Il paragrafo n. 115 dell’esortazione apostolica Evangelii gaudium, papa Francesco utilizza un’espressione che rimanda al suo tipico stile magisteriale ispirato alla volontà di anteporre in ogni situazione all’innalzamento di muri la costruzione di ponti: «La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve».
Si tratta di un’espressione inconsueta, in quanto la sua versione classica afferma piuttosto che ciò che la grazia suppone, sana e perfeziona, senza distruggere né rovinare, è la natura, secondo il famoso adagio di Tommaso d’Aquino «gratia supponit naturam, non destruit, sed perficit eam».
L’espressione è inserita nel contesto del richiamo che, in Evangelii gaudium, Francesco fa al n. 53 della Gaudium et spes, secondo la quale l’essere umano è da concepirsi sempre come culturalmente situato, dal momento che «ogniqualvolta si tratta della vita umana, natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse».
Per “cultura” non si intende naturalmente il grado di istruzione e di conoscenza posseduta dagli individui, ma piuttosto, in termini spiccatamente umanistici, tutto ciò che deriva dalle forme civili del vivere che concorrono a plasmare i modi di pensare, sentire e agire degli esseri umani in quanto determinano la loro percezione della realtà.
Profondo intreccio tra grazia e cultura
È questa inedita affermazione che Duilio Albarello – presbitero della diocesi di Mondovì e docente di teologia fondamentale e antropologia teologica all’Istituto superiore di scienze religiose di Fossano (Cuneo), alla Facoltà teologica dell’Italia settentrionale di Milano e al Biennio di specializzazione in teologia morale a Torino – raccoglie nel suo libro La grazia suppone la cultura – Fede cristiana come agire nella storia, recentemente edito dall’Editrice Queriniana nella collana «Giornale di Teologia».
Titolo e sottotitolo hanno il pregio di focalizzare immediatamente il senso della riflessione proposta: indagare la dimensione culturale e storica della fede cristiana per restituirle, in coerenza con la rilevanza pratica della «svolta antropologica» maturata nel pensiero teologico del Novecento, concretezza e forza di umanizzazione, nell’intento di «superare le derive del dottrinalismo, del moralismo e dello spiritualismo» (p. 8). Nella duplice consapevolezza che nessuna epoca è in grado di tradurre compiutamente il mistero di fede custodito nelle parole e negli eventi di Gesù di Nazaret e che, nello stesso tempo, ogni epoca è in grado di gettare nuova luce su quelle parole e su quegli eventi.
Per chi confessa la fede cristiana, parlare di Dio comporta sempre che si parli dell’essere umano in carne e ossa e del modo con cui oggi la sua vita si sviluppa nel senso di pienezza di umanità. Ma parlare dell’uomo e della donna nella prospettiva cristiana di una loro pienezza di vita richiede che si parli di Dio, così come Gesù di Nazaret ce lo ha rivelato. In Gesù Cristo, entrato nella storia del mondo come uomo perfetto assumendola e ricapitolandola in sé, Dio rivela all’uomo e alla donna la loro umanità e la dignità divina che è loro propria.
Interrogarsi sulla correlazione tra fede cristiana e agire nella storia, tra grazia e cultura, è compito dell’intero “popolo di Dio” e non solo dei cultori della teologia. Non a caso l’espressione «la grazia suppone la cultura» è collocata nell’ambito della riflessione condotta da papa Francesco nel primo paragrafo – dal titolo “Tutto il popolo di Dio annuncia il Vangelo” – del terzo capitolo della Evangelii gaudium – “L’annuncio del Vangelo” – dove si afferma, da un lato, che soggetto dell’evangelizzazione è la Chiesa intesa come «popolo in cammino verso Dio» e, dall’altro, che «in virtù del battesimo ricevuto, ogni membro del popolo di Dio è diventato discepolo missionario».
Cattolicesimo pallido e disincarnato e identità religiosa esoscheletrica
Il saggio del teologo monregalese si apre con una citazione di Emmanuel Mounier, il promotore, attraverso la rivista Esprit, della spiritualità dell’engagement che già negli anni ’40 del secolo scorso denunciava il «pallore disincarnato di un certo cattolicesimo» fondato su una dottrina ritenuta granitica e ignaro della complessità della cultura che lo circonda (p. 5 e 6).
Per Albarello la denuncia di Mounier non perde di attualità. Anzi: «La preoccupazione di scongiurare il rischio di un cristianesimo senza carne», cioè di un cristianesimo irrilevante per le condizioni comuni dell’esistere («per gli affari e per gli amori», direbbe Mounier), è sostanzialmente «ciò che caratterizza in maniera più evidente lo stile e il messaggio di papa Francesco, il cui manifesto programmatico rimane a tutt’oggi l’esortazione apostolica Evangelii gaudium» (pp. 7 e 8).
Correlativamente, il saggio si chiude con la denuncia della tendenza, che si manifesta oggi in determinati ambienti ecclesiali, a ricercare – all’interno delle citate derive del dottrinalismo, del moralismo e dello spiritualismo – quella che si potrebbe definire una sorta di «religione dell’esoscheletro» (p. 174). Termine che, in zoologia, sta ad indicare la struttura rigida che funge da protezione e supporto di un invertebrato, di un corpo molle, senza struttura ossea. E che, in senso figurato, può efficacemente esprimere lo stile di chi spera di trovare nella religione – nelle sue istituzioni, nelle sue dottrine, nelle sue norme, nei suoi potenti simboli e nei suoi suggestivi rituali – una struttura esterna sufficientemente rigida e capace sia di sorreggere e di nascondere l’inconsistenza della vita interiore, sia di immunizzare nei confronti dell’incertezza endemica che caratterizza la contemporanea «società del rischio» (p. 174), con il suo potenziale destabilizzante a livello individuale e collettivo (p. 175).
Scrive Albarello: «La vocazione del cristiano non è fuggire dalle situazioni e dalle condizioni effettive della contemporaneità, ma è quella di interpretarle a partire da una prospettiva inedita, e di viverle con una coscienza diversa», cioè con quello «sguardo agapico, ossia orientato dall’agape, dalla dedizione», il quale è in grado di «sollecitare chi crede in Cristo a non preoccuparsi subito e soltanto di come cambiare le cose», ma piuttosto di «comprenderle e gestirle in maniera che, dentro qualunque situazione o circostanza, anche la più negativa, si possano sempre scorgere le buone occasioni, per realizzare il giusto senso del vivere, che Cristo ha attuato per primo e chiede ai suoi di testimoniare a favore di tutti» (p. 12). «Il contrario di una vita buona non è immediatamente una vita cattiva, malvagia, bensì è una vita vana, vuota, che non ha prospettive o si limita ad aspettative di corto respiro» (p. 13).
Natura, cultura e grazia nel disegno di Dio
Per il nostro autore lo scambio, nell’assioma scolastico «gratia supponit naturam et perficit eam», di “natura” con “cultura” non è per nulla innocuo. Esso innesca una dialettica molto interessante. Si potrebbe dire che l’uomo, per natura, è un essere culturale. Infatti, da una parte, l’essere umano è “natura”, nel senso che è legato ad un determinato dato fisico, biologico e ambientale che costituisce la sua condizione concreta. Tuttavia, dall’altra parte, nello stesso tempo, l’essere umano è “cultura”, ossia è capace di trascendere, riprendere e plasmare questo dato in maniera creativa.
La tensione dinamica tra natura e cultura, tra ciò che l’essere umano è e ciò che l’essere umano può diventare, è precisamente ciò che apre lo spazio della libertà, e, dunque, anche lo spazio della storia. Il dono che Dio fa di se stesso attraverso Gesù Cristo è rivolto all’essere umano qui ed ora, situato storicamente, limitato e in cammino. Perciò, essere coerenti con la legge dell’incarnazione richiede di considerare la cultura, la storia, la società come il mondo vitale della fede, quel mondo verso cui la Chiesa si pone in atteggiamento di “uscita” non per dare una frettolosa occhiata ma per rimanervi stabilmente. «Occorre ammettere con franchezza che, per troppo tempo, il ministero ecclesiastico ha continuato a proporre e – fino a quando è stato possibile anche ad imporre – una maniera di intendere la realtà umana legata a categorie provenienti da contesti culturali superati e perciò diventate irricevibili dall’uomo e dalla donna di oggi» (p. 147).
In dialogo con la filosofia e la teologia contemporanee
In riferimento a questa rilevante problematica e con l’intento di aprire un ventaglio di piste di lavoro che richiedono di essere riprese e proseguite (p. 15), Albarello si confronta con esponenti della filosofia, come il filosofo e sociologo tedesco Jurgen Habermas, il filosofo canadese Charles Taylor, il filosofo sloveno Slavoj Zizech, e con esponenti della teologia, come l’inglese John Milbank, il francese Christoph Theobald e i tedeschi Johann Baptist Metz e Jurgen Werbick, a volte scorgendo ed evidenziando delle interessanti convergenze tra il magistero di papa Francesco e il loro pensiero.
In dialogo con questi autori e alla luce del magistero di papa Francesco, il prof. Albarello affronta tre questioni che a me sembrano di particolare importanza per il vissuto e il pensiero della fede oggi:
- il riferimento alla fenomenologia per un modo nuovo di immaginare l’esperienza cristiana;
- il rapporto tra esperienza umana ed esperienza cristiana, che rimanda più convenzionalmente al problema del rapporto tra fede e ragione;
- la valorizzazione della misericordia come architrave del legame sociale ed ecclesiale.
«L’approccio fenomenologico permette di elaborare una visione della fede cristiana come esperienza di vita (principio dell’esperienza), che si configura come relazione con Dio determinata dal rapporto credente con l’evento di Gesù Cristo (principio della manifestazione). Dentro questa relazione, l’uomo è intenzionalmente implicato come partner, in quanto la sua libertà è sollecitata ad una risposta che richiede una disposizione di fiducia e, al contempo, un coinvolgimento in prima persona, nella scelta di esporsi ed agire a beneficio di altri (principio del senso). È a partire da questo sfondo che si comprende il motivo per cui esiste un vincolo indissolubile e quindi anche una reciprocità fra confessione della fede ed impegno sul piano culturale e sociale» (pp. 126-127).
La questione del rapporto tra esperienza umana ed esperienza cristiana si può cogliere in un interrogativo del seguente tenore: l’esperienza cristiana sta semplicemente accanto, o sopra o sotto l’esperienza umana in quanto tale, oppure la fede nell’evangelo di Gesù consente di riconoscere e di realizzare il giusto e comune senso dell’umano?
Albarello non ha dubbi: le grandi tensioni che attraversano l’essere umano e il suo mondo – le tensioni alla verità, al bene, alla giustizia, alla felicità – possono trovare nell’evento di Gesù Cristo una risposta radicale e piena non riscontrabile altrove. «La convinzione che sta alla base di tale pretesa è che la fede nell’evangelo non è nemica di ciò che è umano, non esige una pregiudiziale rottura o estraniazione rispetto all’esperienza effettiva che l’uomo vive e sulla quale esercita criticamente il proprio pensiero» (p. 136). Il rapporto con Dio o comunque con il Mistero trascendente permette «un’autentica umanizzazione» e consente «la realizzazione di una vita buona per sé e per gli altri» (p. 166).
La realtà ecclesiale e la realtà sociale vanno guardate non secondo la parola d’ordine dell’intransigenza ma secondo il criterio della misericordia.
La strategia dell’intransigenza «ha contribuito in maniera determinante ad accrescere la distanza culturale che divide la Chiesa cattolica dalla società nel suo complesso; una distanza che rischia di trasformarsi sempre di più in una condizione di insignificanza». «La sfida radicale nel contesto contemporaneo è quella di mostrare che la fede cristiana è ancora capace di reggere la prova della vita, quindi che la verità dell’evangelo si presenta credibile e comunicabile all’interno dell’ordine culturale vigente» (p. 104).
Secondo il magistero di papa Francesco, tale sfida può essere raccolta restituendo il primato alla pratica della misericordia, all’interno della quale vanno declinati i quattro criteri elencati al paragrafo III – “Il bene comune e la pace sociale” – del quarto capitolo della Evangelii gaudium dedicato alla «dimensione sociale dell’evangelizzazione»: il tempo è superiore allo spazio; l’unità prevale sul conflitto; la realtà è più importante dell’idea; il tutto è superiore alla parte (pp. 105-110).
La fede nel linguaggio della cultura secolare moderna
Un’opera, questa del docente di teologia fondamentale Duilio Albarello, di grande interesse per almeno tre motivi: dimostra che le parole e la vita di Gesù di Nazaret sono in grado di «scaldare il cuore» (Lc 24,32) anche degli uomini e delle donne di oggi; è di prezioso aiuto a chi avverte l’esigenza di vivere in modo responsabile e umanizzante la proposta di fede cristiana; offre elementi di riflessione in grado di ravvivare la questione di Dio e della desiderabilità della fede cristiana nel nostro tempo.
Certo, al lettore non avvezzo a cimentarsi con il linguaggio delle scienze filosofico-teologiche, il saggio richiede una lettura attenta, paziente e intelligente, soprattutto là dove esso dialoga con esponenti della filosofia contemporanea.
In conclusione, mi piace scorgere nei seguenti tre enunciati il senso complessivo del libro:
- «Risulta sempre più urgente investire le migliori risorse intellettuali e spirituali per riattivare il nesso vitale che congiunge la fede cristiana con l’azione storica, ossia per dare rilievo all’effettiva implicazione antropologica, che l’incontro e il confronto con l’evento di Gesù Cristo intrinsecamente possiede… e che trova il suo spazio di realizzazione in particolare nella pratica della misericordia» (pp. 183-184).
- «La fede nell’evangelo di Gesù si offre come la possibilità più promettente di riconoscere e di realizzare il giusto senso dell’umano che è comune, mettendolo nella condizione di attraversare e superare l’aggressione del male, nelle sue tante forme» (p. 136).
- «La verità dell’evangelo individua il terreno di prova decisivo proprio nella sua forza di autentica umanizzazione: se tale forza venisse meno o comunque non fosse più percepita, ne risulterebbe compromesso il carattere affidabile di quella stessa verità» (p. 145).
A. Lebra, in
SettimanaNews.it 6 giugno 2018