Il volume rappresenta l’edizione italiana della monografia pubblicata nel 2001 (Cerf, Paris), arricchita da una nuova prefazione dell’autore. Non c’è dubbio che il pensiero di Heidegger ha esercitato un’attrattiva permanente per i teologi, nel loro tentativo di comprendere l’eventuale debito del suo pensiero con il cristianesimo e quanto la sua prospettiva, nonostante criticità estrema e problematicità evidente, potesse rappresentare un’opportunità di ripensamento della teologia. L’A., rifiutando l’idea che la relazione teologia-filosofia sia una tesi tra le altre o uno tra i possibili temi per una rilettura sistematica dell’opera heideggeriana, afferma esplicitamente che tale relazione è costitutiva del cammino di pensiero di Heidegger e che tale relazione debba essere declinata sincronicamente e diacronicamente secondo tre topiche: la relazione tra filosofia (scienza ontologica) e teologia biblica (scienza ontica); la relazione di solidarietà tra teologia e filosofia sul piano della costituzione ontoteologica della metafisica e della teologia cristiana (a partire dal 1929 con la conferenza Che cos’è la metafisica?); infine, dagli anni 1934-1935 la questione dell’attesa dell’ultimo Dio (avvento possibile di un Dio divino) oltre ogni riferimento cristiano e il pensiero dell’essere che attraversano testi come Contributi alla filosofia, Lettera sull’umanismo, La poesia di Hölderlin, Identità e differenza.
Anche se il confronto con il cristianesimo è la “provenienza” di Heidegger (come ha lui stesso riconosciuto) e pur ammettendo che non sempre egli ha saputo “gestire” la pluralità delle prospettive teologiche, tanto che ha ignorato e non compreso molti concetti fondamentali della teologia, bisogna escludere un’interpretazione teologica di Heidegger in chiave di teologia secolarizzata o di metafisica criptico-teologica. Le tre parti del volume presentano le tre topiche (I parte), ne riprendono i motivi e il processo della loro elaborazione (II parte) e, infine, interrogano i rapporti tra filosofia e teologia sulla scorta degli elementi precedentemente acquisiti (III parte).
Nella I parte il cap. I ripercorre alcuni testi chiave della meditazione heideggeriana sul tema Filosofia e teologia biblica: anzitutto Fenomenologia e teologia – che presenta l’estraneità-ostilità per cui la fede (la teologia nella sua positività) rimane il nemico mortale della forma esistenziale propria essenzialmente alla filosofia (la domanda); quindi il primo capitolo di Introduzione alla metafisica (1935) dove ancora una volta la risposta della fede alla domanda filosofica fondamentale (“perché vi è l’essente piuttosto che il nulla?”) ci dice che chi crede non pensa, perciò una filosofia cristiana è come un “ferro ligneo” (Hölzernes Eisen). Nel cap. II l’A. anzitutto segue la rilettura heideggeriana del processo metafisico come ontoteologia in quanto, pensando l’ente come fondato sull’essere e l’essere sull’Ente supremo (la causa sui), la metafisica ha fin dall’origine soggiornato nella differenza dell’essere dall’ente, senza mai pensare tale differenza in quanto tale. Perciò la metafisica è divenuta Seinsvergessenheit e come oblio dell’essere ha fornito alla teologia cristiana il quadro del suo discorso: ad Agostino, la scolastica medievale, il cogito cartesiano, la ragion sufficiente di Lebniz, fino alla trascendenza equivoca kantiana, alla confusione hegeliana fra rappresentato e rappresentazione e al compimento nella teologia “negativa” (come negazione del mondo dato e del mondo sovrasensibile) di Nietzsche. In quanto la metafisica è la permanenza in una logica di pensiero come scienza del fondamento, anche Dio entra nella filosofia come il fondamento (Grund), come causa sui dinanzi al quale, scrive Heidegger in Identità e differenza, «l’uomo non può porsi in ginocchio riverente, né tanto meno far cantare e vibrare il suo cuore», al punto che «il pensare ateo, che deve rinunziare al dio della filosofia, cioè alla causa sui, è forse più vicino al dio divino». Ma una filosofia come pensiero del fondamento è la fine della filosofia (non del pensiero) e trova compimento oggi nel dominio della tecnica e nel trionfo del pensiero calcolante; essi attestano l’oblio del pensiero dell’essere, che Heidegger poi attribuirà al movimento di ritiro con il quale l’essere si sottrae e dischiude l’altro inizio del pensiero, un “luogo” impensato, radicalmente estraneo alla compromissione onto-teologica: l’Ereignis. Poiché la filosofia ontoteologica (metafisica) ha costituito l’infrastruttura necessaria della teologia, la sua fine implica anche la fine della teologia come “metafisica dell’esodo” (secondo la formula di Gilson). L’A. ha buon gioco nelle sue obiezioni ad evidenziare che «nei suoi punti essenziali la storia delle idee filosofiche e teologiche manifesta molta più resistenza al processo di riassorbimento onto-teologico di quanto Heidegger non abbia creduto» (80) e che la pluralità delle teologie cristiane impedisce la loro riconduzione a quell’unicità manchevole derivata dall’ontoteologia.
Con il cap. III siamo alla tematizzazione dell’altro inizio del pensiero. Si tratta di un’apertura, una disposizione che rende possibile l’avvento di Dio: non cacciare il dio e gli dei, ma «mantenersi in una disposizione radicale che, fuggendo la deriva epocale dell’ente, attesti una concezione di Dio più divina e liberi una nuova esperienza spirituale» (88). In questo senso il pensare come apertura cessa di essere interrogazione per divenire esercizio esigente dell’ascolto dell’essere che si manifesta e manifestandosi si ritira, al punto che nel ritiro della stessa manifestazione l’essere si dona, si dà (es gibt), come un donare che dona unicamente la sua donazione ma che resta in ritiro rispetto al donato. Il parlare dell’essere dischiude l’apparizione del sacro che l’uomo di pensiero rende possibile rivolgendosi ai poeti e interrogando il loro canto: nel tempo della fuga degli dèi il poeta dà fondamento alla parola e riposiziona l’ex-sistenza del Dasein nell’aperto e nel precario della sua condizione finita. Dunque l’assenza di Dio è traccia, indizio del divino da seguire fino in fondo; Heidegger indica così una postura del pensiero radicalmente nuova: «nell’oscurità e nello smarrimento del presente può aprirsi lo spazio del Sacro, accogliente verso la divinità degli dèi» (95). In questo cammino Hölderlin è la guida migliore in quanto poeta del sacro per eccellenza. Eppure il sacro non è il Dio ed anche se il sacro appare il Dio resta lontano, senza che la lontananza – sia di lui da noi che di noi da lui – comprometta la sua venuta; si tratta dunque di pensare e vivere l’attesa e la disponibilità silenziose verso l’avvento dell’ultimo Dio (der letzte Gott) che Heidegger tematizza nel penultimo capitolo dei Beiträge. A scanso di possibili congiunzioni e adeguazioni tra il linguaggio heideggeriano e l’oggetto teologico, l’A. precisa: «il dire pensante dell’essere è quello del poeta, non quello del teologo: non ci si deve dunque attendere dalla riflessione heideggeriana una sorta di introduzione preliminare ad una ricerca futura sul linguaggio teologico. La teologia non è di casa laddove abita il poeta, vale a dire nella questione essenziale dell’essere» (109). Heidegger piuttosto dà definitivamente congedo alla fede cristiana perché essa, partecipando alla dimensione ontica nel suo riferimento al Dio crocifisso, non può dispiegarsi nell’orizzonte ontologico dell’attesa disponibile al Dio divino; solo al poeta, perché abita la dimora originaria, spetta indicare il luogo della possibile teofania del Dio divino, l’altro dal Dio metafisico e cristiano, e in questo senso l’idea di rivelazione è del tutto diversa da quella cristiana.
Si giunge così alla II parte, di taglio diacronico, in cui sono ripresi i motivi, le influenze, i processi che hanno condotto alla problematica esaminata nella I parte. L’analisi inizia dai primi anni della vita universitaria di Heidegger, caratterizzati da un solido radicamento nella cultura cattolica che si espresse nel suo ingresso nel noviziato dei gesuiti, poi nello studio della teologia cattolica all’università di Friburgo fino alla decisione di diventare prete. L’incontro con la futura moglie e la mediazione (involontaria?) di Husserl spingono Heidegger verso il protestantesimo con la lettura approfondita di Schleiermacher, Kierkegaard e Lutero e nel 1919 dichiara la sua rottura con il sistema ecclesiastico-istituzionale, seppur all’interno di una pratica di pensiero teologicamente orientata verso la tematizzazione della questione ontologica.
Il cap. V analizza il secondo luogo della provenienza teologica di Heidegger ovvero la tradizione protestante che, congiunta alla nascente fenomenologia, lo conduce alla messa a tema della fatticità (Faktizität) – effettività; tuttavia, «il suo cammino d’insieme non conserva che il quadro formale della teologia: il luogo inaugurale dell’esperienza fattizia è ricondotto dall’ambito evangelico a quello greco» (163). Da Lutero, infatti, Heidegger sposta l’originario positivo della fede cristiana verso la vita fattizia liberandola però da ogni rivelazione religiosa e così se il tema centrale della fatticità è elaborato a partire dalla tradizione cristiana (i temi paolini, la temporalità di Agostino e l’angoscia di Kierkegaard), allo stesso tempo egli rifiuta la soluzione teologica optando per la direzione fenomenologica a partire dall’ermeneutica. Il capitolo ripercorre cinque corsi tra il 1919 e il 1923 dai quali emerge la centralità della problematica relativa alla storicità a cui Heidegger giunge analizzando san Paolo, Agostino e Lutero, per poi però tornare ad Aristotele, un Aristotele liberato dalla cattura riduttivista operata dalla tradizione teologica. Infine in Ontologia (1923), Heidegger giunge ad un’ermeneutica della fatticità il cui luogo è il Dasein in cammino verso se stesso. Si giunge così al periodo marbughese (1923-27) dove emerge un terzo aspetto della provenienza teologica.
Il primo elemento da sottolineare è il dialogo con Bultmann che Heidegger incontrava ogni settimana. Da lui riprende l’attenzione alla finitezza – la fatticità storica dell’esistere quale luogo dell’apertura trascendente – ma se ne distacca presto perché costituzione storica e trascendentale del Dasein vanno tematizzate a prescindere da ogni riferimento teologico: la fuoriuscita dalla teologia conduce all’ontologia. In questo contesto Heidegger si pone in dialogo ancora con Agostino sulla questione della temporalità: un dialogo problematico che talvolta determina fraintendimenti del pensiero agostiniano (come la riduzione dell’intentio a “anticipazione”) anche se rimane come sfondo per la ricostruzione nell’analitica esistenziale e delle determinazioni ontologiche del Dasein: essere autentico, essere-per-la-morte, inautenticità del Das Man ecc. (cf. 199). Proprio la riconduzione della finitezza e della temporalità all’orizzonte ontologico determina sia una svolta nella fenomenologia per cui, contrariamente a Husserl, l’ontologia è fenomenologia, sia il supermento della differenza teologica medievale nella differenza ontologica, e in tal direzione va il dialogo continuo con Eckhart, che intuisce tale differenza ontologica, la cui dottrina viene radicalizzata da Heidegger (cf. 192-195).
Giungiamo così alla III parte che, in realtà, è una lunga conclusione intitolata: Il ritrarsi senza Dio. Contro l’interpretazione teologica del pensiero di Heidegger (203-218). Anzitutto viene messo a tema il ritrarsi: ciò che deve essere pensato dall’uomo si ritrae di fronte a lui; il ritrarsi dell’essere è l’evento stesso del pensiero, è l’appello a cui l’interpellato giunge, ma è anche il dono. Un pensiero siffatto è memoria e riconoscenza: memoria in quanto ritorno all’origine e riconoscenza in quanto permanenza nella rammemorazione del dono offerto. Anche se il pensiero si dice nella sequenza ritiro-appello-dono-memoria-riconoscenza, è sbagliato vedervi un’appropriazione riduttrice di motivi religiosi, poiché qui non si tratta della fede religiosa nel dono della rivelazione, come manifestazione ritraentesi, ma semplicemente del pensiero interpellato nel movimento del ritrarsi. Allo stesso tempo, però, pensare il ritrarsi dell’essere impone di pensare ciò che non si ritrae nel ritrarsi, il cui luogo-non luogo è la Lichtung, la radura in cui si svela il ritrarsi della presenza.
Ora «il fatto che l’essere si manifesti nel ritrarsi non impedisce l’attesa del “dio”; ma l’attesa del dio non è senza l’attesa nella quale l’uomo attende l’essere, non è senza l’appello del pensiero. Il fatto che il dio si manifesti non può che iscriversi nel ritrarsi dell’essere. Il ritrarsi, inteso come ciò a cui il “pensare” si espone, è sì un “ritrarsi senza dio”, ma anche un movimento nel quale il dio deve manifestarsi, se deve avvenire» (209). Questo senza nulla togliere al fatto che il motivo heideggeriano del ritrarsi conserva la sua autonomia speculativa nei confronti del ritrarsi “teologico”, e che le tematiche non vanno confuse con un’origine ebraica, come sostenuto da M. Zarader, perché si tratta solo di una certa comunanza formale. A riprova dell’estraneità alla prospettiva teologica l’A. riprende il De l’esprit di Derrida dove emerge che il pensare heideggerinao è altro dal discorso del teologo in quanto il pensare la “pre-archi”-originarietà significa pensare “senza un punto di arresto”, cioè pensare il “totalmente altro” «irriducibile alla teologia, alle religioni e alla metafisica: nessuna di esse potrebbe ricapitolare, integrare, portare a compimento il pensare che, nella “ripetizione”, apre ciò che non è stato mai pensato» (215).
Dunque bisogna rifuggire dalla tentazione di assimilare la filosofia heideggeriana alla teologia, pur nel riconoscimento che filosofia e teologia appartengono al movimento generale del suo pensiero e che il cristianesimo definisce per Heidegger un radicamento, un debito e una provenienza. Il volume è concluso da una bibliografia relativa ai testi e corsi di Heidegger, in ordine di composizione, e alla letteratura critica per la maggior parte di lingua francese.
Di sicuro siamo di fronte ad un’opera importante per affrontare un tema delicato e significativo sia nel pensiero del più grande filosofo del Novecento sia nella teologia che continuamente a quel suo pensiero si è riferita.
A. Sabetta, in
Lateranum 78/2 (2012) 455-459