In modo estremamente chiaro e coinvolgente, G. Ferretti ricostruisce dapprima un profilo complessivo della figura e del pensiero di Levinas, per poi approfondire quattro temi specifici: 1. l’itinerario a Dio in chiave etico-fenomenologica; 2. il primato della misericordia sulla giustizia; 3. le tensioni tra escatologia al presente e al futuro; 4. la trasfigurazione etica e teologica del corpo. Tra le novità del volume si segnala il riferimento agli inediti pubblicati a partire dal 2009.
La vita e il pensiero di Levinas sono presentati con l’attenzione a rilevare alcune tensioni non sempre del tutto risolte, senza la preoccupazione di giungere a conclusioni pacificanti. In tal modo il lettore ha la possibilità di continuare a riflettere su alcuni nodi particolarmente significativi per chi si proponga di approfondire l’intreccio tra la tradizione filosofica occidentale (con particolare riferimento a Husserl e Heidegger) e quella religioso-teologica proveniente dall’ebraismo.
Levinas rileva che la filosofia si radica in esperienze pre-filosofiche e che la Bibbia fa parte delle esperienze fondatrici del senso radicale dell’umano. Per questo motivo, se si vuole tematizzare l’esperienza religiosa rivolgendosi a tutti gli uomini, è necessario cercare di tradurre la Bibbia in un linguaggio filosofico. Da questo punto di vista il metodo fenomenologico risulta indispensabile per realizzare quel rimando all’esperienza umana universale sottesa alla Bibbia e alla tradizione ebraica. L’attenzione all’humanum universale da individuare in ogni uomo al di là di qualsiasi appartenenza religiosa, costituisce l’assillo fondamentale della riflessione filosofica di Levinas e «al tempo stesso la tonalità caratteristica della sua interpretazione della “singolarità ebraica”» (13).
Ferretti stesso assume questa prospettiva come orizzonte in cui si sviluppa l’intero percorso di Levinas e la propone di continuo per l’interpretazione dei principali nodi teoretici. La condizione dell’ebreo, infatti, rappresenta per Levinas la condizione stessa dell’essere uomo in quanto tale: «Dell’altro uomo che mi interpella con il suo volto, ingiungendomi di non ucciderlo e al tempo stesso suscitando in me la tentazione dell’omicidio; ma anche di me stesso, che mi scopro come uomo quando, anche nelle situazioni di estremo abbandono, senza il sostegno di alcuna istituzione, avverto la chiamata ad una responsabilità incondizionata per il prossimo» (17).
La continua mediazione tra tradizione filosofica e tradizione specificamente religiosa ha consentito a Levinas di affermare in modo incontrovertibile la svolta relazionale che caratterizza l’antropologia contemporanea e il ridimensionamento dell’ontologia quale orizzonte ultimo del senso a vantaggio del primato dell’etica quale origine ultima della significazione umana. Il tema della “relazione con altri”, infatti, costituisce la chiave ermeneutica di fondo del pensiero di Levinas e si muove tra l’originaria attenzione accordata all’alterità altrui (Totalità e Infinito) e la successiva analisi del tema della soggettività ricondotta all’esperienza di una radicale passività del soggetto (Altrimenti che essere), fino a «far emergere come la vera soggettività del soggetto, quella che lo caratterizza nella sua ipseità unica, non è la sua attività di soggetto costituente che autonomamente si pone e pone il mondo (la Sinngebung husserliana), bensì la sua passività o “soggezione” di “soggetto”, originariamente colpito da un’ingiunzione etica che gli viene dall’Altro e dall’Alto e che lo individua come responsabile prima ancora che egli possa prender posizione con un atto libero o con un atto di coscienza» (34).
Riconoscere l’originarietà della relazione con l’altro – sottolinea Ferretti – consente a Levinas di provocare una profonda revisione della cultura della modernità, incentrata sul soggetto individualisticamente inteso: «Il Bene, nel pensiero di Levinas, non si configura più come il termine del dinamismo ontologico del soggetto verso il suo compimento e la sua felicità; bensì essenzialmente come appello che “investe” […] la libertà del soggetto umano in modo “anarchico”, senza rimando a principi ontologici o teologici precedenti; e così lo destina alla responsabilità nei confronti di Altri prima ancora che egli possa coscientemente e liberamente scegliere tra il bene o il male» (76).
Se con tale priorità del bene è possibile approfondire la distinzione tra misericordia e giustizia e affermare che la giustizia autentica può essere realizzata solo se è animata dalla carità responsabile, si ripropone anche uno dei nodi centrali della speculazione levinassiana: quello riguardante il rapporto tra libertà e responsabilità, laddove la responsabilità è affermata nella sua anteriorità rispetto alla libertà. Lo studioso di teologia non può non interrogarsi ulteriormente sulla tensione di fondo che riguarda non solo il rapporto tra autonomia e teonomia, ma anche quello tra libertà della coscienza chiamata a consapevolezza e passività di un soggetto già eletto dal bene prima ancora di poter prendere coscienza di sé. Se da un lato Levinas prende le distanze da una concezione sacrale della trascendenza di Dio implicante violenza nei riguardi dell’uomo e ribadisce l’importanza della libertà, dall’altro nella relazione immediata io-volto altrui prevale l’appello dell’altro indipendentemente da ogni orizzonte della coscienza. Analogamente lo studioso di filosofia non può non sentirsi provocato dall’interpretazione levinassiana dell’intenzionalità assunta come «attività rappresentativa oggettivante» o come «mire della volontà», contrapposta ad una «passività» di fronte all’appello etico del Bene che interpella nel volto d’Altri (cf 140). Tale lettura della soggettività certamente contribuisce al superamento della violenza che ha caratterizzato un determinato sviluppo della cultura moderna, ma non rende del tutto ragione delle molteplici vie attraverso cui la filosofia occidentale ha tematizzato l’intenzionalità della coscienza.
L’interpretazione levinassiana della soggettività è strettamente connessa alla riflessione sul rapporto con la trascendenza che sospinge al superamento della fenomenologia husserliana, sostituendo l’intenzionalità trascendente dell’etica all’intenzionalità immanente del conoscere e portando così a compimento il “rovesciamento” dell’intenzionalità: «Lungi dal poter essere abbracciato e oggettivato dallo sguardo intenzionale costituente, che finirebbe per riportare altri all’interno della luminosità del mio orizzonte coscienziale, il volto d’altri, per la sua esteriorità radicale, ribalta la mia intenzione opponendovi la particolare “intenzione” con cui mi investe» (51).
La nudità del volto – tema centrale e originale della fenomenologia del corpo proposta da Levinas – nella misura in cui introduce l’infinito della resistenza etica, consente di superare la concezione dell’Altro, inteso come limite ai poteri del soggetto, per rivelarne la sua profonda consistenza. La nozione di nudità rimanda al darsi della presenza di Altri che si sottrae a qualsiasi tentativo di violenza e di riconduzione all’io e al tempo stesso costituisce appello etico che coinvolge nella innegabilità della relazione: «L’estraneità-miseria dell’Altro, che si esprime come volto-nudo, si manifesta quindi come appello etico, anzi come comando etico incondizionato, che trasfigura la miseria altrui nella assoluta “Altezza” (Hauteur) del Signore, e la mia libertà di soggetto egoistico, che tende ad imporsi agli altri, in libertà di soggetto responsabile per altri, che deve rispondere della sua miseria» (135). La fenomenologia del volto d’Altri e la fenomenologia della soggettività responsabile costituiscono le due vie principali percorse da Levinas per parlare di Dio in termini filosofici. Si dà, tuttavia, anche la possibilità di una terza via individuata da Ferretti nel recupero della coscienza trascendentale proposto in Altrimenti che essere: c’è da chiedersi, infatti, «se all’origine del senso non ci sia dato di “sperimentare” – “grazie a Dio” – non solo la relazione gratuita di me verso altri ma anche la relazione gratuita di altri nei miei confronti» (74).
La centralità del nesso misericordia-giustizia, infine, sollecita Levinas ad interpretare l’escatologia sia nella sua dimensione di “salvezza per il presente” sia nella prospettiva di un futuro messianico in cui si possa realizzare in pienezza la salvezza annunciata. Grazie all’identificazione del Messia con il giusto che soffre e che ha preso su di sé la sofferenza degli altri (cf Is 53), il messianismo si configura come una vocazione personale degli uomini e non come l’attesa della venuta di un uomo che arresta la storia. L’irrompere della trascendenza che emerge nella responsabilità disinteressata fa sì che non vi sia bisogno del giudizio finale della storia o di una ricompensa futura e al tempo stesso introduce la dimensione di un “futuro puro” al di là della morte.
Tale visione dell’escatologia costituisce la crisi di qualsiasi religione a buon mercato che pone in primo piano la prospettiva di un soccorso finale commisurato alle azioni meritorie e anche il superamento di quelle escatologie laiche che pretendono di possedere il compimento finale della storia. Il “futuro puro” impone che Dio non venga tematizzato sul piano ontologico della presenza ma che venga nominato a partire dall’incondizionatezza dell’esigenza etica. Il rimando al futuro di Dio implicherebbe per Levinas un «ad-Dio della teologia»: l’enigmatica espressione è interpretata da Ferretti sia come il «distacco del soggetto etico dal campo dell’essere come presenza alla coscienza» sia come «un vero e proprio rimando a Dio, o meglio un’attestazione/testimonianza di Dio, che parla profeticamente nell’“Eccomi!” (il Dire per antonomasia!) della dedizione incondizionata al prossimo» (118). Un “Eccomi” che sospinge fino alla sostituzione agli altri e all’assunzione della persecuzione come espiazione, consentendo alla corporeità di essere «quel costitutivo necessario della oggettività che le permette di offrirsi donandosi concretamente ad altri» (146).
Con profonda onestà intellettuale Ferretti non intende risolvere affrettatamente la tensione tra autosufficienza dell’etica e rimando dell’etica ad un orizzonte che la trascende, lasciando emergere ancora una volta le molteplici tensioni che permangono nella fondazione stessa dell’istanza etica. Un invito, dunque, a continuare a pensare con Levinas senza sottrarsi ai numerosi interrogativi e ai circoli ermeneutici che si sono dischiusi lungo il percorso proposto.
A. Trupiano, in
Rassegna di Teologia 59 (1/2018), 161-164