Con una scrittura estremamente accessibile e coinvolgente, J. Grondin – tra i principali esperti dell’ermeneutica contemporanea – riesce a dar conto della complessità teoretica dell’itinerario di Paul Ricoeur collocandolo nel contesto della filosofia contemporanea e della storia del ’900. Ciò che colpisce è la capacità di delineare il filo conduttore della proposta di Ricoeur, ripercorrendo gli snodi principali della sua riflessione e lasciando emergere la peculiarità del suo pensiero rispetto a ben noti interlocutori quali Heidegger e gli esistenzialisti, Husserl, Gadamer, Mounier, Marcel e Jaspers. In una prima approssimazione si può dire che il suo percorso, radicato nella tradizione riflessiva francese, nel personalismo e nell’esistenzialismo, mostra costante interesse per una Filosofia della volontà (orig. in due volumi: 1950, 1960) nutrita da «dialogo, speranza, confronto di idee e apertura all’inedito dell’iniziativa umana» (11). Questa filosofia dell’ascolto, intesa fondamentalmente come ermeneutica, rivela radici più consone all’impostazione di Dilthey che a quella di Heidegger, in quanto per Ricoeur l’ermeneutica riguarda «l’arte delle manifestazioni vitali fissate per iscritto» (70) e, accogliendo il monito kantiano secondo cui «il simbolo dà a pensare», si pone in sostanziale continuità con le istanze di una filosofia della riflessione che costituisce l’originalità del suo intero progetto. Nel 1965 Ricoeur ebbe modo di distinguere una via corta e una via lunga dell’ermeneutica: la prima è identificata con la tesi heideggeriana in base alla quale la comprensione è una modalità dell’esistenza, con la conseguente valutazione delle questioni epistemologiche tradizionali dell’interpretazione. La via lunga, invece, si delinea in continuità con l’impostazione di Dilthey, ponendo al centro le questioni epistemologiche, metodologiche e linguistiche e mantenendo aperto il dialogo con i saperi scientifici.
L’approccio all’ermeneutica, inoltre, è caratterizzato da profonda attenzione a tutte le scienze dell’umano – in particolare a quelle attente ai miti e ai simboli – allo scopo di venir a capo della problematica del male: «Il male non potrebbe dunque essere compreso che alla luce dei simboli che l’hanno rappresentato e che occorre interpretare. La svolta ermeneutica della fenomenologia sarebbe allora determinata dall’aporia costituita dalla sfida del male, e segnerebbe un limite alla fenomenologia stessa e alla sua via privilegiata, quella dell’introspezione: l’ego non può conoscersi che con un cammino attraverso i simboli, i miti e i racconti nei quali si è tradotto il suo sforzo di esistere» (68).
Dopo la svolta maturata negli anni ’60, il problema centrale dell’ermeneutica consiste nel capire il sacro nel contesto della modernità, senza però fare della modernità la questione centrale della riflessione filosofica contemporanea. L’ermeneutica presenta una funzione restauratrice nella misura in cui consente di aprirsi meglio al messaggio dei simboli e di superare l’oblio del sacro che caratterizza la nostra epoca. A tal proposito si può parlare dell’esigenza di una seconda ingenuità che trae profitto anche dalla lezione demistificatrice segnata dal contributo di Freud: Ricoeur collega l’ermeneutica con l’interpretazione dei simboli, «ma non contrappone più frontalmente l’ermeneutica restauratrice all’interpretazione riduttrice di Freud. Al contrario, l’interpretazione riduttrice e la meditazione restauratrice sono viste sempre più come due vie complementari, quelle del sospetto e della fiducia, essenziali all’arco ermeneutico» (85).
In realtà il progetto di un’ermeneutica restauratrice non è mai stato realizzato fino in fondo in linea con le intuizioni iniziali perché Ricoeur ha avvertito l’esigenza di rispettare il confine tra la filosofia e la fede: a partire dal 1965 egli «ha ampliato, ma anche modificato, la sua comprensione del compito ermeneutico, cessando forse di legare ad esso così direttamente, in nome di una seconda ingenuità, speranze immediatamente religiose suscettibili di contrastare la carenza di senso della modernità. Tuttavia si potrebbe dire che per certi aspetti Ricoeur non abbia mai interamente rinnegato il suo primo ingresso nell’ermeneutica, in quanto richiamo a qualcosa di essenziale relativo alle possibilità dell’uomo e alla sua ricerca di senso» (87). L’originalità della sua proposta non è stata colta da quanti hanno visto nell’opera Dell’interpretazione (orig. 1965) semplicemente un saggio su Freud: al centro dell’interesse, infatti, c’è la consapevolezza della priorità del linguaggio come luogo in cui si manifestano tutte le espressioni di senso. La presenza di un doppio senso non riguarda dunque solo i sogni, ma caratterizza tutto il campo del linguaggio e rinvia alla nozione di simbolo: le nozioni di simbolo e di interpretazione si spiegano reciprocamente (93). Ciò non impedisce a Ricoeur di problematizzare le letture riduttive che intendono il simbolo solo come un’illusione o un sintomo. Prendendo poi le distanze dalla linea heideggeriana e, almeno in parte, anche da quella di Gadamer, non tutte le funzioni significanti sono assunte come oggetto dell’ermeneutica in quanto l’interpretazione riguarda primariamente la funzione simbolica.
Il problema affrontato in Il conflitto delle interpretazioni (1969) non costituisce uno scacco per il lavoro ermeneutico perché l’esercizio del sospetto praticato da Marx, Freud e Nietzsche aiuta la coscienza a comprendersi meglio e di conseguenza arricchisce il compito di una filosofia della riflessione. Accolti gli stimoli critici della via del sospetto, l’ermeneutica può percorrere la via della restaurazione attraverso l’apporto dell’esegesi biblica e della fenomenologia che scruta l’intenzionalità della coscienza: «Essa prende il senso quale si dona, illuminando e guidando la coscienza, non senza trarne una salutare lezione di umiltà dalle ermeneutiche del sospetto» (98). Rispetto alla svolta introdotta da Freud, Ricoeur avverte l’esigenza di superare l’assolutizzazione del condizionamento dell’inconscio e dell’involontario, non perché essi non esercitino il loro potere, ma perché la loro rilevanza non può indurre la coscienza alla rassegnazione di chi rinuncia a comprendersi.
L’intenzione di recuperare il nesso esistente tra verità e metodo – oltre a ribadire una parziale distanza rispetto al progetto ermeneutico di Gadamer – sospinge Ricoeur a un confronto con lo strutturalismo, mosso però dalla consapevolezza che l’interesse per le questioni sintattiche non può mai prescindere dall’attenzione alla semantica e ai contenuti espressi: «Costituendo il linguaggio come un’entità autonoma di dipendenze interne, la linguistica strutturale riesce a porsi come scienza, ma vi giunge a prezzo di esclusioni. In effetti esclude “l’intenzione prima del linguaggio, che è quella di dire qualcosa su qualcosa”» (106). La portata referenziale del discorso, la “freccia del senso”, costituisce la tesi centrale dell’ermeneutica di Ricoeur: il senso manifesta nel discorso il suo impulso ad avanzare e, avanzando, provoca nel destinatario l’interpretazione di sé. Tale programma è palesemente espresso sin dal titolo dell’opera Dal testo all’azione (orig. 1986): «la comprensione del testo che noi siamo, rinvia in ultima istanza all’azione da compiere, che rappresenta il punto di partenza e di arrivo dell’interpretazione» (115). Questa consapevolezza prepara l’ultima svolta, quella espressa dalle summae della maturità che si collocano sul piano dell’ermeneutica del tempo e del racconto, dell’etica e del pensiero della storia. Ovunque gli uomini raccontano delle storie: «la comprensione che abbiamo di noi stessi proviene dai racconti che ci costituiscono e di cui ci siamo appropriati. Essi costituiscono ciò che Ricoeur chiama la identità narrativa: rispondere alla domanda “chi?” vuol dire raccontare la storia di una vita» (122). Un’ermeneutica dell’identità narrativa ha inevitabilmente delle conseguenze etiche: la storia apre al campo dell’azione possibile e responsabile, ponendo in primo piano l’attenzione alla coesistenza e alla reciprocità. Le questioni dell’identità e dell’etica rinviano all’interesse per un’ontologia che non si concentri sul senso dell’essere in generale, ma sulle possibilità dell’uomo. Da questo punto di vista la distanza rispetto al progetto ermeneutico di Heidegger e di Gadamer risulta, almeno in parte, parzialmente attenuata. Attraverso la meditazione sulla storia, sul racconto e sui percorsi del riconoscimento, l’interesse conclusivo di Ricoeur approda alla scoperta della positività di un oblio di riserva, di una possibilità di dimenticare che non consiste nella cancellazione delle tracce del passato, ma indica disponibilità a un’attiva in-curanza: essa restituisce all’uomo la possibilità di vivere la libertà dei gigli dei campi e degli uccelli del cielo che, pur non seminando, mietendo e accumulando nei granai, vivono in pienezza la felicità dell’amore.
A. Trupiano, in
Rassegna di Teologia 56 (4/2015) 667-669