Il poderoso e ponderoso volume di Angelo Bertuletti è l’esito felice di un cammino personale, rigoroso e coerente, e di un’intensa e prolungata collaborazione accademica, condotta all’interno di quella che si è soliti da tempo indicare come “scuola milanese”, con lo scopo di elaborare una ragione teologica capace di coniugare il principio di oggettività del dato rivelato con il principio soggettivo dell’esperienza effettiva del consegnarsi di Dio all’accoglienza attuale della coscienza credente, mediante la fede.
Il volume di Bertuletti è uno dei frutti più maturi di tale ricerca e ne recepisce in primo luogo il lessico, l’articolata modalità argomentativa e la stringente coerenza concettuale, non priva di quei tecnicismi di formulazione e argomentazione che possono risultare spesso criptici al lettore, ma che hanno forse lo scopo di “costringerlo” a entrare in un oggettivo meccanismo argomentativo, impedendogli possibili scivolamenti in quella koiné teologica, spesso riduzionistica, che caratterizza tanta produzione del nostro tempo.
Bertuletti muove un passo decisivo rispetto all’obiettivo di fondo del progetto interdisciplinare milanese, con il tentativo di una reductio ad unum o, più precisamente, ad unicum del Mistero che si rivela all’effettività della fede, nella stretta correlazione tra le sue dimensioni trinitaria, cristologica e antropologica.
Come il titolo manifesta, non è posta al centro tanto l’unità del Mistero, quanto piuttosto la sua unicità, il carattere irripetibile e inconfondibile del Dio di Gesù Cristo, contro ogni tentazione di ridurre la sua identità alla generalità di un discorso religioso, senza precisa coscienza della propria genesi de Trinitate e del proprio vissuto teologale in Trinitate.
Nel tentativo di articolare l’unità e l’unicità del Mistero nell’Origine trinitaria della sua identità e nel compimento antropologico del suo comunicarsi in forza della sua mediazione cristologica, Bertuletti è “obbligato” a far incontrare i due modelli “alternativi” della ragione teologico-metafisica e della narrazione teologico-biblica. La fine della modernità è il contesto favorevole a vagliare i due dispositivi della ratio metafisica e della narratio biblica, allo scopo di rifondare la riflessione teologica su categorie ispirate insieme al pensiero biblico e alla ritrovata dimensione storica dell’antropologia contemporanea e di radicare il compito della teologia sull’effettiva esperienza di fede operante nel soggetto. La posta in gioco è la riformulazione di una teologia trinitaria radicata, in forza di una corretta mediazione cristologica, in una più autentica dimensione antropologica.
Il lavoro si divide in quattro capitoli di lunghezza diseguale: il primo, assai più lungo degli altri (33-337) rilegge decostruttivamente l’intera tradizione teologicometafisica; il secondo (338-452) è dedicato all’esame del dispositivo storico-narrativo della rivelazione biblica; il terzo (453-535) traccia il percorso storico più specifico della teologia trinitaria; il quarto, infine, il più breve (535-590), delinea il quadro sistematico di una teologia trinitaria, che ha la sua fonte rivelativa nella realtà cristologica, partecipata alla coscienza del credente nell’effettività dell’esperienza di fede, alla quale si dischiude, in actu exercito, il mistero dell’Unico.
Nel primo capitolo Bertuletti rilegge il percorso dell’intera tradizione teologica, soprattutto in riferimento alla triplice svolta ontologica, trascendentale e fenomenologica, che caratterizza il clima culturale rispettivamente del medioevo scolastico, della tarda modernità e dell’epoca contemporanea. Il teologo bergamasco riconduce i differenti paradigmi alle loro più decisive radici epistemologiche, per metterne in luce gli effettivi discrimini e i possibili punti di convergenza, al fine di intravedere l’unità prospettica tra la statica oggettività di un sapere metafisico-sistematico e la dinamica partecipazione soggettiva di una configurazione conoscitiva che assuma il divenire della storia e il fluire dell’esperienza. Se il modello tomista scommette su un’impostazione gnoseologica realistica, in cui la verità trascendente è la referenza ultima dell’intenzionalità conoscitiva e insieme il suo principio immanente, correlando i due ordini, naturale e soprannaturale, nella medesima intenzionalità veritativa, pur nella effettiva disparità di possibilità referenziale, il modello scotista, che sostituisce a una gnoseologia dell’intenzionalità una noetica del concetto, ed esteriorizza così la realtà al pensiero, la cui meta è la semplice rappresentazione, radicalizza la separazione tra i due ordini, accomunati concettualmente dal riferimento al puro universale, ma divaricati nell’ambito della referenza e dell’effettività veritativa, fondando la radicale autonomia del sapere metafisico rispetto a quello rivelato. La mutata impostazione di Scoto ha originato una sorprendente Wirkungsgeschichte: la neutralità mediana del concetto, tesa a salvaguardare assolutezza della Causa e indeducibilità del rapporto creaturale, ha configurato filosofia e teologia in una più radicale autonomia, sino alla fondazione trascendentale kantiana.
Con la svolta trascendentale, la metafisica passa a un fondamento antropologico. La nuova genesi metafisica muove dall’orizzonte della soggettività, che coglie la pensabilità della sua finitezza solo sulla base di un fondamento trascendente, non oggettivabile conoscitivamente, ma necessario “praticamente”, a postulato dell’atto incondizionato della libertà. Il dispositivo kantiano consente così un ulteriore sganciamento della filosofia dalla teologia, in direzione della centralità del soggetto, ma rimane insufficiente a dare conto dell’atto della libertà che assume l’effettività trasformante dell’esperienza storica. All’insufficienza della svolta trascendentale ad arginare il predominio del dispositivo metafisico tenta di rispondere la fenomenologia contemporanea esaminata nella penultima parte (163-260) del capitolo.
Le figure di Heidegger e Husserl, Lévinas, Marion e Ricœur, hanno cercato, su base fenomenologica, di superare l’apriorismo trascendentale, in direzione dell’effettività esperienziale. Il dispositivo di Husserl conserva una forte quota trascendentale. Ponendo la coscienza come norma egologica di un’esperienza considerata in termini assoluti più che effettivi, esso istituisce una preordinazione delle facoltà del soggetto rispetto a quell’esperienza effettiva alla quale esso è invece correlativo. Il sistema heideggeriano, accentuando la decisione soggettiva rispetto alla donazione oggettiva dell’esperienza, fa perdere a quest’ultima la sua irriducibilità, sacrificando il momento teologico della rivelazione al primato antropologico dell’autodeterminazione. Lévinas e Marion tentano una correzione dell’impostazione di Heidegger. Il primo accentua il carattere trascendente dell’alterità che, irriducibile alla cattura categoriale del soggetto, gli impone il suo appello morale, promuovendo l’etica a filosofia prima e vanificando il ruolo della fenomenologia nella determinazione della qualità soggettiva di una risposta effettivamente morale o teologale. Il secondo, con la riduzione dell’esperienza alla donazione che trascende il soggetto, sino a saturarne la capacità recettiva, sembra vanificarne la possibilità di autoderminazione, limitando la libertà della risposta a una possibile rivelazione. L’accoglienza della rivelazione si darebbe più come invasione del campo coscienziale del soggetto che non come effettivo atto teologale, nella piena facoltà di una libera decisione. Ricœur tenta una correzione delle due impostazioni precedenti mediante un innesto della fenomenologia sul tronco di un’ermeneutica dell’alterità alla quale non può sottrarsi neppure l’ipseità nel tentativo autentico di conoscersi e determinarsi. Ogni autocomprensione e autodeterminazione richiede un passaggio ermeneutico attraverso l’alterità di una manifestazione simbolica, il cui appello non si dà nell’immediatezza di un’azione che piega o satura la coscienza, ma nell’intervallo di un’operazione decodificatrice, dalla quale emerga un’istanza di ingiunzione al soggetto stesso non estrinseca alla sua intenzionalità, ma in certa misura rispondente al suo orientamento teleologico. In tale operato la coscienza è sottratta tanto al regime della ragione giustificativa quanto alla dittatura del fenomeno o dell’alterità, nella libertà di rispondere alla rivelazione cristologica quale luogo anticipatore del suo destino escatologico e insieme via ermeneutico-esistenziale alla conoscenza di quell’affermazione originaria che il soggetto porta in sé, quale criterio di discernimento dei segni dell’assoluto e realizzazione piena della propria intenzionalità teleologica.
Nell’ultimo scorcio del capitolo (261-337) si muove da un’ipotesi di superamento della netta distinzione tra ordine naturale e soprannaturale istituita dalla riflessione medievale e radicalizzata dal modello scotista. La coscienza è infatti già sempre qualificata in senso teologale, aperta a una rivelazione divina capace di integrarla, quale condizione interna al suo stesso realismo. Essa è correlata alla rivelazione come la vuota intenzionalità al suo riempimento intuitivo, nelle due modalità di esercizio, filosofica e teologica. Con la prima essa coglie le condizioni alla correttezza del suo atto; con la seconda lavora al progresso dell’intellectus fidei, con una circolarità tra filosofia e teologia possibile soltanto accordando alla filosofia una competenza sulla medesima res della teologia. In tale prospettiva Bertuletti esamina i dispositivi di correlazione tra filosofia e teologia di matrice intrinsecista e estrinsecista, da Rahner a Barth, rilevando come l’influenza di quest’ultimo abbia determinato, nel senso di un’incompetenza della filosofia a esprimersi de Deo e di una sufficienza della rivelazione al riguardo, l’orientamento prevalente del pensiero teologico. L’istanza rahneriana sembra rientrare in gioco con il delinearsi di un nuovo paradigma di correlazione. Se il tentativo di Pannenberg, giocato sulla categoria dell’anticipazione storica dell’escatologico nella mediazione cristologica, rimane sul versante oggettivo dell’universalità dell’esperienza nella sua correlazione con lo specifico teologico, ma non sembra in grado di giustificarla soggettivamente, quale condizione immanente dell’effettività della coscienza teologale, quello di Theobald sembra avvicinarsi maggiormente alla soluzione del problema di una fondazione antropologica della fede teologale. Più vicino al paradigma biblico, egli insiste sul carattere principalmente relazionale della rivelazione, come darsi gratuito alla libertà attuale della coscienza che risponde all’eccedenza mediante la fede e ritrova a posteriori, nella luce della rivelazione, il fondamento autentico della sua stessa libertà. Alla preoccupazione per l’oggettività si deve sostituire quella per l’autenticità. In riferimento alla ripresa critica di Labbé, Bertuletti ripropone la questione fondamentale dell’obiettiva portata teologale dell’atto del soggetto rispetto al quale il luogo della verità non è la ragione, ma la libera decisione nei confronti della rivelazione cristologica di Dio, in modo rispondente al paradigma biblico, al quale è dedicato il secondo capitolo.
Nell’esame del dispositivo biblico, con l’articolazione dei suoi generi espressivi fondamentali, Bertuletti assume l’impostazione “strutturale” di Beauchamp. L’attestazione biblica è espressione narrativa della coscienza, illuminata dagli eventi in cui Dio non comunica informazione, ma produce trasformazione, aprendo alla risposta del precetto, che orienta al futuro di una narrazione ancora da scrivere. Se la Profezia interviene come novum, paradossalmente rivelativo di una fedeltà al passato da ritrovare, istituendo il dispositivo figurale tra memoria e speranza, il genere sapienziale riporta il complesso delle figure al luogo originario della loro genesi nella Sapienza creatrice, mentre l’apocalittica ne coglie l’unità prospettica nel fuoco del compimento escatologico. La novità cristologica, tra realizzazione protologica e anticipazione escatologica, è il fulcro del racconto totale, novità di profezia che istituisce nuovo racconto, ricapitolazione sapienziale e anticipazione apocalittica, in cui la novità si presenta come alterità rispetto all’Origine e, insieme, come sua compiuta ripresa. Il dispositivo biblico ricapitolato cristologicamente nell’Origine che genera il Nuovo e nel medesimo che produce l’altro da sé, è l’attestazione unica del Mistero dell’Unico nella sua identità trinitaria: il Padre, senza altro che se stesso genera il Figlio in quanto altro, istituendo con lui quella relazione fatta persona che ha il nome di Spirito Santo. La testimonianza biblica rinvia alla verità narrativa di un Dio aperto alla novità “storica” di un divenire cristologico e di un’apertura pneumatologica all’accoglienza compiuta dell’umano. Su tale attestazione Bertuletti esamina la storia della teologia trinitaria (capitolo terzo), orientandosi alla formulazione conclusiva della verità trinitaria di Dio (capitolo quarto).
La riflessione trinitaria, dalle modalità storico-narrative dell’economia dell’epoca patristica, dopo la svolta metafisica ha assunto categorie distanti dal modello biblico e dall’esperienza effettiva della coscienza credente. Se il trattato De Deo uno, punto di intersezione tra la ricerca filosofica e il sapere rivelato, costituiva la base della riflessione sistematica, l’esposizione De Deo trino introduceva invece nel mysterium stricte dictum, inaccessibile di per sé alla ragione e conoscibile solo per rivelazione. La prima trattazione può far leva sull’analogia di una simbolica creazionale, radicata nel regime della causa efficiente dell’operare di Dio ad extra; la seconda si fonda invece sulla causalità sui generis della comunicazione intratrinitaria e sul dono della vita divina all’uomo, con una simbolica che trova, già da Agostino, il suo analogato principale nelle operazioni spirituali dell’interiorità. Con tutte le sue variazioni, sino alla radicalizzazione concettualista di Scoto, che separa ancor più l’una dall’altra le due trattazioni, la teologia trinitaria antica assegna la sua verità esclusivamente agli enunciati della rivelazione, quali segni di una realtà che supera la comprensione umana, rimanendo incapace di riferimento tematico all’effettività della coscienza credente.
La riflessione contemporanea esprime differenti tentativi di superamento della separazione tra teologia e economia, a partire dalle proposte fondatrici di Barth e Rahner. Il primo accentua l’assoluta gratuità e libertà della rivelazione facendo saltare l’aggancio antropologico alla teologia. Il secondo muove dall’istanza antropologica trascendentale in direzione della formulazione teologica categoriale, ma nell’utilizzo di una concettualità incapace di sguardo fenomenologico all’effettiva esperienza della coscienza sollecitata ad accogliere la rivelazione. Gli altri tentativi esaminati sono quello di von Balthasar da un lato e di Schoonenberg e Moingt dall’altro. Il primo muove dall’economia come anamorfosi della teologia facendo leva sulla modalità kenotica del dramma trinitario rivelato dall’evento cristologico. Nella sua impostazione l’antropologia non è, come per Barth, il polo negativo della teologia, ma il medio della rivelazione di Dio all’uomo, un medio tuttavia interamente comandato da una cristologia, pensata per lo più come “modalizzazione” della trinitaria e incapace di salvaguardare la radicale differenza dell’umano nella sua effettiva ricezione dell’evento di rivelazione. I secondi rovesciano invece la prospettiva, cercando una comprensione della trinitaria a partire dalla cristologia e assumendo l’economia come orizzonte intrascendibile del discorso su Dio, in linea con il dispositivo biblico. Nel principio radicalmente economico che essi fanno valere, l’identità divina è plasmata dalla relazione con la creazione e dal divenire della storia. Nell’incarnazione il Verbo assume, anche in quanto Dio, la novità del divenire confermando il principio di un compimento della teologia attraverso l’economia. Entrambi gli autori riconoscono la verità dell’e vento cristologico come intrinseca alla sua effettività storica e sottolineano la positività della differenza creaturale, ma non riescono a superare l’esteriorità tra il dispositivo biblico, che essi privilegiano come ispirazione e quello metafisico a cui non sanno rinunciare in fase di concettualizzazione, introducendo in Dio una processualità che lo sottopone alla temporalità, facendo originare la Trinità dall’economia. Solo una circolarità tra i due dispositivi consente di formulare un modello concettuale che articoli in stretta correlazione le tre dimensioni del Mistero di Dio, trinitaria, cristologica e antropologica, mantenendo la loro irriducibilità.
In Dio la tripersonalità è la forma stessa dell’unità dell’essenza. Tale paradosso non necessita di una declinazione genetica di tematizzazione dell’operazione all’origine delle differenze, pena una proiezione in Dio dell’economia. La genesi dell’identità trinitaria non è processuale, ma identificata all’atto originante le differenze ipostatiche, nella sua coincidenza con le differenze stesse. Essa si comunica nell’evento cristologico non come sua rappresentazione speculare, ma come genesi del Nuovo dall’Origine. L’evento-Cristo è la rivelazione unica del Dio Unico, nell’identità dell’autodonazione di Dio all’uomo con Dio stesso che si dona. L’economia è espressione della donazione della Trinità in quanto novità rispetto al suo stesso essere. L’economia è il rivelarsidonarsi di Dio come Nuovo. Il Dio che si comunica nella sua sorprendente unicità non è anticipabile intuitivamente, né tematizzabile concettualmente, ma coincidente, nel suo rivelarsi effettivo, all’atto stesso della coscienza credente che lo accoglie. L’intera riflessione teologica consiste dunque, per Bertuletti, nella determinazione della particolare forma della coscienza che, sperimentando l’effettività del rivelarsi-donarsi di Dio, si dirige, oltre il piano concettuale, verso il termine reale della sua intenzionalità.
La pregevole elaborazione di Bertuletti rappresenta dunque una tappa essenziale nel cammino di ricerca interdisciplinare della scuola milanese. Nella circolarità tra il dispositivo biblico e quello metafisico e nella irriducibilità correlativa tra teologia, cristologia e antropologia, essa mira a cogliere l’unicità del Mistero del Dio trinitario, nella sua capacità di donarsi nell’evento cristologico con una novità irriducibile di paradossale fedeltà all’Origine, percepibile soltanto all’effettività della coscienza che nel Novum accolto nella fede può riconoscere il segreto originario della sua più profonda identità.
Il lettore può chiedersi conclusivamente se all’accurata disamina dei principali protagonisti della riflessione teologica avrebbe potuto aggiungersi il nome di Bernard Lonergan. Il gesuita canadese, il cui merito principale è stato includere l’evento dell’amore di Dio riversato nei nostri cuori, con la conseguente dinamica della triplice conversione, nella metodica stessa dell’elaborazione teologica, avrebbe forse potuto contribuire a una fenomenologia della coscienza credente effettivamente raggiunta dal dono di Dio. L’effettivo discrimine nell’interazione circolare tra l’impegno sul fronte ermeneutico del dispositivo biblico e l’opera di decostruzione e nuova tematizzazione, secondo le modalità sistematiche proprie del dispositivo metafisico, risiede infatti per Lonergan nell’evento della conversione, che sposta l’attenzione dal piano formale dell’oggettività a quello sostanziale della soggettività autentica.
L. Bassetti, in
Teresianum 67 (2016/1) 286-293