Si apre con una domanda e si chiude con una risposta entrambe semplici il primo libro in traduzione italiana del teologo Anthony J. Godzieba, docente emerito alla Villanova University di Philadelphia, i cui interessi incrociano la teologia fondamentale, la fenomenologia e l’estetica. L’autore si domanda se «nel nostro mondo secolarizzato, consumistico, tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio» (5) e risponde positivamente, congiungendo la teologia trinitaria e l’immagine del Dio amore in un itinerario che sfida gli stereotipi che complicano la strutturazione del discorso di fede oggi.
Non sono dunque la domanda iniziale o la risposta finale in sé a rappresentare il valore aggiunto del testo, ma l’itinerario che getta luce sulla loro persistenza e smentisce le impressioni di superficie, tendenti a rilevare in buona sostanza una crisi generalizzata della fede. Non così per l’autore di questo libro, che dedica le prime 90 pagine alla contestualizzazione del momento attuale attraverso un’analisi sociologica, filosofica e teologica (cf. 7-32) e un excursus storico-filosofico dalle chiare ripercussioni teologiche (dalla Bibbia alla filosofia greca, dal nominalismo alla prima eta moderna, dalla critica della religione del XIX secolo a oggi; cf. 33-88), con cui copre gli ambiti delle domande umane e della progressiva problematicità che il concetto di Dio ha assunto.
Obiettivo dichiarato è «fornire argomenti a sostegno della presenza amorevole, redentrice, liberante e trasformante di Dio nella vita umana e nel mondo» (8): tre poli – Dio, vita, mondo – i cui significati sono stati messi in discussione dal secolo scorso, che Godzieba affronta apertamente, cosciente che la teologia debba rinunciare ai suoi punti di partenza classici per considerarli, piuttosto, conclusioni da raggiungere (9). E ciò a causa della «privatizzazione o marginalizzazione dell’importanza di Dio e della fede religiosa nella società tradizionale» (10), che non può essere ignorata se si vuole che la comunità cristiana condivida lo stesso piano relazionale in cui si confrontano gli uomini e le donne di questo tempo.
Così Godzieba torna ed esamina lo statuto delle domande su Dio fino a rilevarne l’inadeguatezza. Il senso è denunciare l’impossibilità di una conoscenza precisa della natura divina, al punto che le nostre risposte «non saranno mai definitive» anche se, prosegue l’autore, «non saranno inutili» (17). Di Dio si ha sempre una conoscenza «mediata dall’esperienza del mondo e della cultura» in cui si è, tanto che i cristiani si collocano «in una tradizione di interpretazione delle esperienze» (18) che nel libro induce a una precisazione geo-temporale: l’autore sottolinea come scriva da Occidente e da occidentale, nella seconda decade del terzo millennio, a occidentali, in effetti rompendo con una teologia troppo devota all’universale e accettando che il da dove non sia ininfluente nella costruzione e valutazione di ogni teologia.
L’autore riconosce la pluralità della modernità, o, meglio, la sua frammentazione che oggi non esitiamo a definire postmodernità: un’epoca di contrasti (cf. 23) in cui la religione, seguendo il sociologo Bryan S. Turner, sembra non funzionare più da collante sociale ma può ancora «fornire il tipo di motivazione utopistica necessaria per un cambiamento sociale di massa» (24); un’epoca in cui è forse perfino più doveroso distinguere il sacro e il profano pur mantenendoli, se si legge il filosofo Leszek Kolakowski, in una dialettica costante (26); un’epoca, infine, in cui «una sintesi teologica» non è meno possibile che in passato, e è anzi richiesta da una congiuntura storica che può apprezzare la visione religiosa del mondo come «la più realistica di tutte» nel suo rivolgersi «al nostro desiderio di trasformazione del presente inadeguato» (29).
La tesi centrale del testo è che la teologia debba cominciare (o ricominciare) a pensare la realtà divina tramite un approccio sacramentale, creando legami, rimandi, assumendo, in breve, una postura aperta alle possibilità dell’esistenza. Tradizionalmente, infatti, un sacramento attua, rende presente ciò che esprime. Godzieba ripropone un metodo antico e al tempo stesso postmoderno, superando Turner e Kolakowski e la loro «disgiunzione tra sacro e secolare, tra credente e società dominante, tra Chiesa e mondo» (31), perché per il teologo il sacro diventa conoscibile solo se abita lo stesso spazio e parla lo stesso linguaggio del profano.
All’atto di chiedersi come pensare e parlare di Dio oggi, dunque, l’autore individua nella dialettica di presenza e assenza di Dio il cardine teologico mancante. E disattendendo questa tensione, radicale se non altro perché biblica, infatti, che a partire dal periodo tardomedievale si diffonde una concezione estrinsecista: una visione per cui Dio rimane, rispetto all’esperienza umana, essenzialmente estraneo, non solo perché anzitutto trascendente, misterioso o inconoscibile, ma prima ancora perché ridotto a entità sovrapposta alle esperienze vitali degli esseri umani, quasi costretto a un’insignificanza pratica in una vita che non lo riguarderebbe pienamente.
Per Godzieba, allora, «permettere all’interpretazione dialettica di Dio di apparire di nuovo nella sua pienezza rivelata ed essere riconosciuta come la forza vivificante del cristianesimo» (88) significa lavorare a una teologia naturale che eviti il teismo astratto e a una teologia teologica che mostri i punti di accesso alla fede. È a questi due passaggi, ovviamente, che l’autore dedica la parte più consistente del volume (cf. 89-243), anche perché determinanti al fine di cogliere l’approccio sacramentale di fondo.
Con la prima riflessione, il teologo intende mostrare soprattutto la plausibilità dell’esperienza di Dio in quanto «esperienza umana» (154). Con la seconda, il «carattere fondamentalmente religioso» di quest’ultima, ossia una certa «intenzionale apertura al mistero infinito» (161) che s’approfondisce solo come relazione, il che spiega il ricorso alla metafora personale quando si parla del Dio cristiano, perché «percepiamo la donazione che caratterizza il mistero infinito come un appello personale che crea una relazione personale che dà avvio alla nostra realizzazione come persone» (166).
L’ultimo capitolo (cf. 244-284) può quindi essere incentrato sulla dialettica della presenza e dell’assenza di Dio, colui il quale sperimentiamo «presente quando realizza i nostri desideri più intimi di amore e di senso, eppure assente in modo inquietante quando infrange le nostre aspettative e sfugge alle nostre categorie limitate di descrizione e di comprensione». E questo «paradosso della fede» (245) l’effettivo valore aggiunto del libro, che è infatti uno studio serio e non illusorio sulla struttura della rivelazione come la concepiscono i cristiani: atto che ha luogo «in relazioni performative, in azioni personali nel tempo» (279), la cui sperimentabilità segue la fiducia che la vita sia eccesso, sempre in avvenimento, e si realizzi in una relazionalità che include tutto e tutti.
Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio si offre al lettore come un invito coinvolgente e senza il timore di scoprirsi: non stupisce allora che la conclusione del volume coincida con ciò che per Mark Rothko «deve offrire aneliti di infinito in ogni situazione»: l’angolazione estetica, sia essa della pittura, dell’architettura, della musica.
A. Ballarò, in
Il Regno Attualità 18/2021, 582