale di Marco Dal Corso

Ricco di nozioni storiche e di considerazioni filosofico-teologiche, il saggio offre un contributo alla nostra comprensione del valore umano dello sport e del suo posto nella vita cristiana, oltre le facili letture che se ne danno di solito in chiave moralistica. Le tesi dell’Autore sono tanto incisive quanto provocatorie: nessuno, fra quanti leggeranno questo piacevole libro, guarderà più allo sport nello stesso modo di prima.

Descrizione

Che cos’è lo sport? Questo fenomeno popolarissimo, in realtà, ha a che fare con la nostra identità più profonda: partecipando a una gara entriamo in contatto con una dimensione primordiale e insopprimibile del nostro essere, immergendoci nel gioco facciamo risuonare quanto vi è di più basilare nella nostra libertà.
Il libro di Harvey, intelligente e stimolante, sa spaziare dalle Olimpiadi dell’antica Grecia ai gladiatori della Roma imperiale, dalle giostre e dai tornei medievali all’etica puritana, acerrima nemica di ogni passatempo. Una volta analizzata la dimensione storica, culturale e filosofica del gioco, Harvey richiama la dottrina dell’atto creatore di Dio e può così individuare lo sport come una sfera vitale separata. Lì ci dedichiamo a ciò che è privo di una utilità immediata, ma ricco di significato. Alla fine del ragionamento, lo sport si rivela come una celebrazione della nostra contingenza, del senso labile ed eterno del nostro essere creature. E allo sport si rivendica così un posto, prima insospettato, nel contesto dell’esistenza cristiana.
Un libro per chi pratica uno sport, per chi ne è tifoso e anche per chi rimane assolutamente perplesso di fronte alle pieghe assunte oggi dal mondo dello sport professionistico.

Recensioni

Fare dello sport un oggetto d’indagine non è poi così inusuale. Riflettere sistematicamente sulla sua componente teologica invece è una novità degna di nota. Lincoln Harvey, anglicano, dottore di teologia, ha proposto un lavoro dal titolo Breve teologia dello sport.

L’editoriale di Marco Dal Corso, che apre il volume 377, ne introduce la novità. È un libro che rientra nella collana «Giornale di Teologia», proposta dalla Queriniana e diretta da Rosino Gibellini. Quello di Harvey è un testo davvero interessante, in quanto riesce a proporre una ricostruzione storica, abbastanza scorrevole e sintetica, di come lo sport sia stato inteso fin dalle origini dal cristianesimo. Quanto si riesce a scoprire è molto interessante. Le pagine del libro accompagnano il lettore fornendo molte informazioni storiche capaci di arricchire quanti ne gustano la sintesi. Nello stesso si può comprendere come, attraverso i secoli, il gioco sia stato sempre presente e come il suo fascino sia stato avvertito da tutti i popoli che hanno abitato ed abitano la terra. Lo sport, in fondo, non è un fenomeno né locale né nuovo; è un fenomeno universale. Ovviamente, i toni ed i modi sono notevolmente cambiati, le motivazioni e la sacralità anche, ma resta il fatto che “il gioco è gioco” ed è bene rispettarne le caratteristiche. Vi sono realtà per le quali il concetto di scopo non esaurisce la loro ragion d’essere. Ecco, una di queste realtà è lo sport. Esso è – tecnicamente – “autotelico”. Ha il suo proprio (auto) scopo (télos). La parola “sport” deriva da “diporto” (disport) che, a sua volta, è formato da “portare” e “fuori” (dis-). Tradotto: quando giochiamo ci portiamo al di fuori delle attività necessarie alla nostra esistenza. Tutto ciò nel testo risulta molto chiaro. Lo sport non può essere “usato” ma solo vissuto. In fondo lo sport è una questione di gioco!

L’autore mette in risalto i chiari passaggi sull’atteggiamento che la Chiesa ha nutrito nei confronti del gioco. Dall’iniziale rifiuto alla sua utilizzazione, dalla condanna alla strumentalizzazione. Il rifiuto è rintracciabile in una serie di riflessioni che i primi Padri avanzarono relativamente agli spettacoli proposti all’epoca. Il valore religioso dei primi Giochi olimpici è evidente. Contro questa forma di divinizzazione si batterono i pastori cristiani. Non solo, alcuni giochi venivano condannati per la loro crudeltà, tanto da negare ai cristiani una libera partecipazione, cioè, senza conseguenza per la loro morale. La vita è sacra e perderla nel gioco è un peccato. Altri pensatori “non cristiani” invece ne esaltavano la capacità di rendere il corpo più adatto alla vita, associandolo alla formazione della mente. Il corpo e la mente devono essere curati. La diffusione capillare dello sport rese necessario un approfondimento. Se l’uomo è naturalmente attratto dagli spettacoli sportivi allora è bene capire la ragione di fondo. Il duplice atteggiamento che governava i primi secoli era perciò di ammonimento e di ammirazione. Ecco perché i Padri della Chiesa furono spinti a riflettere sullo sport. La Realpolitik di lungo corso del panem et circenses sembrava essere minata dalla decisione dell’imperatore Costantino, che decise di bandire i giochi gladiatorii nel 325 d.C. anche se, a dispetto di ogni divieto morale e civile, i giochi continuarono ad essere praticati. Allora la loro “utilizzazione” poteva essere l’arma vincente. Meglio permettere che proibire il gioco, a questa conclusione sembrava essere arrivata la Chiesa. Ovviamente, con qualche limitazione. Lo sport era accettabile se finalizzato a qualche scopo (come lo svago, la salute ecc.).

Harvey evidenzia nel testo anche la visione puritana dello sport, così come la visione medievale, arricchendo il volume di precisazioni storiche che impreziosiscono l’opera. Infatti, dai primi giochi romani al controverso periodo delle crociate, le analisi sono chiare e sintetiche. Molto interessante la precisazione che non tutti i giochi sono sport. Ma la particolarità che l’autore anglicano propone è l’accomunare lo sport al culto. È lo stesso ad affermare che: «Il culto è la celebrazione di chi è Dio; lo sport la celebrazione di chi siamo noi».

Dalla lettura del testo emerge come riflettere sullo sport può essere davvero produttivo. Inoltre, può catapultare tutti in un linguaggio da sempre espresso e mai “programmato”. La libertà che esprime un bambino nell’atto di giocare è singolare. Una esperienza ed una espressione di/da sogno. Quel sogno che alimenta la vita di chi, nel gioco, esprime il vero carattere. È lo stesso Harvey a rilevare come lo sport parli della nostra identità più profonda. Il gioco è gioco. E lasciamo che sia così. Uno spazio “altro” con le proprie regole, dimensioni e tempi. Ecco perché accomuna tutti, perché, in fondo, tutti sognano di “giocare”. Per i contenuti e l’originalità del volume, se ne raccomanda la lettura.


D. De Angelis, in www.frammentidipace.it 9 febbraio 2017

Immaginiamo un derby qualsiasi: Roma-Lazio, Milan-Inter, oppure Torino-Juventus. È possibile avere nel momento in cui lo scontro agonistico si coniuga con il tifo più sincero per la propria squadra una prospettiva cristiana? Per l'autore, anglicano, insegnante di teologia sistematica presso il St Mellitus College di Londra, grande tifoso dell'Arsenal, la risposta è affermativa. In fondo quando si assiste ad una partita di calcio e non solo abbiamo a che fare con la nostra più intima identità: nel gioco sportivo troviamo il substrato insopprimibile che costituisce la nostra libertà non legata a nulla che abbia una sua utilità immediata, ma, al tempo stesso, intriso di significati. Lo sport, dunque, visto come celebrazione della nostra contingenza e che, pertanto, proprio in quest' ultima può ritrovare una sua collocazione all'interno dell'esistenza cristiana. Sport: qualcosa di profondamente umano.


D. Segna, in I Martedì 330 (5/2015)

Immaginiamo un derby qualsiasi: Roma-Lazio, Milan-Inter. È possibile avere, nel momento in cui lo scontro agonistico si coniuga con il tifo più sincero per la propria squadra, una prospettiva cristiana? Per l’a., anglicano, insegnante di Teologia sistematica presso il St. Mellitus College di Londra, grande tifoso dell’Arsenal, la risposta è affermativa. In fondo, quando si assiste a una partita di calcio e non solo, abbiamo a che fare con la nostra più intima identità: nel gioco sportivo troviamo il substrato insopprimibile che costituisce la nostra libertà non legata a nulla che abbia una sua utilità immediata, ma, al tempo stesso, intriso di significati. Lo sport visto come «celebrazione della nostra contingenza» e che, pertanto, proprio in quest’ultima, può ritrovare una collocazione all’interno dell’esistenza cristiana.


In Il Regno 9/2015

«Lo sport e il gioco possono essere presentati oggi come “la liturgia della nostra contingenza”. E giocare appare come un altro modo di celebrare la liturgia della grazia che si esprime nel giorno festivo, dove la vita si mostra non necessaria e non dovuta, ma estremamente ricca di significato. Il libro, il cui autore è un teologo anglicano, spazia dalle Olimpiadi dell’antica Grecia ai gladiatori della Roma imperiale, dai tornei medievali all’etica puritana. Una volta analizzata la dimensione storica, culturale e filosofica del gioco, l’autore richiama la dottrina dell’atto creatore di Dio per fondare una teologia dello sport e dedicargli uno spazio finora insospettato nel contesto dell’esistenza cristiana. Un libro per chi pratica, per chi è tifoso e anche per chi rimane perplesso di fronte alle pieghe assunte dal mondo dello sport professionistico e non, coinvolto dal fenomeno della corruzione e dalle scommesse clandestine».


Settimana n. 26 del 5 luglio 2015

«Nel suo libro Breve teologia dello sport, Lincoln Harvey ci ricorda che il problema riguardante lo sport al tempo dei primi cristiani era abbastanza chiaro: gli eventi sportivi non erano solo eventi ludici o culturali, erano eventi rituali e cultuali. Per questo lo sport era strettamente legato all’idolatria. […] Come ogni questione va contestualizzata e la domanda che rimane tutt’ora attuale è: c’è un senso spirituale e teologico dell’attività sportiva? Il libro di Harvey, oltre ad offrire una rassegna storica sull’atteggiamento delle grandi culture verso il gioco e lo sport (la rassegna va dalla greco alla romana, dal cristianesimo antico al medioevo e ai nostri tempi), propone una riflessione teologica – semplice nella sua sistematicità – sul senso teologico del gioco e dello sport. […] “Sport” deriva da “diporto” e implica il “portare fuori”, il liberare l’uomo dalle relazioni di necessità per entrare nella dimensione della gratuità. Così il gioco e lo sport possono manifestare una dimensione “liturgica”. Qui, se assumiamo la metafora di Romano Guardini, ovvero che la creazione e la liturgia sono il gioco di Dio, possiamo dire analogamente che il gioco è “la liturgia della nostra contingenza”. In questo senso, il gioco si manifesta nella vita come espressione della libertà dinanzi alle necessità e come riscatto dalla dimensione dell’utile. Probabilmente il gioco è una delle dimensioni in cui il nostro essere si avvicina a quello dei bambini, i prediletti di Gesù. Come ricorda Guardini, “nel gioco il bambino non si propone di raggiungere nulla, non ha alcuno scopo. Non mira ad altro che ad esplicare le sue forze giovanili, ad espandere la sua vita nella forma disinteressata dei movimenti, delle parole, delle azioni, e con ciò a crescere, a diventar sempre più perfettamente se stesso. Senza scopo, ma piena di significato profondo è questa giovane vita”. La libertà dell’atto creatore, un cardine della fede giudeo-cristiana, esprime la ludicità del primo atto di Dio verso l’esterno. Dio non crea obbligato dalla necessità, Dio è perfetto in se stesso, non aveva bisogno di creare l’alterità del mondo. In questo senso, creare per Dio rientra nella dimensione dell’”inutile”. Dio crea non per necessità, ma per amore; non per bisogno, ma per grazia; non per carenza, ma per eccedenza. A ragione, nel suo classico homo ludens, Hugo Rahner sottolinea come l’attività creatrice di Dio va intesa come “il gioco di Dio”. Dinanzi al Deus ludens l’uomo è chiamato ad essere homo ludens, a vivere seriamente la graziosa esistenza di figlio».


R. Cheaib, in www.theologhia.com del 12 luglio 2015

«Il libro offre un contributo alla comprensione del valore umano dello sport e del suo posto nella vita cristiana, oltre le facili letture che se ne danno di solito in chiave moralistica. Sul filo di una lettura teologica e filosofica, le tesi dell’autore sono tanto incisive quanto provocatorie. La tesi di fondo è che lo sport ha a che fare con la nostra identità più profonda: partecipando a una gara entriamo in contatto con una dimensione primordiale e insopprimibile del nostro essere; immergendoci nel gioco facciamo risuonare quanto vi è di più basilare nella nostra libertà. Una volta analizzata la dimensione storica, culturale e filosofica, alla fine del ragionamento allo sport si rivendica un posto, prima insospettato, nel contesto dell’esistenza cristiana».


R. Righetto, in Avvenire del 2 giugno 2015

«Questo libro, opera del teologo anglicano Lincoln Harvey, è un saggio storico, filosofico e teologico sullo sport. In esso l'autore prende le mosse da una considerazione assai interessante: vi sono nella nostra vita molte realtà che esistono in funzione della loro finalità, ma ve ne sono altre per le quali il concetto di scopo non esaurisce la loro ragion d'essere. Una di queste è l'attività ludica, che appare come qualcosa privo di un fine, poiché, quando giochiamo, operiamo in un ambito spontaneo e privo di coercizioni. La struttura del testo appare ben delineata: nei capitoli che vanno dal secondo (il primo è dedicato a una presentazione generale del tema) al quinto, Harvey descrive l'atteggiamento che verso lo sport ebbero il mondo antico, la Chiesa dci primi secoli e quella medievale; il sesto capitolo è dedicato a un'analisi filosofica dello sport; nel settimo vengono esaminati gli insegnamenti della Chiesa circa l'atto divino della creazione, in base al quale, nell’ottavo capitolo, viene affermato il sorprendente parallelismo tra sport e liturgia (ed è proprio questa la parte centrale del libro); infine, nella parte finale, l'autore invita la Chiesa a una rivalutazione dell’attività sportiva. Harvey sostiene che l'atteggiamento del mondo ecclesiastico nei confronti dell'impegno agonistico è stato ambiguo: spesso di condanna, motivata dal pericolo dell'idolatria, ma anche di strumentalizzazione, in quanto, a suo avviso, lo sport fu accettato nella misura in cui veniva indirizzato verso fini sacrali. Nella civiltà greco-classica vi è sempre stata una forte relazione tra sport e religione: basti pensare ai giochi funebri, ma soprattutto alle Olimpiadi, il cui carattere precipuo era religioso, tant’è vero che durante i giochi olimpici la maggior parte delle giornate erano dedicate al culto. Anche la romanità tenne uniti sport e religione. I cristiani dei primi secoli non furono ostili alle pratiche sportive (pensiamo alle metafore paoline che utilizzano il linguaggio agonistico); tuttavia, era comunque predominante l’idea che la vita del credente fosse orientata interamente alla gloria di Dio e che il corpo potesse essere considerato buono solo in relazione al mistero dell'Incarnazione. Nell'epoca medievale la cavalleria incarnò, almeno in parte, gli ideali cristiani, anche se la Chiesa rimase per lo più ostile ai giochi cavallereschi. Dal punto di vista filosofico, Harvey definisce il gioco come un "universale che denota la natura umana ed è un'attività fine a se stessa e nel contempo densa di significato. Secondo una prospettiva teologica, il gioco si fonda sulla dottrina della creazione e celebra la libertà, tanto che, secondo l’autore, è possibile stabilire una connessione tra sport e culto. Infatti, egli sostiene che “il culto è la celebrazione liturgica di chi è Dio; lo sport è la celebrazione liturgica di chi siamo noi. Sono due mondi estremamente diversi. Ciononostante, culto e sport in un certo senso sono davvero fatti l'uno per altro, non da ultimo perché entrambi – a differenza delle necessità della vita – sono radicalmente liberi”. È possibile dunque elaborare una teologia cristiana dello sport basata sugli insegnamenti fondamentali della Chiesa e sull'atto della creazione, che è stata una libera decisione di Dio, il quale ha liberamente amato le creature al punto di chiamarle all'esistenza. L’attività creatrice di Dio – afferma l'autore – va intesa come un gioco divino, un atto gioioso e spontaneo, un atto di pura libertà. Pertanto, come Dio è ludens, così lo è anche l'uomo, e il gioco altro non è che una partecipazione al divino. “Lo sport – scrive Harvey – è una liturgia della nostra contingenza. […] Lo sport è solamente a gloria di Dio perché non è per nessun'altra ragione che per se stesso. Dio permette questa autonomia simile a una danza". Il teologo anglicano, lungi dal considerarlo dannoso o inutile, rivendica allo sport un ruolo sorprendentemente significativo nel contesto dell’esistenza cristiana».


M. Schoepflin, in Verona Fedele del 28 giugno 2015