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Trascendenza e mondo secolare
Ingolf U. Dalferth

Trascendenza e mondo secolare

Orientamento della vita alla Presenza ultima

Prezzo di copertina: Euro 27,50 Prezzo scontato: Euro 26,10
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 180
ISBN: 978-88-399-0480-5
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 256
Titolo originale: Transzendenz und säkulare Welt. Lebensorientierung an letzter Gegenwart
© 2016

In breve

Prefazione all’edizione italiana di Andrea Aguti

La vita cristiana, immersa in un mondo profano, si vuole radicalmente orientata alla Trascendenza: Dalferth approfondisce criticamente questa consapevolezza, in chiave filosofica e teologica. E spiega: per il cristiano ciò che conta è rendere presente il Padre di Gesù Cristo in tutti gli atti vitali che compie, lasciandosi alle spalle la semplicistica alternativa tra vita religiosa e vita non-religiosa.

Descrizione

Va di moda sostenere che oggi in Occidente, allontanatasi l’ondata secolarizzatrice, siamo pacificamente immersi in una nuova epoca religiosa post-secolare.
Ma questa lettura semplicistica dice solo una parte della verità. Dalferth ci mette sull’avviso: la fede dei cristiani sin dalle origini ha inteso rendere profano il mondo, operare una critica della religione e delle religioni, dare nuova forma alla vita umana alla presenza di Dio. Per il cristiano ciò che conta è rendere presente e attuale il Padre di Gesù Cristo in tutti gli atti vitali, lasciandosi alle spalle la semplicistica alternativa tra vita religiosa e vita non-religiosa.
Decisiva non è dunque la differenza tra sacro e profano nel mondo, ma la distinzione – nello spazio mondano – tra una vita che al Dio trascendente si orienta (fede) o non che invece non lo fa (incredulità). Vivere religiosamente non è buono in sé e per se; dipende da come si è ciò che si è e da come si fa ciò che si fa.
In estrema sintesi: la vita cristiana, immersa in un mondo profano, si vuole radicalmente orientata alla Trascendenza: Dalferth approfondisce criticamente questa consapevolezza, in chiave sia filosofica sia teologica.

Commento

Il primo testo in traduzione italiana di un grande teologo di lingua tedesca

Recensioni

Ingolf Dalferth è un teologo evangelico e anche un filosofo della religione con alle spalle una carriera accademica molto lunga, sia in Europa che negli Stati Uniti, poco noto, tuttavia, nel nostro paese. Con questo saggio, il primo fra i suoi numerosi lavori a essere tradotto in italiano, il nome dell’A. può ora uscire dalla cerchia piuttosto ristretta di teologi e di filosofi della religione attenti alla produzione tedesca e in grado di leggerla in lingua originale e proporsi anche qui in Italia a una platea più vasta di studiosi. Le ragioni di questa scarsa conoscenza e diversi altri aspetti del pensiero di Dalferth che, almeno in parte, ne sono la causa, sono esaminati nella Premessa al presente saggio, a opera del traduttore, che raccomandiamo all’attenzione del lettore per acquisire le prime indispensabili informazioni per inquadrare e comprendere correttamente questo lavoro, molto recente e connesso da molteplici legami con tutta la più che quarantennale attività dell’A., come si evince anche dai frequenti rimandi che questi fa a parecchi altri scritti precedenti.

Il saggio, che ci sembra orientato a istituire un dibattito accademico piuttosto che ad additare ruoli “pubblici” alla fede e alla teologia o a elaborare magari una nuova “teologia del genitivo”, è costituito da una raccolta di alcuni lavori dell’A. su argomenti diversi ma collegati da un filo rosso costituito dal tentativo di comprendere sia la condizione genericamente religiosa che quella specifica della fede cristiana nel nostro tempo.

Dalferth non condivide la convinzione, assai diffusa in Occidente, di un avvenuto superamento della secolarizzazione e di un nostro nuovo ingresso in un’inedita epoca religiosa post-secolare, giudicandola troppo semplicistica, anche alla luce delle possibili ambivalenze delle religioni che non sempre esprimono il meglio dell’uomo, come purtroppo dobbiamo spesso constatare ai nostri giorni. Entro un complesso quadro teoretico, l’A. assegna alla filosofia della religione e alla teologia un compito ermeneutico-critico, svolto in “terza persona” dalla filosofia e in “prima persona” dalla teologia visto il pieno coinvolgimento del soggetto che quest’ultima comporta, che si può riassumere nelle categorie di orientamento e di distinzione per esprimere nuovamente oggi quel disincanto con cui la fede cristiana ha reso fin dalle origini profano il mondo, operando una critica serrata delle religioni cosmiche e misteriche dei suoi primi tempi, dando invece un assetto completamente nuovo alla vita dell’uomo coram Deo. Decisiva, quindi, non è tanto la distinzione orizzontale fra sacro e profano nel mondo ma quella verticale che orienta a ciò che Dalferth chiama spesso “la Presenza ultima”, alla scelta in favore della fede e della vita nuova nello Spirito in luogo del permanere nell’incredulità dell’uomo vecchio.

La citata compresenza, nell’A., del filosofo e del teologo non significa affatto che, nel suo pensiero, vi sia continuità fra il Dio della filosofia e quello della fede, e della teologia, al contrario egli sostiene che la vera fede si fonda non su argomenti vecchi o nuovi di teologia naturale bensì sulla domanda di senso che è avvertibile nella vita cui il soggetto può rispondere o con la vera fede o con l’incredulità. Il riferimento ideale di Dalferth non è quindi certamente Tommaso d’Aquino e nemmeno la filosofia analitica della religione contemporanea e le nuove forme di teismo cui questa conduce, quanto piuttosto il criticismo kantiano. Il pensiero dell’A. sulla relazione fra religione e fede cristiana è quanto mai netto: alla teologia spetta il compito della critica di ogni espressione religiosa, come se la prima dovesse continuare l’opera ormai interrotta della critica della religione di stampo ottocentesco. Il post-secolare in cui stiamo entrando non dovrebbe essere visto come un ritorno al religioso semplicemente, quanto piuttosto come superamento del secolarismo verso una forma nuova, non conflittuale e non antagonista nei confronti del fatto religioso, del medesimo.

Queste ultime osservazioni consentono di intravedere, nel saggio di Dalferth, oltre l’apparato concettuale ampio e assai elaborato, aggiornato agli sviluppi della filosofia, tedesca specialmente, di questi ultimi anni, svariati temi tradizionali della teologia evangelica, quali il sospetto che grava sulla religione in nome della assoluta trascendenza di Dio, il totale rifiuto della teologia naturale e la netta separazione tra fede e vita morale del credente cui conduce la dottrina della giustificazione sola fide sine operibus.


A. Ricupero, in Studia Patavina 65 (1/2018), 189-191

[…] Anche per Dalferth il contesto culturale postmoderno è affermato come inaggirabile per l'auto comprensione della teologia: essa non può procedere mediante la dinamica univoca del concetto, perché questo condurrebbe a un'indebita semplificazione dell'esperienza umana del mondo che si dà in una pluralità di prospettive di cui deve essere riconosciuta l'irriducibilità.

Dalferth: l'eccedenza e la verità

Tale caratteristica può essere preservata da un procedere che l'autore denomina fin dagli inizi della sua riflessione combinatorio (kombinatorische Theologie). Il darsi del reale nella pluralità delle prospettive non deve tuttavia per Dalferth essere letto nel senso di un approccio puramente relativistico, come se ci si dovesse rassegnare all'impossibilità di uscire dal conflitto delle interpretazioni. Esso è visto piuttosto come strettamente connesso al rapporto che l'uomo ha con il reale, e quindi al modo in cui egli può fare esperienza della verità. Il reale non ha per l'uomo un carattere puramente oggettivo, ma si configura come mondo, ovvero come il contesto di senso intersoggettivo che consente a ciascuno di orientarsi riguardo a sé e al reale stesso.

L'uomo quindi esiste non adeguandosi a un ordine dato, ma prendendo posizione su di sé e sul reale. L'atto dell'interpretazione costituisce la presa di posizione personale mediante la quale l'uomo si orienta. Questa dinamica non viene meno di fronte alla rivelazione divina. Non a caso per Dalferth l'evento della risurrezione di Gesù, ovvero l'evento in cui la rivelazione si dà nella manieta più autentica, non può essere colto se non nei diversi linguaggi dell'attestazione scritturistica che ne costituiscono l'interpretazione. L'atto divino può essere riconosciuto solo nell'atto di coloro che da esso sono stati raggiunti e coinvolti. L'insuperabilità dell'interpretazione non elimina ma fa valere il carattere veritativo dell'agire escatologico divino: esso accade consentendo all'uomo di orientarsi in maniera assolutamente nuova riguardo a sé e al reale. Il fatto che l'evento della risurrezione si dia nella pluralità delle interpretazioni indica quindi il suo rimandare ciascuno alla propria identità irriducibilmente personale. Nell'atto dell'interpretazione è in gioco per ciascuno il proprio essere nel mondo in forma personale; da qui la pluralità delle interpretazioni.

Tale pluralità riceve tuttavia in Dalferth una valenza differente rispetto a quella che abbiamo incontrato in Theobald, cosa che porta conseguentemente con sé anche una diversa visione della rivelazione divina e del suo carattere veritativo. La questione che si pone all'uomo nel mondo come contesto plurale non riguarda semplicemente come realizzare l'apertura dell'uno verso l'altro, in un processo di libera comunicazione, ma, ben più radicalmente, come essere ciascuno autenticamente sé.

Per Dalferth è inaggirabile un'istanza ontologica e veritativa riguardante la consistenza stessa dell'agire interpretativo umano nel mondo prima che della sua apertura. L'uomo agendo è chiamato a orientarsi riguardo a sé e al reale, ma tutto ciò non può dipendere dal suo stesso agire. L'effettivo orientarsi riguardo sé e al reale può essere raggiunto dall'agire umano solo come novità sorprendente proveniente da Dio stesso.

L'uomo per vivere è inviato al proprio agire, ma questo ha consistenza solo se egli si lascia sorprendere da un evento indeducibile nella sua novità dall'iniziativa umana. Qui sta per Dalferth l'ambivalenza dell'esistenza umana, ma anche ciò che rende l'uomo autenticamente umano. L'uomo è umano poiché Dio mantiene la differenza rispetto al mondo e all'uomo stesso, accadendo come origine di un dono assolutamente inedito per l'uomo e per il mondo. La differenza che Dio mantiene rispetto al mondo non è letta da Dalferth come mera assenza, come semplice lasciar spazio all'agire umano, ma indica il carattere di evento dell'agire divino.

In quanto evento la rivelazione divina non è localizzabile nel mondo, non si lascia ridurre a spazio mondano, ma, proprio per questo, rende possibile l'orientarsi umano nel mondo. Cosa questo significhi, Dalferth lo esplicita prendendo posizione sul dibattito contemporaneo sulla secolarizzazione. Le varie posizioni del dibattito sono da Dalferth criticate poiché, riducendo la questione allo spazio da garantire o da togliere alla religione, giungono a una sclerotizzazione dell'essere nel mondo e della stessa religione. Il mondo è infatti ridotto alla dimensione in cui l'uomo vive, di fronte alla quale bisogna semplicemente porsi il problema di come ripartire le diverse sfere di competenza tra cui quella della religione.

La religione è così indebitamente ridotta in uno dei possibili orizzonti del senso. Dalferth afferma efficacemente che in questo modo si dimentica che, più che stabilire dei confini all'interno del mondo, bisogna porre la domanda che investe il mondo nella sua totalità, ovvero come in esso per ciascuno sia possibile la verità della vita: «La mia risposta è: in discussione non sta il futuro della religione, bensì la verità della vita, e quindi la domanda su ciò che rende vera, buona e giusta una vita umana» (Trascendenza e mondo secolare, 51).

Solo in quanto non si lascia ridurre a essere parte del mondo la religione rinvia all'evento che, interpellando l'esistenza di ciascuno, la rimanda al compito di orientarsi nel mondo. Il fatto che nella pluralità delle prospettive ciascuno è rimandato al compito di essere sé e quindi alla propria singolarità è l'elemento fecondo della tesi di Dalferth. La questione dell'alterità è pensata in maniera formale se non investe ciascuno nella propria identità e non semplicemente come istanza di apertura.


G. Noberasco, in Il Regno Attualità 10/2018, 287

La pubblicazione della traduzione di questa raccolta di saggi consente di far finalmente conoscere in Italia il pensiero teologico di I.U. Dalferth. L’autore è stato docente di Teologia sistematica e di filosofia della religione presso l'università di Zurigo dove ha diretto l’Istituto di Ermeneutica e Filosofia della religione e dal 2008 ricopre le cattedre di filosofia della religione e di teologia presso la Graduate University di Claremont in California. Già da queste indicazioni è possibile ricavare il nucleo centrale degli interessi dell'A. che trova espressione anche nei saggi raccolti nel presente volume.

Dalferth riprende la prospettiva di K. Barth e di E. Jüngel consistente nella decisa affermazione del carattere escatologico della rivelazione divina, per cui non è possibile nessun accesso a Dio se non a partire dall'atto con cui Egli in maniera assolutamente sorprendente istituisce il rapporto con l'uomo. La rivelazione cristologica costituisce l'unica reale determinazione dell'essere di Dio e dell'uomo. La tesi è continuamente ribadita nei saggi qui presentati in cui la rivelazione divina è chiamata in causa come la Presenza ultima, ovvero come l'evento assolutamente indeducibile dal contesto mondano e, proprio in quanto tale, capace di ricondurre l'uomo all'essere realmente sé. In questa prospettiva Dalferth ribadisce il rifiuto, già formulato da Barth e da Jüngel, nei confronti di ogni teologia naturale: non è possibile, a partire dall'osservazione speculativa della realtà del mondo o dell'uomo, giungere all'affermazione dell'esistenza di Dio.

La teologia dalferthiana si profila quindi, come afferma il titolo di una sua opera recente, come Radikale Theologie. La comprensione teologica non può che prendere avvio dal darsi stesso di Dio, secondo la logica concreta che Dio stesso mette in atto trinitariamente nell'evento di Gesù Cristo. L’elemento decisivo della tesi sta nel carattere concreto del coinvolgimento di Dio nell'evento di Gesù. In esso Dio si rende realmente presente nella dimensione della storicità. Raggiunto e determinato da tale presenza l'uomo può diventare sé in modo reale, ovvero non sfuggendo alla propria temporalità, ma trovando in essa la possibilità di essere autenticamente sé.

Certo, il carattere salvifico della presenza divina nel mondo sta nel fatto che essa coincide appunto con l'iniziativa di Dio, tuttavia il fatto che Dio accada storicamente fa sì che la storicità dell'esistenza e del suo essere nel mondo acquisti una profondità ontologica irriducibile. La vita concreta dell'uomo non può essere dichiarata irrilevante in nome di un fondamento teologico pensabile al di là di essa.

Se quindi la tesi dalferthiana assume come riferimento la dottrina luterana della giustificazione, non può essere tuttavia letta come una sua mera ripetizione. Non si tratta semplicemente per Dalferth di affermare l'assoluta priorità dell'agire divino, il suo costituire l'unico fondamento della salvezza, ma piuttosto di far valere il carattere radicalmente storico dell'agire divino e, di conseguenza, l'irriducibilità della storicità effettiva di ogni uomo, poiché è in essa che egli è raggiunto dall'evento escatologico. L’assunto rinvia alla storicità da un punto di vista teologico, ovvero a partire dalla storicità della rivelazione cristologica, ma vuole anche avere una dimensione antropologica. L’uomo è preservato dalla tentazione di sfuggire dalla dimensione storico mondana della propria esistenza, ma è in essa che trova la propria autenticità. L’irriducibilità della vicenda storica di ciascuno deve quindi valere anche nei confronti dell'agire storico divino: se ad esso va riconosciuta una dimensione fondativa in ordine alla determinazione dell'esistenza umana, che non può determinare se stessa a partire da sé, tuttavia non deve essere pensato come se accadesse nel vuoto dell'umano.

Mentre quindi assume, come abbiamo visto, l'affermazione jüngeliana dell'indeducibilità dell'evento rivelativo, Dalferth denuncia l'assolutismo teologico della prospettiva di Jüngel in cui l'evento rivelativo risignifica il contesto mondano in cui l'uomo vive, senza riconoscere alcun ruolo all'effettività dell'esperienza umana.

Proprio per pensare in termini realistici l'irriducibilità della storicità umana, Dalferth chiama in causa la riflessione filosofica e, in particolare la filosofia della religione. Essa non si aggiunge semplicemente all'istanza che anima la ricerca teologica ma ha il compito di mostrare come l'agire escatologico divino non cali dall'alto nell'esperienza umana, ma accada in un contesto storico in cui l'uomo è già impegnato in rapporto alla propria storicità. Non a caso l'attenzione di Dalferth è volta alla dinamica della cultura: l'uomo vive in un orizzonte di senso condiviso in cui l'accesso alla propria identità ed al senso del reale è possibile mediante l'atto dell'interpretazione, ovvero dando forma personale ad un senso donato.

La vita dell'uomo non è pensabile al di fuori della storicità dell'atto dell'interpretazione mediante cui egli si orienta nel mondo. Vita,termine decisivo e ricorrente nei testi del nostro volume, esprime quella dimensione originaria per cui l'uomo non può essere colto al di fuori dell'atto dell'esistere. Atto che non va tuttavia inteso in modo banalmente pragmatico, come se in esso fosse superata la questione del senso, o come se ad esso debba essere attribuita una valenza meramente privata. Contro le varie prospettive postmoderne Dalferth mostra che proprio nell'atto dell'orientarsi l'uomo si rapporta a sé ed al reale. L'atto dell'orientarsi non può essere ridotto ad un mero giocare con la questione del senso, ma è condizione dell'accadere del senso come ciò che riguarda l'esistenza di ciascuno nella sua dimensione di originalità.

L'atto della vita, prendendo forma nell'orizzonte del mondo, ha contemporaneamente dimensione personale e intersoggettiva. Mentre si orienta riguardo a sé ed al reale, l'uomo si scopre in un mondo comune. La dimensione personale e quella intersoggettiva non devono e non possono essere pensate separatamente ma come implicazione dell'atto di ciascuno. La filosofia ha per Dalferth il compito decisivo di far valere la dinamica irriducibilmente storica del mondo e dell'esistenza che in essa si orienta, mostrando che proprio così l'uomo vive. Essa si volge quindi contro tutte quelle prospettive che in vario modo propugnano un rapporto puramente estetico ed osservativo con la questione del senso: come se l'esistenza e la vita fossero semplicemente da osservare, senza prendere praticamente posizione nei confronti di esse.

Nello stesso modo la filosofia della religione consente un approccio alla questione del fondamento in un senso radicalmente storico: esso non si configura come ciò che è oggettivabile o osservabile al di fuori della dinamica effettiva della vita. La religione rende possibile l'orientamento in base a quella Presenza ultima che, non divenendo mai possesso di qualcuno, sfuggendo ad ogni presa concettuale, rinvia l'esistenza a sé ed al reale. Il carattere di differenza della presenza ultima è per Dalferth l'elemento decisivo: poiché non è localizzabile, restando irriducibile ad ogni determinazione del senso essa consente all'uomo di orientarsi mediante l'atto dell'interpretazione, in una dinamica sempre aperta. A partire da tale assunto deve essere compresa la presa di posizione di Dalferth nei confronti del dibattito contemporaneo sul secolare ed il postsecolare.

Egli ribadisce continuamente il doppio senso che può essere conferito alla secolarizzazione. Essa può indicare, da una parte, l'opposizione mondana tra religione e mondo, facendo riferimento alla distinzione moderna tra la sfera pubblica, affidata alla legislazione laica dello stato, e la sfera privata, in cui viene confinata la decisione religiosa. Dall'altra parte la secolarizzazione può essere intesa a partire dalla differenza teologica tra Creatore e creatura. In questo caso non si tratta più di una contrapposizione all'interno del mondo, ma, ben più radicalmente, della differenza che investe il mondo nel suo complesso, compresa l'istituzione religiosa, rispetto all'Origine divina. Comprendendo il mondo come creazione il Cristianesimo, ma insieme ad esso le grandi religioni monoteistiche, assume un punto di visto che non è riconducibile né a quello della secolarizzazione, né a quello di coloro che, opponendosi ad essa, vogliono difendere nel mondo uno spazio per la religione. La religione non può avere uno spazio nel mondo poiché essa chiama in causa quella differenza che rimanda il mondo a se stesso senza lasciarsi localizzare in esso. La differenza teologica è condizione della vita nel mondo e non può quindi essere risolta a grandezza mondana.

A differenza di quanto afferma Bonhoeffer e delle varie letture che, negli anni Settanta del secolo scorso, vedono uno stretto nesso tra rivelazione cristiana e dinamica della secolarizzazione, Dalferth non vuole giungere alla affermazione di una separazione tra la rivelazione cristologica e il mondo: come differenza l'agire divino si rapporta al mondo, non resta esteriore rispetto ad esso. Non a caso Dalferth, distaccandosi da Bonhoeffer, non vede nel Cristianesimo, la dichiarazione della fine della religione. Le religioni nel mondo rappresentano l'attestazione di quella differenza della quale la rivelazione cristologica costituisce l'accadere sorprendente e indeducibile.

Le varie posizioni del dibattito sulla secolarizzazione sono da Dalferth criticate poiché riducendo la questione allo spazio da garantire o da togliere alla religione giungono ad una sclerotizzazione dell'essere nel mondo e della stessa religione. Il mondo è infatti ridotto alla dimensione in cui l'uomo vive, di fronte alla quale bisogna semplicemente porsi il problema delle diverse sfere di competenza tra cui quella della religione. La religione diventa così uno dei possibili orizzonti del senso. Dalferth afferma efficacemente che in questo modo si dimentica che, più che stabilire dei confini all'interno del mondo bisogna porre la domanda che investe il mondo nella sua totalità, ovvero come in esso per ciascuno sia possibile la verità della vita: «La mia risposta è: in discussione non sta il futuro della religione, bensì la verità della vita, e quindi la domanda su ciò che rende vera, buona e giusta una vita umana» (51). Solo in quanto non si lascia ridurre ad essere parte del mondo la religione rinvia all'evento che, interpellando l'esistenza di ciascuno, la rimanda al compito di orientarsi nel mondo.


G. Noberasco, in Teologia 2/2017, 317-320

Se i grandi nomi della teologia evangelica della prima metà del novecento sono noti e tradotti in varie lingue (pensiamo a Karl Barth, Rudolf Bultmann, Wolfgang Panenberg, Eberhard Jüngel), non così è il caso per i teologi nati dopo il secondo conflitto mondiale. Uno dei motivi per il successo dei primi è stato il loro impegno pubblico, sociale e divulgativo e la declinazione della teologia al genitivo (teologia politica, teologia della speranza, teologia del creato, teologia del postmoderno, ecc.). Un altro motivo è legato al profilo accademico dei secondi, tra cui il teologo Ingolf U. Dalferth autore del volume Trascendenza e mondo secolare tradotto in italiano per i tipi della Queriniana. L’opera è la prima dell’autore in italiano e permette al lettore italiano un primo accesso a un’opera che costituisce un contributo alla rinascita della teologia naturale e il tentativo di rendere razionalmente coerente il teismo.

L’opera dell’autore manifesta una spiccata e densa concentrazione teologica e un profilo inequivocabilmente accademico, volto a rilanciare il dibattito sulla ragionevolezza del teismo intrecciando le competenze dell’autore in ambito di filosofia della religione, teologia naturale, teologia fondamentale e teologia dogmatica.

La riflessione sulla rilevanza del religioso di Dalferth si inserisce nel quadro del «post-secolarismo», che prospetta una nuova possibilità di dialogo tra secolo e religione in quanto il distintivo del post-secolarismo è il superamento, appunto, del secolarismo, contraddistinto per la sua pregiudiziale indifferenza e per il suo aprioristico rifiuto di ogni affermazione religiosa.

«L’epoca post-secolare – spiega Andrea Aguti – è il compimento della secolarizzazione nella sua forma non antagonistica verso la religione, quella appunta che genera indifferenza nei confronti dell’identità religiosa o meno». Ma questo non implica la pacifica e banale constatazione che siamo tornati improvvisamente religiosi.

L’analisi serrata di Dalferth mostra che non è il senso del secolare, del desacralizzare il mondo (opera fatta dal giudeo-cristianesimo) ad allontanare l’uomo dalla fede, ma la non scommessa totale per Dio, una scommessa integrale che coinvolge non solo la ragione, ma tutta la vita.

Il taglio accademico dell’opera forse la restringerà nell’ambito degli esperti in materia, ma gli ambiti che apre alla riflessione immetteranno i suoi esploratori nella riflessione e nella discussione su temi cruciali riguardanti l’essenza della fede, il destino della religione e la portata della secolarizzazione e della post-secolarizzazione.


R. Cheaib, in www.theologhia.com febbraio 2017

L’attuale dibattito sulla legittimità e sull’attendibilità del post-secolare è chiamato incessantemente a confrontarsi con lo statuto storico ed epistemologico della modernità, la quale continua a rappresentare un riferimento costante e inestinguibile per qualsivoglia diagnosi o critica del tempo presente.

Ciò significa continuare in qualche modo a fare i conti con il moderno e con ciò che esso ha rappresentato tanto per la formazione del potere politico statuale, quanto per l’autorappresentazione storica del cristianesimo.

Ricorrere all’espressione condizione post-secolare è molto più di una moda passeggera volta a denominare l’articolato intreccio di religione, politica e società nell’orizzonte globale contemporaneo. Purtuttavia si corre il rischio di coniare termini di cesura storica per il solo gusto di vivere e pensare in un’epoca diversa o dal sapore attuale. L’errore in cui più comunemente ci si può imbattere è pensare la condizione postsecolare come uno scenario vagamente planetario in cui, da ormai alcuni decenni, le religioni starebbero acquisendo una nuova visibilità pubblica.

La questione non interessa esclusivamente le evidenti trasformazioni sociologiche tutt’ora in atto nel mondo delle religioni storiche o nei processi individuali di appartenenza a determinati cammini spirituali.

Per molti versi la modernità costituisce la scena che continua ancora oggi a ospitare le più animate discussioni sul postmoderno e sul post-secolare. Ciò significa che i riferimenti storico-istituzionali generati dalla tarda modernità rappresentano ancora la griglia interpretativa in cui continuiamo a muoverci e a vivere. Stato, religione e società disegnano le coordinate «moderne» dentro le quali continuano a pensare anche i più entusiasti profeti del post-secolare.

Il volume di Ingolf Dalferth, Trascendenza e mondo secolare, può essere opportunamente salutato come uno dei più illuminanti contributi al dibattito filosofico e teologico sulla secolarizzazione. L’autore è uno dei teologi evangelici più noti e apprezzati a livello internazionale. Dopo aver insegnato in diverse università tedesche e svizzere ed essere stato a più riprese presidente della European Society for Philosophy of Religion, Dalferth è attualmente docente di Filosofia della religione negli Stati Uniti, presso la Claremont Graduate University.

La post-secolarità può essere letta come mera deprivatizzazione del religioso oppure come un vero e proprio superamento della contrapposizione tra religioso e secolare. Questa seconda accezione, chiaramente sposata dall’autore, non evidenzia nuove possibilità pubbliche o politiche per le religioni storiche, ma dischiude uno scenario di vita e d’azione in cui la necessità di ricorrere a categorie identificative come «religioso» o «secolare» non viene più presa in considerazione dai singoli individui.

«Soltanto chi non vive più religiosamente o secolarmente, chi non sottolinea più o non ha più bisogno di sottolineare l’uno o l’altro aspetto per caratterizzare la propria vita, si è lasciato realmente alle spalle la modernità (…) La secolarità non si definisce più mediante la delimitazione del religioso, bensì per il fatto che la contrapposizione tra religioso e secolare non gioca più alcun ruolo dal punto di vista politico e costituzionale» (29).

Il tratto autenticamente distintivo della tarda modernità non è l’indifferentismo religioso, né tantomeno l’affievolimento di determinate forme o prerogative religiose di carattere pubblico e confessionale, bensì la necessità di ricorrere a gesti rivendicativi o semplicemente espressivi della propria appartenenza religiosa.

È la spinta auto-dimostrativa del credente e delle istituzioni religiose a essere in qualche modo superata nella condizione post-secolare: la partecipazione e l’appartenenza religiosa non richiedono più sforzi accessori e complementari per tutelare il territorio della confessionalità, per difendere le ragioni della propria fede o per rivendicare le prerogative della propria comunità religiosa.

«Post-secolare, allora, non è indice della riacquisizione del religioso nel mondo secolare della modernità, ma del congedo dalla contrapposizione tra secolare e religioso […] Alla base sta la distinzione tra stato (sfera politica) e società (la totalità di tutte le diverse sfere sociali), che è stata stabilita a partire dal XIX secolo. Il rapporto tra stato e Chiesa o tra stato e religione non può più servire come paradigma per la definizione del rapporto tra religione e società nel suo complesso» (43).

Se la condizione attuale è caratterizzata dal superamento della contrapposizione tra secolare e religioso, così come delle rivendicazioni confessionali che ne conseguono, per il cristianesimo può dirsi probabilmente conclusa una specifica modalità di autorappresentazione storica. Si dischiude un mattino propizio per i cammini cristiani negli scenari inesplorati della contingenza: coerenza e partecipazione possono diventare gli elementi essenziali per sostenere i cristiani nella storia, liberandoli da ansie dimostrative o da prestazioni rappresentative nei riguardi del potere politico statuale o sulla scena mediatica globale.

Questa radicalità cristiana che si concretizza nella priorità dell’essere, senza soccombere alla tentazione dell’apparire, viene identificata da Dalferth mediante l’espressione: orientamento alla Presenza ultima.

Il cristianesimo si comprende alla luce di una gestualità pragmatica e capace di riconoscere il ruolo creativo di Dio che si rende prossimo degli uomini. L’azione che maggiormente qualifica il cristiano non è dunque un atto cognitivo, come può essere intesa la credenza religiosa, né la conformazione dell’agire individuale a determinate prescrizioni etiche.

L’orientamento (Orientierung), anzi la necessità di orientarsi come esigenza fondamentale per la vita umana, diventa nel cristianesimo possibilità di riconoscere una Presenza ultima e di riconoscersi consapevolmente innanzi a essa. Nel mondo secolare il rapporto con la trascendenza è libero d’inverarsi in singole e specifiche pratiche cristiane di orientamento, «rendendo evidente come questa Presenza ultima sia compresa (come presenza creatrice di Dio), come noi veniamo compresi (come prossimi di Dio fra tutte le creature) e come il nostro mondo è compreso (come creazione di Dio)» (231).

Le coppie oppositive che hanno scandito l’incedere della modernità perdono in qualche modo la capacità di definire in maniera esaustiva e adeguata l’essenza del cristianesimo: la distinzione tra religioso e secolare o tra stato e Chiesa risulta essere secondaria rispetto alla più centrale ed efficace distinzione tra divino e mondano, dove la prerogativa del divino risiede nell’apparire non come totalmente altro, ma come trascendenza implicata e impegnata nella contingenza.

L’orientamento alla Presenza ultima è tutt’uno con la «passività creativa, propria di esseri che possono divenire più di quello che sono in grado di fare da soli, perché vivono di un incontro che li rende ciò che da soli non riescono a essere: creature di Dio e prossimi di Dio» (56).


V. Rosito, in Il Regno 2/2017, 36