La pubblicazione della traduzione di questa raccolta di saggi consente di far finalmente conoscere in Italia il pensiero teologico di I.U. Dalferth. L’autore è stato docente di Teologia sistematica e di filosofia della religione presso l'università di Zurigo dove ha diretto l’Istituto di Ermeneutica e Filosofia della religione e dal 2008 ricopre le cattedre di filosofia della religione e di teologia presso la Graduate University di Claremont in California. Già da queste indicazioni è possibile ricavare il nucleo centrale degli interessi dell'A. che trova espressione anche nei saggi raccolti nel presente volume.
Dalferth riprende la prospettiva di K. Barth e di E. Jüngel consistente nella decisa affermazione del carattere escatologico della rivelazione divina, per cui non è possibile nessun accesso a Dio se non a partire dall'atto con cui Egli in maniera assolutamente sorprendente istituisce il rapporto con l'uomo. La rivelazione cristologica costituisce l'unica reale determinazione dell'essere di Dio e dell'uomo. La tesi è continuamente ribadita nei saggi qui presentati in cui la rivelazione divina è chiamata in causa come la Presenza ultima, ovvero come l'evento assolutamente indeducibile dal contesto mondano e, proprio in quanto tale, capace di ricondurre l'uomo all'essere realmente sé. In questa prospettiva Dalferth ribadisce il rifiuto, già formulato da Barth e da Jüngel, nei confronti di ogni teologia naturale: non è possibile, a partire dall'osservazione speculativa della realtà del mondo o dell'uomo, giungere all'affermazione dell'esistenza di Dio.
La teologia dalferthiana si profila quindi, come afferma il titolo di una sua opera recente, come Radikale Theologie. La comprensione teologica non può che prendere avvio dal darsi stesso di Dio, secondo la logica concreta che Dio stesso mette in atto trinitariamente nell'evento di Gesù Cristo. L’elemento decisivo della tesi sta nel carattere concreto del coinvolgimento di Dio nell'evento di Gesù. In esso Dio si rende realmente presente nella dimensione della storicità. Raggiunto e determinato da tale presenza l'uomo può diventare sé in modo reale, ovvero non sfuggendo alla propria temporalità, ma trovando in essa la possibilità di essere autenticamente sé.
Certo, il carattere salvifico della presenza divina nel mondo sta nel fatto che essa coincide appunto con l'iniziativa di Dio, tuttavia il fatto che Dio accada storicamente fa sì che la storicità dell'esistenza e del suo essere nel mondo acquisti una profondità ontologica irriducibile. La vita concreta dell'uomo non può essere dichiarata irrilevante in nome di un fondamento teologico pensabile al di là di essa.
Se quindi la tesi dalferthiana assume come riferimento la dottrina luterana della giustificazione, non può essere tuttavia letta come una sua mera ripetizione. Non si tratta semplicemente per Dalferth di affermare l'assoluta priorità dell'agire divino, il suo costituire l'unico fondamento della salvezza, ma piuttosto di far valere il carattere radicalmente storico dell'agire divino e, di conseguenza, l'irriducibilità della storicità effettiva di ogni uomo, poiché è in essa che egli è raggiunto dall'evento escatologico. L’assunto rinvia alla storicità da un punto di vista teologico, ovvero a partire dalla storicità della rivelazione cristologica, ma vuole anche avere una dimensione antropologica. L’uomo è preservato dalla tentazione di sfuggire dalla dimensione storico mondana della propria esistenza, ma è in essa che trova la propria autenticità. L’irriducibilità della vicenda storica di ciascuno deve quindi valere anche nei confronti dell'agire storico divino: se ad esso va riconosciuta una dimensione fondativa in ordine alla determinazione dell'esistenza umana, che non può determinare se stessa a partire da sé, tuttavia non deve essere pensato come se accadesse nel vuoto dell'umano.
Mentre quindi assume, come abbiamo visto, l'affermazione jüngeliana dell'indeducibilità dell'evento rivelativo, Dalferth denuncia l'assolutismo teologico della prospettiva di Jüngel in cui l'evento rivelativo risignifica il contesto mondano in cui l'uomo vive, senza riconoscere alcun ruolo all'effettività dell'esperienza umana.
Proprio per pensare in termini realistici l'irriducibilità della storicità umana, Dalferth chiama in causa la riflessione filosofica e, in particolare la filosofia della religione. Essa non si aggiunge semplicemente all'istanza che anima la ricerca teologica ma ha il compito di mostrare come l'agire escatologico divino non cali dall'alto nell'esperienza umana, ma accada in un contesto storico in cui l'uomo è già impegnato in rapporto alla propria storicità. Non a caso l'attenzione di Dalferth è volta alla dinamica della cultura: l'uomo vive in un orizzonte di senso condiviso in cui l'accesso alla propria identità ed al senso del reale è possibile mediante l'atto dell'interpretazione, ovvero dando forma personale ad un senso donato.
La vita dell'uomo non è pensabile al di fuori della storicità dell'atto dell'interpretazione mediante cui egli si orienta nel mondo. Vita,termine decisivo e ricorrente nei testi del nostro volume, esprime quella dimensione originaria per cui l'uomo non può essere colto al di fuori dell'atto dell'esistere. Atto che non va tuttavia inteso in modo banalmente pragmatico, come se in esso fosse superata la questione del senso, o come se ad esso debba essere attribuita una valenza meramente privata. Contro le varie prospettive postmoderne Dalferth mostra che proprio nell'atto dell'orientarsi l'uomo si rapporta a sé ed al reale. L'atto dell'orientarsi non può essere ridotto ad un mero giocare con la questione del senso, ma è condizione dell'accadere del senso come ciò che riguarda l'esistenza di ciascuno nella sua dimensione di originalità.
L'atto della vita, prendendo forma nell'orizzonte del mondo, ha contemporaneamente dimensione personale e intersoggettiva. Mentre si orienta riguardo a sé ed al reale, l'uomo si scopre in un mondo comune. La dimensione personale e quella intersoggettiva non devono e non possono essere pensate separatamente ma come implicazione dell'atto di ciascuno. La filosofia ha per Dalferth il compito decisivo di far valere la dinamica irriducibilmente storica del mondo e dell'esistenza che in essa si orienta, mostrando che proprio così l'uomo vive. Essa si volge quindi contro tutte quelle prospettive che in vario modo propugnano un rapporto puramente estetico ed osservativo con la questione del senso: come se l'esistenza e la vita fossero semplicemente da osservare, senza prendere praticamente posizione nei confronti di esse.
Nello stesso modo la filosofia della religione consente un approccio alla questione del fondamento in un senso radicalmente storico: esso non si configura come ciò che è oggettivabile o osservabile al di fuori della dinamica effettiva della vita. La religione rende possibile l'orientamento in base a quella Presenza ultima che, non divenendo mai possesso di qualcuno, sfuggendo ad ogni presa concettuale, rinvia l'esistenza a sé ed al reale. Il carattere di differenza della presenza ultima è per Dalferth l'elemento decisivo: poiché non è localizzabile, restando irriducibile ad ogni determinazione del senso essa consente all'uomo di orientarsi mediante l'atto dell'interpretazione, in una dinamica sempre aperta. A partire da tale assunto deve essere compresa la presa di posizione di Dalferth nei confronti del dibattito contemporaneo sul secolare ed il postsecolare.
Egli ribadisce continuamente il doppio senso che può essere conferito alla secolarizzazione. Essa può indicare, da una parte, l'opposizione mondana tra religione e mondo, facendo riferimento alla distinzione moderna tra la sfera pubblica, affidata alla legislazione laica dello stato, e la sfera privata, in cui viene confinata la decisione religiosa. Dall'altra parte la secolarizzazione può essere intesa a partire dalla differenza teologica tra Creatore e creatura. In questo caso non si tratta più di una contrapposizione all'interno del mondo, ma, ben più radicalmente, della differenza che investe il mondo nel suo complesso, compresa l'istituzione religiosa, rispetto all'Origine divina. Comprendendo il mondo come creazione il Cristianesimo, ma insieme ad esso le grandi religioni monoteistiche, assume un punto di visto che non è riconducibile né a quello della secolarizzazione, né a quello di coloro che, opponendosi ad essa, vogliono difendere nel mondo uno spazio per la religione. La religione non può avere uno spazio nel mondo poiché essa chiama in causa quella differenza che rimanda il mondo a se stesso senza lasciarsi localizzare in esso. La differenza teologica è condizione della vita nel mondo e non può quindi essere risolta a grandezza mondana.
A differenza di quanto afferma Bonhoeffer e delle varie letture che, negli anni Settanta del secolo scorso, vedono uno stretto nesso tra rivelazione cristiana e dinamica della secolarizzazione, Dalferth non vuole giungere alla affermazione di una separazione tra la rivelazione cristologica e il mondo: come differenza l'agire divino si rapporta al mondo, non resta esteriore rispetto ad esso. Non a caso Dalferth, distaccandosi da Bonhoeffer, non vede nel Cristianesimo, la dichiarazione della fine della religione. Le religioni nel mondo rappresentano l'attestazione di quella differenza della quale la rivelazione cristologica costituisce l'accadere sorprendente e indeducibile.
Le varie posizioni del dibattito sulla secolarizzazione sono da Dalferth criticate poiché riducendo la questione allo spazio da garantire o da togliere alla religione giungono ad una sclerotizzazione dell'essere nel mondo e della stessa religione. Il mondo è infatti ridotto alla dimensione in cui l'uomo vive, di fronte alla quale bisogna semplicemente porsi il problema delle diverse sfere di competenza tra cui quella della religione. La religione diventa così uno dei possibili orizzonti del senso. Dalferth afferma efficacemente che in questo modo si dimentica che, più che stabilire dei confini all'interno del mondo bisogna porre la domanda che investe il mondo nella sua totalità, ovvero come in esso per ciascuno sia possibile la verità della vita: «La mia risposta è: in discussione non sta il futuro della religione, bensì la verità della vita, e quindi la domanda su ciò che rende vera, buona e giusta una vita umana» (51). Solo in quanto non si lascia ridurre ad essere parte del mondo la religione rinvia all'evento che, interpellando l'esistenza di ciascuno, la rimanda al compito di orientarsi nel mondo.
G. Noberasco, in
Teologia 2/2017, 317-320