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Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio
Anthony J. Godzieba

Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio

Prezzo di copertina: Euro 37,00 Prezzo scontato: Euro 35,15
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 206
ISBN: 978-88-399-3606-6
Formato: 15,7 x 23 cm
Pagine: 304
Titolo originale: A Theology of the Presence and Absence of God
© 2021

In breve

«È come un eccellente vino di un rinomato vigneto, invecchiato in ottime botti. Esperienza e tradizione, fede e ragione, riflessione e immaginazione, ineffabilità e incarnazione si uniscono a meraviglia in un libro che presenta il mistero dell’amore di Dio, figurato e testimoniato per il nostro tempo» (Lieven Boeve, Università cattolica di Lovanio).

Descrizione

In un mondo secolarizzato, imperniato sui consumi e altamente tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio? A partire da un’attenta analisi sociale della cultura occidentale e a partire dell’ascolto della grande tradizione cristiana della “domanda su Dio” (Anselmo d’Aosta), questo libro risponde positivamente.
Godzieba si concentra sul carattere dialettico di Dio – da un lato l’accessibilità (la sua “presenza”) e dall’altro l’eccesso (la sua “assenza”) – e sulla convinzione che «Dio è amore» (1 Gv 4,16). Se la conoscenza di Dio è diventata un problema nella cultura occidentale, la risposta cristiana ritrova nell’esperienza umana un «punto di accesso naturale alla fede», grazie al quale aprirsi al mistero di Dio come Trinità.
Il taglio contemporaneo del libro deriva dalla sua insistenza sulla fede come azione incarnata: è questo il modo più sincero di partecipare al mistero dell’amore di Dio, che è «la risposta al mistero del mondo e degli esseri umani» (Walter Kasper).

Recensioni

Il titolo del volume che presentiamo è piuttosto impegnativo, e si può comprendere alla luce della semplice domanda che apre il testo: nel nostro mondo secolarizzato, consumistico, tecnologizzato, possiamo fare ancora esperienza del mistero di Dio? Da questo interrogativo parte la lunga ricerca del professor Anthony J. Godzieba, professore di teologia presso l'università di Villanova (Pennsylvania, USA).

L'Autore conduce attraverso un percorso necessario che coinvolge la persona nella dimensione razionale e in quella di fede, avendo come centro l'assunto che «Dio è amore» (1 Gv 4, 16), con le sue numerose implicazioni pratiche e dottrinali. Possiamo ancora confessare con fiducia la nostra fede in Dio, e in questo Dio che è amore? La risposta è un sì deciso, ma per giungervi occorre porre numerose altre domande, affascinanti e radicali, che toccano la stessa natura dell'uomo quanto la natura di Dio.

Godzieba affronta quella che lui stesso definisce «un'avventura» con l'aiuto di Walter Kasper, che costituisce uno dei punti di riferimento nella sua speculazione teologica. A lui l'Autore fa continuo riferimento ma per prenderne le distanze immediatamente, con il rispetto che si deve a un maestro ma anche con la sicurezza di chi non si limita a ripetere la lezione altrui.

Al termine del percorso, tra filosofia e teologia, tra fede e ragione, egli propone una lettura teologica della presenza e dell'assenza di Dio, paradosso che non si può superare ma che si può accogliere attraverso la contemplazione della bellezza e la considerazione finale, semplicissima, che il mistero dell'amore di Dio Trinità è la risposta al mistero del mondo e dell'uomo, ed è risposta al desiderio - che ognuno porta dentro sé - di essere amati e di amare, di accogliere e di essere accolti.


A. Passiatore, in La Vita in Cristo e nella Chiesa 1/2024, 64

La ricerca di Anthony J. Godzieba, docente emerito di Teologia fondamentale presso l'Università di Villanova (Pennsylvania, USA), condensata nei cinque capitoli in cui è strutturato il suo. A.J. Godzieba, Per una teologia della presenza e dell'assenza di Dio, Queriniana, Brescia 2021, propone innanzitutto un panorama della questione di Dio nel contesto occidentale. Sono descritti i processi di privatizzazione della fede e di marginalizzazione della teologia e, nel contempo, viene evidenziata la ricerca di senso presente e in atto: «Il desiderio umano di Dio può essere di per sé un indicatore della presenza di Dio, che parla direttamente a quel desiderio» (ibid., 16). Nel secondo capitolo, intitolato: Come Dio è diventato un problema nella cultura occidentale (ibid, 33-88), sono sintetizzati i passaggi della modernità e i punti principali della critica alla religione nel XIX secolo.

I maestri del sospetto ci danno gli strumenti per interpretare la storia del problema di Dio a ritroso, permettendoci di scoprire quando il Dio «cristiano» è diventato un idolo e come l'immagine consueta di Dio ha cessato di essere una risposta alla trascendenza ed è diventata, invece, la realizzazione estrinseca e determinata del bisogno umano.

Alla luce del potere della critica del XIX secolo, è legittimo chiedersi se la fede cristiana autentica in Dio sia ancora possibile. La nostra risposta è «sì»: una volta respinti gll idoli del teismo moderno, è possibile «lasciar parlare i simboli», permettere all'interpretazione dialettica di Dio di apparire di nuovo nella sua pienezza rivelata ed essere riconosciuta come la forza vivificante autentica del cristianesimo (ibid., 88).

Il terzo e il quarto capitolo cercano di illustrare la risposta cristiana che viene articolata in due momenti, appunto. Si considera dapprima La risposta cristiana (I) Una teologia naturale (pp. 89-158) nelle sue diverse espressioni nella storia: è l'indirizzo che indaga come l'esperienza umana sia aperta alla trascendenza e partecipi a un movimento dinamico verso Dio. Sono, quindi, indagate alcune linee della teologia naturale cristiana, evidenziando come già nella tensione umana si rende presente una rivelazione di Dio. Viene considerata la svolta trascendentale del Novecento teologico, individuando nella proposta di Walter Kasper una posizione particolarmente capace di sostenere che «il mistero infinito è l'orizzonte della libertà assoluta e che il carattere fondamentale della libertà assoluta è l'amore» (ibid., 158).

Da qui egli giunge ad affermare che il mistero infinito è intrinsecamente personale. Nel quarto capitolo: La risposta cristiana (II). Una teologia teologica (pp. 159-243) è considerato l'apporto della teologia trinitaria. Si tratta del Dio concreto della storia: il Dio di Abramo, di Isacco e di Giacobbe, il Padre di Gesù Cristo, il Dio che dona all'essere umano vita, salvezza e libertà.

«In questo spazio, alle soglie del punto di accesso naturale della fede, incontriamo non solo l'orizzonte trascendente della nostra vita e delle nostre azioni, il mistero onnicomprensivo che non esitiamo a chiamare «Dio». Scopriamo anche qualcosa della sua profondità, un accenno (Vorgriff) della benevolenza non negoziabile di quel mistero che ci dona se stesso di sua iniziativa, una vaga idea del carattere di libertà assoluta che si rivela a noi in una relazione che può essere meglio descritta come personale e pienamente appagante. Qui gli elementi chiave sono la «donazione» di questa esperienza e la relazione personale che questo «donarsi» rivelatore genera (ibid., 165)».

Si apre la considerazione della Trinità come mistero che innerva l'esistenza umana:

«La fede che cerca l'intelletto» tenta di esprimere sia la rivelazione dell'io stesso di Dio come comunione unitrina di persone, sia l'importanza intrinseca della Trinità per la vita cristiana. Uno dei suoi obiettivi fondamentali è, pertanto, mostrare che la vita cristiana del Dio trino non è una dottrina imposta «dall'esterno», ma piuttosto che Dio, nel rivelarsi, vuole la nostra felicità (ibid,, 167).

È sviluppata, poi, una riflessione su Dio Trinità riprendendo le linee della riflessione di Walter Kasper caratterizzata dal porsi in modo chiaro il problema della confessione di fede cristiana nel contesto del rifiuto di Dio proprio dell'ateismo moderno e quale proposta a individuare il mistero dell'amore di Dio quale risposta al mistero del mondo e dell'uomo.

«La fede nella Trinità non è isolata in una bolla contemplativa atemporale. Anzi, la rivelazione di Dio come comunione di persone nell'amore, la «gloria» del mistero che evoca la nostra contemplazione e la nostra lode (dossologia), provoca la partecipazione performativa, temporalmente connotata, alla grazia divina che trasforma e salva il mondo (soteriologia). La gloria di Dio è mediata da atti di giustizia e di misericordia (ibid., 284)».

Originale nella trattazione teologica è la considerazione della rivelazione nella lettura di alcune opere d'arte di Caravaggio (1571-1610) e di Georges de La Tour (1593-1652): le arti utilizzano mezzi materiali per suscitare sentimenti e recano in se stesse elementi che orientano a «un'esperienza che trascende i limiti dei sensi» (ibid., 255).


A. Cortesi, in CredereOggi 257 (5/2023), 154-156

È ancora plausibile proporre una "teologia naturale"? Noncurante di tutte le teorie antifondazioniste, Anthony J. Godzieba, docente di Teologia e Religious studies presso l'Università di Villanova (USA) risponde indirettamente affermando che «Dio non impone né invade, ma si nasconde in modo che la realtà, che si fonda su Dio, possa avere spazio per esistere» (p. 247). In questa frase si condensa la tesi finale di un saggio che fin dalle prime righe si pone in controtendenza, rilanciando - sulla scia di Maurice Blondel - l'esperienza umana come «punto di accesso naturale alla fede» (p. 161). A dire il vero, il volume prende le mosse da una domanda che suona decisamente retorica e stereotipizzata agli occhi del lettore avvezzo alla letteratura teologica contemporanea: «Nel nostro mondo secolarizzato, consumistico, tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio?». La risposta dell'A. rinvia al testo classico di Walter Kasper, Il Dio di Gesù Cristo (Queriniana, BTC 45, orig. 1984) e alla sua celebre tesi che vede nella Trinità l'autentica “grammatica” della fede cristiana.

Da parte sua, Godzieba ritiene di poter offrire al lettore una narrazione classica, ma in parte nuova. Egli si impegna ad allestire un suo originale (rispetto a Kasper) percorso di ricostruzione dell'evoluzione della teologia naturale cattolica «mostrando come questa porti a una "teologia teologica" in cui la fede e la ragione si sostengono a vicenda nell'esplorazione della realtà di Dio come Trinità» (p. 5).

Il volume si struttura in cinque capitoli, tra i quali spicca l'ultimo per originalità (e da cui preride il titolo l'intero saggio).

Il primo capitolo introduce il tema della ricerca del volto di Dio, ricerca che l'A. definisce più prudente e più umile rispetto al passato a motivo della maggiore consapevolezza del carattere storico e situato di ogni riflessione. Sulla scorta delle riflessioni di Turner e Kolakoswski sulla religione e sul sacro, Godzieba si propone di mantenere quello che egli chiama «delicato equilibrio tra l'alterità trascendente di Dio (che ci impedisce di ridurre Dio ai nostri termini) e la presenza di Dio (che tocca le nostre vite con la forza emancipatrice del suo amore)» (p. 32). La ricerca di detto equilibrio appare particolarmente precaria a motivo del carattere dialettico della fede biblica, per cui Dio è al contempo presente, quindi conoscibile e accessibile alla ragione umana e tuttavia assente in quanto inafferrabile, misterioso e incontrollabile.

Il fatto che Dio sia diventato un problema nella cultura occidentale dipende - secondo Godzieba - dall'imporsi nella cultura occidentale di quella che egli chiama concezione estrinseca di Dio, che enfatizza «la trascendenza, l'inconcepibilità e persino, come reazione estrema, la non-esistenza di Dio» (p. 33). Il secondo capitolo si fa carico di questa narrazione, che rende ragione della situazione attuale e si conclude con la proposta di una «ermeneutica costruttiva dell'affermazione» (p. 88) contro la celebre «ermeneutica del sospetto» del trinomio Marx, Freud e Nietzsche. Detta ermeneutica costruttiva consiste nell'interpretare la theologia naturalis come «preludio» (p. 89) alla «teologia teologica cristiana», offrendo nel terzo capitolo una articolata e sintetica disamina delle argomentazioni a favore dell'esistenza di Dio, argomentazioni che Godzieba distingue tra cosmologiche e antropologiche. Queste ultime sono ricavate da Hans Küng (che ricorre alla formula della «fede fondamentale»), Jean-Luc Marion, John Dominic Crossan (tesi postmetafisica) e da Walter Kasper.

Il quarto capitolo ripercorre lo sviluppo della dottrina trinitaria dagli scritti neotestamentari all'elaborazione origeniana e successiva, fino a Rahner e Zizioulas, seguendo fedelmente il testo di Kasper. Alla fine del capitolo, Godzieba segnala tre punti di discussione nell'attuale status quaestionis della teologia trinitaria: il collegamento tra la relazionalità e il "trinitarismo sociale" di Moltmann e Volf; la teologia trinitaria nel dibattito ecumenico e infine l'incidenza della dottrina trinitaria per la vita cristiana e liturgica in particolare.

Il capitolo finale, che riprende il titolo dell'intera opera, offre gli spunti più originali per uscire dal dilemma del Dio ineffabile, eppure raggiungibile, assente e presente. Al di là della riproposizione dei topoi classici della teologia naturale e della dialettica tra approccio catafatico (via affirmativa) e apofatico (via negativa), l'originalità della proposta di "teologia teologica" di Godzieba consiste nell'inserimento del fattore tempo, cioè della «realizzazione-nel-tempo» della partecipazione alla vita trinitaria di Dio. Giustamente osserva l'A.: «È dunque ancor più ironico che la Trinità ci offra continuamente una relazione intima che si realizza nel tempo e nella storia, eppure gran parte della Modernità occidentale, sull'incontro con Dio, ha risposto preferendo "l'atemporale", o l'essenzialismo filosofico, o la certezza dogmatica trasformata in un marchio ripetibile all'infinito o in un segno caratteristico» (p. 281). Ora, la realizzazione dell'evento Dio avviene in Gesù Cristo e Godzieba propone l'angolazione estetica per l'apprezzamento del tempo quale «sfondo per il nostro incontro presente con il mistero dell'amore del Dio trino» (p. 256).

Per riscattare il tempo dal "presentismo" dato dall'«accelerazione sociale» (H. Rosa) ed esplorare aspetti del divino e dell'esperienza umana, Godzieba propone di ricorrere a tre forme estetiche: l'arte pittorica, l'architettura e la musica. Le arti rivelano dimensioni strutturanti la personalità umana come l'emozione e il desiderio: «Le arti realizzano nel tempo la metafora presenza/assenza portando in primo piano i veri affetti e i veri effetti che appagano il nostro desiderio insaziabile di un'esperienza più completa e più profonda ma che non sono immediatamente percepibili; realtà che sono necessarie per il nostro benessere e che si aprono un varco nella bolla culturale dell'immediatezza detemporalizzata» (p. 270). È attraverso questa esperienza di bellezza e di amore, per quanto limitata e fragile, che passa la confessione di fede nell'infinita realtà uni-trina di Dio. In breve, la "teologia teologica" di Godzieba introduce l'elemento della realizzazione nel tempo della relazione con il divino attraverso l'esperienza del discepolato e del dono di sé. Anche - anzi soprattutto - per il mistero della Trinità vale il principio del numquam satis.


S. Didonè, in Studia Patavina 1/2023, 176-178

Possiamo ancora sperimentare il mistero di Dio nel mondo di oggi? È così che possiamo riassumere la domanda portante del volume di Anthony J. God­zieba, A Theology of the Presence and Absence of God tradotto dai tipi della Que­riniana per la collana Biblioteca di teologia contemporanea (n. 206) con il titolo Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio. La risposta dell’autore è posi­tiva e la sfida del libro è manifestare come sia possibile parlare ancora di Dio nell’epoca dei vari “post” (postmoderno, postcristianesimo, ecc.). Per fare ciò, Godzieba, docente emerito di teologia fondamentale presso l’Università di Vil­lanova negli Stati Uniti, ricorre al binomio presenza-assenza quale sinonimo evocativo di altre categorie classiche come teologia catafatica-teologia apofa­tica, conoscibilità-misteriosità, accessibilità-incontrollabilità, immanenza-tra­scendenza (cf. 38-39).

Grandemente influenzato dalla teologia di Walter Kasper, l’autore cita il cardinale e teologo tedesco il quale afferma che il mistero dell’amore di Dio, nonostante la sua non immediata percepibilità, «è la risposta al mistero del mondo e degli esseri umani, la risposta al mistero del desiderio umano più profondo di accoglienza e di amore» (5).

L’autore ripercorre con grande competenza e capacità di sintesi la storia della teologia cristiana, evidenziando come il gesto della rivelazione mantenga «il delicato equilibrio tra l’alterità trascendente di Dio (che ci impedisce di ri­durre Dio ai nostri termini) e la presenza di Dio (che tocca le nostre vite con la forza emancipatrice del suo amore)» (30). Tale caratteristica dialettica che, ripetiamolo, l’autore presenta con il binomio presenza-assenza, ripercorre le pagine bibliche dove il Deus revelatus resta anche il Deus absconditus e dove proprio tale dialettica costituisce un gesto d’amore perché garante della libera risposta dell’alterità umana. Uno fra i tanti esempi significativi è la rivelazione del nome di Dio in Es 3. L’autore osserva che «il nome divino rivelato a Mosè è come gli altri nomi, ma è anche radicalmente diverso. Da una parte, “YhWh” ha la stessa funzione di altri nomi: rivela la presenza e la personalità di Dio agli Israeliti e segnala l’accessibilità di Dio come aiuto supremo per la loro causa. Ma nonostante conoscano il nome, Mosè e gli Israeliti non hanno as­solutamente potere né controllo su YhWh perché non possono conoscere il significato esatto del nome. Questo è dovuto alle evidenti formulazioni verbali ambigue sia nell’originale ebraico sia nelle traduzioni» (36).

Se dovessimo scegliere tra le varie testimonianze di questa dialettica che costellano la storia della teologia fino al medioevo, la quale non fa compro­messi né riguardo l’insondabile mistero di Dio né riguardo la fecondità della ricerca appassionata e dell’itinerarium mentis ad Deum, non abbiamo difficoltà a eleggere l’anelito appassionato espresso da Anselmo di Canterbury all’inizio del suo Proslogion: «Ma certo tu abiti “una luce inaccessibile”. E dov’è la luce inaccessibile? E come mi avvicinerò a questa luce inaccessibile? […] Non ti ho mai visto, o Signore Dio mio, non conosco il tuo volto. […] Che io ti cerchi desiderandoti e ti desideri cercandoti. Che io ti trovi amandoti e ti ami trovan­doti. […] Non tento, o Signore, di penetrare la tua profondità, perché in nessun modo metto con essa a confronto il mio intelletto; ma desidero intendere in qualche modo la tua verità, quella che il mio cuore crede e ama. Non cerco infatti di intendere per poter credere, ma credo per poter intendere. In verità credo questo: “se non avrò creduto, non potrò intendere”» (Anselmo d’Aosta, Proslogion, 1). Il mistero di Dio non è enigma, ma è l’insondabilità dell’essere personale che esige l’incontro personale e religioso quale cifra ermeneutica dove l’uomo e Dio si dicono e si traducono reciprocamente.

Godzieba diagnostica un cambio di registro nel tardo medioevo dove av­viene uno slittamento dal suddetto paradigma dialettico verso una visione più estrinseca. Il protagonista di tale slittamento è il nominalismo ockhamiano. Ockham affermava che «quello che conosciamo immediatamente sono i concetti, che non sono realmente Dio, ma che stanno in luogo di Dio nelle proposizioni in cui ne facciamo uso». Godzieba spiega che tale pensiero di Ockham «presupponeva una rottura fondamentale tra l’esperienza umana e la presenza di Dio. Questo modo di pensare costituiva un netto allontanamento dalla teologia biblica naturale che si basava sulla teologia della creazione. Sottolineando eccessivamente le qualità della trascendenza e della libertà per emancipare Dio dal controllo umano, il nominalismo ritraeva un Dio che fondamentalmente non poteva essere toccato da alcun tipo di esperienza umana» (58). L’eccessiva enfasi nominalista sulla trascendenza divina incoraggia il “disfacimento” della concezione dialettica originale e porta alla concezione distante della divinità dell’epoca moderna. Godzieba lamenta che nel XVIII secolo e nel XIX «il ritratto del “Dio cristiano” somigliava poco al Dio trinitario della fede cristiana» (73). I maestri del sospetto – Feuerbach, Marx, Nietzsche – rendono solo espliciti questo allontanamento ed esilio di Dio nei meandri del misterismo. Essi interpretano «la storia del problema di Dio a ritroso», e mo­strano come il Dio cristiano «è diventato un idolo e come l’immagine consueta di Dio ha cessato di essere una risposta alla trascendenza ed è diventata invece la realizzazione estrinseca e determinata del bisogno umano» (88).

A quest’analisi, l’autore propone la risposta cristiana in due momenti: attra­verso la riscoperta della teologia naturale e attraverso ciò che l’autore chiama «una teologia teologica». Il primo versante della proposta (cf. 89-158) propone un recupero della teologia naturale che invita a pensare Dio attraverso un approccio sacramentale, simbolico aperto a esplorare e a contemplare le pos­sibilità dell’esistente. Tale approccio vuole contrapporsi alle metodologie di pensatori come il sociologo inglese Bryan S. Turner e il filosofo polacco Leszek Kolakowski i quali evocano una netta disgiunzione tra sacro e secolare, chiesa e mondo. Per la teologia cristiana, il sacro è conoscibile solo sotto le specie del profano e l’eterno solo nelle maglie della storia. In altri termini, Godzieba cerca di manifestare come l’esperienza di Dio sia anche un’esperienza umana, giacché «il compito fondamentale della teologia naturale è dimostrare che l’e­sperienza umana per sua stessa natura è aperta alla trascendenza infinita e partecipa a un movimento dinamico verso Dio che può essere articolato in modo più completo attraverso la fede dedita all’ulteriore autorivelazione di Dio» (97). In questo contesto, l’autore esamina cinque tesi su Dio. Le prime due sono quelle classiche della tradizione cristiana: il cosiddetto “argomento ontologico” di Anselmo e le tesi cosmologiche di Tommaso d’Aquino (le “quinque viae”). Esse restano le pietre miliari della teologia naturale cristiana e l’autore osserva giustamente che «nessuna tesi successiva sfugge alla loro influenza, positiva o negativa». Le ultime tre tesi sono contemporanee e sono: l’argomentazione di Hans Küng basata sulla «fede fondamentale»; una tesi postmetafisica (con variazioni su JeanLuc Marion e John Dominic Crossan) che cerca di accettare la critica dell’ontoteologia; e l’argomentazione di Walter Kasper, basata sul desiderio umano di libertà e di senso universale. Ciò che accomuna queste tesi è la «svolta trascendentale» (155), ovvero la capacità insita nel soggetto umano che lo rende capace di sperimentare la presenza della trascendenza infinita nella prospettiva finita.

Il secondo versante della proposta cristiana è «una teologia teologica» (159- 243) che verte più sul carattere fondamentalmente religioso e rivelativo dell’e­sperienza divina. L’autore effettua infatti una transizione tra la conoscenza naturale di Dio e la teologia trinitaria. Le intuizioni attinte dalla teologia na­turale sono approfondite alla luce del volto trinitario che Dio rivela di sé nella vicenda di Gesù Cristo.

L’ultimo momento della riflessione riprende la «metafora» che è rimasta sullo sfondo di tutta la riflessione precedente – la presenza e l’assenza di Dio – e ne proietta la luce verso una convergenza pratica manifestata nella necessità di collegare dossologia e soteriologia, confessione e contemplazione, protologia ed escatologia, l’iniziativa di Dio e la risposta e responsabilità dell’umano. «L’autorivelazione di Dio si verifica nelle condizioni dell’esperienza umana, e la possibilità stessa dell’esperienza umana si fonda su Dio, la cui discrezione le concede la libertà di essere. È una dipendenza reciproca, causata dalla di­screzione divina». Tale circolo ermeneutico è evidente nella Bibbia, nella storia della teologia e nell’esperienza umana di ogni tempo e la sfida della teologia è quella di farsi accompagnatrice dell’interpretazione del fenomeno umano alla luce dell’epifania divina perché la nostra consapevolezza dell’infinita realtà trina di Dio (la «Trinità immanente») non può realizzarsi senza l’incontro con l’amore di Dio in realizzazioni parziali e fallibili della grazia nel tempo reale (la «Trinità economica»). «La nostra esperienza e la confessione che “Dio è amore” devono avere un catalizzatore nel tempo reale, un appiglio nella realtà e una certa continuità nella storia. Dal momento che questi incontri continuano ad avere luogo, non è mai possibile una sintesi definitiva della conoscenza, solo la fragile certezza della fede» (278).


R. Cheaib, in Teresianum 74 (2023/1), 186-189

Il libro offre un percorso di riflessione teologica sull’esperienza contemporanea di Dio, in particolare sull’esperienza della rivelazione, utilizzando la categoria interpretativa – che l’autore chiama anche «metafora» – della presenza-assenza di Dio, riassuntiva di altre categorie dialettiche ben più note, come conoscenza-mistero, accessibilità-incontrollabilità e immanenza-trascendenza.

Nella storia della salvezza Dio è stato percepito come presente e operante, ma nello stesso tempo anche come Altro e Mistero; il concetto di «assenza» non si riferisce pertanto alla non-esistenza di Dio, ma a «quegli aspetti della realtà di Dio che superano le categorie della comprensione umana e sfuggono al nostro lessico» (p. 39). In tal modo l’esperienza religiosa può essere compresa come esperienza di rivelazione, in cui gli elementi della presenza di Dio contengono un’apertura ulteriore, una dimensione che può essere il punto di accesso alla pienezza della rivelazione cristiana.

Anthony Godzieba, docente emerito di teologia fondamentale presso l’Università di Villanova (Pennsylvania, Usa), oltre agli studi specifici di teo­logia, ha approfondito anche la dimensione religiosa dell’arte, nella pittura, architettura e musica, in quanto ritiene che «le arti hanno sempre utilizzato vari mezzi materiali per suscitare sentimenti particolari, con lo scopo di portare l’osservatore o l’ascoltatore a un’esperienza che trascende i limiti dei sensi» (p. 255), e quindi a un contatto con il mistero di Dio.

Il libro si articola in tre grandi parti: la presentazione del problema di Dio nella cultura occidentale (capp. 1-2); le risposte della teologia naturale cristiana (cap. 3); il contributo della teologia della Trinità (cap. 4). Si conclude con una breve fenomenologia della rivelazione e l’esemplificazione della sua presenza in opere di Caravaggio e Georges de La Tour (cap. 5).

L’autore prende spunto dalla situazione di privatizzazione della fede religiosa e di marginalizzazione della teologia nella società occidentale e dalle domande di senso e di conoscenza delle realtà ultime che vi emergono. Riferendosi al Proslogion di sant’Anselmo, ritiene che l’attuale anelito alla trascendenza esprima in realtà il desiderio di Dio all’interno del contesto secolare, e che quel desiderio contenga già una conoscenza della realtà di Dio: «Il desiderio umano di Dio può essere di per sé un indicatore della presenza di Dio, che parla direttamente a quel desiderio» (p. 16).

Citando le analisi di Bryan Turner e di Leszek Kołakowski sulla postmodernità e sul ruolo dei valori religiosi, l’autore mostra che la visione religiosa del mondo è la più realistica e la più emancipante e incontra il desiderio di trasformazione dell’uomo contemporaneo. L’arte e il simbolismo religioso stimolano infatti l’immaginazione umana, la quale da poetica può diventare sacramentale, nel senso che può cogliere la grazia di Dio che opera la salvezza; tuttavia, «perché il sacro si possa conoscere, esso deve abitare lo stesso spazio del profano e parlare il suo linguaggio, mantenendosi sacro» (p. 32).

Questa concezione dialettica della presenza di Dio nel mondo, che segue la logica dell’incarnazione, ha trovato però nella storia della cultura occidentale anche uno sviluppo diverso, che ha dato origine a una concezione di Dio che l’autore chiama «estrinsecistica». Con competenza e precisione, egli ripercorre l’itinerario che va dal nominalismo medievale all’autonomia moderna della soggettività, dai valori universali dell’Illuminismo ai maestri del sospetto dell’Ottocento, e propone una nuova teologia naturale cristiana, che «deve articolarsi in modo da poter esprimere l’intersezione del mistero di Dio con l’esperienza umana e fornire categorie adeguate per riflettere su questa intersezione» (p. 91).

Il percorso di Godzieba si sviluppa con una corretta integrazione tra fede e ragione, in cui la rivelazione divina si realizza in una relazione reciprocamente coinvolgente con chi la interpreta e l’accoglie nella fede. Vengono presentati i contributi classici di sant’Anselmo e san Tommaso e quelli contemporanei di Hans Küng e Walter Kasper.

La teologia di Kasper sorregge l’intera riflessione dell’autore: nel momento in cui egli espone la storia delle definizioni dogmatiche trinitarie e il loro significato per l’uomo contemporaneo, sono le posizioni kasperiane a prevalere e a guidare la riflessione sull’autocomunicazione di Dio. Al termine del percorso viene presentato l’importante concetto di discrezione divina, e la struttura della rivelazione appare come dono di sé, possibilità offerta all’uomo di realizzare la propria identità in pienezza.


L.M. Gilardi, in La Civiltà Cattolica 4123 (2 aprile 2022), 96-97

Si apre con una domanda e si chiude con una risposta entrambe semplici il primo libro in traduzione italiana del teologo Anthony J. Godzieba, docente emerito alla Villanova University di Philadelphia, i cui interessi incrociano la teologia fondamentale, la fenomenologia e l’estetica. L’autore si domanda se «nel nostro mondo secolarizzato, consumistico, tecnologizzato, possiamo ancora fare esperienza del mistero di Dio» (5) e risponde positivamente, congiungendo la teologia trinitaria e l’immagine del Dio amore in un itinerario che sfida gli stereotipi che complicano la strutturazione del discorso di fede oggi.

Non sono dunque la domanda iniziale o la risposta finale in sé a rappresentare il valore aggiunto del testo, ma l’itinerario che getta luce sulla loro persistenza e smentisce le impressioni di superficie, tendenti a rilevare in buona sostanza una crisi generalizzata della fede. Non così per l’autore di questo libro, che dedica le prime 90 pagine alla contestualizzazione del momento attuale attraverso un’analisi sociologica, filosofica e teologica (cf. 7-32) e un excursus storico-filosofico dalle chiare ripercussioni teologiche (dalla Bibbia alla filosofia greca, dal nominalismo alla prima eta moderna, dalla critica della religione del XIX secolo a oggi; cf. 33-88), con cui copre gli ambiti delle domande umane e della progressiva problematicità che il concetto di Dio ha assunto.

Obiettivo dichiarato è «fornire argomenti a sostegno della presenza amorevole, redentrice, liberante e trasformante di Dio nella vita umana e nel mondo» (8): tre poli – Dio, vita, mondo – i cui significati sono stati messi in discussione dal secolo scorso, che Godzieba affronta apertamente, cosciente che la teologia debba rinunciare ai suoi punti di partenza classici per considerarli, piuttosto, conclusioni da raggiungere (9). E ciò a causa della «privatizzazione o marginalizzazione dell’importanza di Dio e della fede religiosa nella società tradizionale» (10), che non può essere ignorata se si vuole che la comunità cristiana condivida lo stesso piano relazionale in cui si confrontano gli uomini e le donne di questo tempo.

Così Godzieba torna ed esamina lo statuto delle domande su Dio fino a rilevarne l’inadeguatezza. Il senso è denunciare l’impossibilità di una conoscenza precisa della natura divina, al punto che le nostre risposte «non saranno mai definitive» anche se, prosegue l’autore, «non saranno inutili» (17). Di Dio si ha sempre una conoscenza «mediata dall’esperienza del mondo e della cultura» in cui si è, tanto che i cristiani si collocano «in una tradizione di interpretazione delle esperienze» (18) che nel libro induce a una precisazione geo-temporale: l’autore sottolinea come scriva da Occidente e da occidentale, nella seconda decade del terzo millennio, a occidentali, in effetti rompendo con una teologia troppo devota all’universale e accettando che il da dove non sia ininfluente nella costruzione e valutazione di ogni teologia.

L’autore riconosce la pluralità della modernità, o, meglio, la sua frammentazione che oggi non esitiamo a definire postmodernità: un’epoca di contrasti (cf. 23) in cui la religione, seguendo il sociologo Bryan S. Turner, sembra non funzionare più da collante sociale ma può ancora «fornire il tipo di motivazione utopistica necessaria per un cambiamento sociale di massa» (24); un’epoca in cui è forse perfino più doveroso distinguere il sacro e il profano pur mantenendoli, se si legge il filosofo Leszek Kolakowski, in una dialettica costante (26); un’epoca, infine, in cui «una sintesi teologica» non è meno possibile che in passato, e è anzi richiesta da una congiuntura storica che può apprezzare la visione religiosa del mondo come «la più realistica di tutte» nel suo rivolgersi «al nostro desiderio di trasformazione del presente inadeguato» (29).

La tesi centrale del testo è che la teologia debba cominciare (o ricominciare) a pensare la realtà divina tramite un approccio sacramentale, creando legami, rimandi, assumendo, in breve, una postura aperta alle possibilità dell’esistenza. Tradizionalmente, infatti, un sacramento attua, rende presente ciò che esprime. Godzieba ripropone un metodo antico e al tempo stesso postmoderno, superando Turner e Kolakowski e la loro «disgiunzione tra sacro e secolare, tra credente e società dominante, tra Chiesa e mondo» (31), perché per il teologo il sacro diventa conoscibile solo se abita lo stesso spazio e parla lo stesso linguaggio del profano.

All’atto di chiedersi come pensare e parlare di Dio oggi, dunque, l’autore individua nella dialettica di presenza e assenza di Dio il cardine teologico mancante. E disattendendo questa tensione, radicale se non altro perché biblica, infatti, che a partire dal periodo tardomedievale si diffonde una concezione estrinsecista: una visione per cui Dio rimane, rispetto all’esperienza umana, essenzialmente estraneo, non solo perché anzitutto trascendente, misterioso o inconoscibile, ma prima ancora perché ridotto a entità sovrapposta alle esperienze vitali degli esseri umani, quasi costretto a un’insignificanza pratica in una vita che non lo riguarderebbe pienamente.

Per Godzieba, allora, «permettere all’interpretazione dialettica di Dio di apparire di nuovo nella sua pienezza rivelata ed essere riconosciuta come la forza vivificante del cristianesimo» (88) significa lavorare a una teologia naturale che eviti il teismo astratto e a una teologia teologica che mostri i punti di accesso alla fede. È a questi due passaggi, ovviamente, che l’autore dedica la parte più consistente del volume (cf. 89-243), anche perché determinanti al fine di cogliere l’approccio sacramentale di fondo.

Con la prima riflessione, il teologo intende mostrare soprattutto la plausibilità dell’esperienza di Dio in quanto «esperienza umana» (154). Con la seconda, il «carattere fondamentalmente religioso» di quest’ultima, ossia una certa «intenzionale apertura al mistero infinito» (161) che s’approfondisce solo come relazione, il che spiega il ricorso alla metafora personale quando si parla del Dio cristiano, perché «percepiamo la donazione che caratterizza il mistero infinito come un appello personale che crea una relazione personale che dà avvio alla nostra realizzazione come persone» (166).

L’ultimo capitolo (cf. 244-284) può quindi essere incentrato sulla dialettica della presenza e dell’assenza di Dio, colui il quale sperimentiamo «presente quando realizza i nostri desideri più intimi di amore e di senso, eppure assente in modo inquietante quando infrange le nostre aspettative e sfugge alle nostre categorie limitate di descrizione e di comprensione». E questo «paradosso della fede» (245) l’effettivo valore aggiunto del libro, che è infatti uno studio serio e non illusorio sulla struttura della rivelazione come la concepiscono i cristiani: atto che ha luogo «in relazioni performative, in azioni personali nel tempo» (279), la cui sperimentabilità segue la fiducia che la vita sia eccesso, sempre in avvenimento, e si realizzi in una relazionalità che include tutto e tutti.

Per una teologia della presenza e dell’assenza di Dio si offre al lettore come un invito coinvolgente e senza il timore di scoprirsi: non stupisce allora che la conclusione del volume coincida con ciò che per Mark Rothko «deve offrire aneliti di infinito in ogni situazione»: l’angolazione estetica, sia essa della pittura, dell’architettura, della musica.


A. Ballarò, in Il Regno Attualità 18/2021, 582