Xavier Lacroix, professore emerito di filosofia e teologia alla Facoltà di Teologia dell’Institut catholique di Lione, già membro del Comitato consultivo francese di etica e del Pontificio Consiglio per la Famiglia, nel suo libro Abbiamo ancora un’anima? tratta una questione sulla quale in questi ultimi tempi la teologia e la filosofia sono tornate a riflettere. Per tale motivo l’A. ritiene opportuno chiarire all’inizio cosa si deve intendere con il termine ‘anima’, distinguendolo da ‘spirito’ e ‘psychē’. Egli ricorda che sin dall’antichità ha avuto una diversa semantica filosofica e teologica (si veda il capitolo 2 Anima platonica e anima cristiana, pp. 23-28) e nel suo libro si propone di dimostrare che ‘anima’ è un termine insostituibile, da non confondere con altri equivalenti o simili che hanno il solo scopo di attribuirgli un ruolo diverso, quello di intermediario. Così infatti avviene per ‘psichismo’ e ‘cuore’ che sono termini intermediari tra somatico e spirituale.
Tuttavia non si tratta solo di una questione terminologica. Vi sono altri aspetti da chiarire: è sufficiente dire che abbiamo un’anima così come diciamo di avere un corpo? Anima significa interiorità, e corpo esteriorità? Se corpo e anima non coincidono allora si può dire che l’io prende origine dalla loro tensione? In tal caso, l’anima può essere indicata come quel principio di unità personale che pone in essere una dinamica di rapporti e di mescolanza tra vita spirituale e vita intellettuale, tra soffio della vita animale e soffio caldo della vita spirituale, tra “io” e “me”, tra corpo e spirito.
Una volta posta in questi termini, la questione sull’anima apre necessariamente alla trascendenza come interrogativo sulla unità della persona: «Come affermare la trascendenza della persona (un punto forte dell’occidente) al di fuori di un dualismo (il suo punto debole)?» (p. 11). Dopo queste iniziali chiarificazioni, Lacroix propone al lettore un percorso di riflessione sull’anima che parte dall’interno, dalla profondità del cuore di Dio e del cuore dell’uomo, cioè dal desiderio profondo di amare andando al di là del “fisico”, del visibile e del conscio. Infatti, «l’anima – in quanto apertura dello spirito, che è esso stesso dinamismo, a qualcosa di piú grande di sé – è piú dello “psichismo”» (p. 33). Di ciò si fa esperienza a livello emozionale, intuitivo e poetico ogni qualvolta l’anima è mossa dal soffio dello spirito che le dà vita. È esperienza di un amore che amplia e schiude alla vita.
Per cui, prendendo spunto da Simone Weil, l’A. parla di ‘bisogni dell’anima’ in quanto istanza etica: bisogni di radicamento, di ordine, di castigo, di libertà e altri. Egli si chiede: si tratta solo di bisogni di un soggetto morale che tende al bene e al buono, oppure sono anche bisogni di un soggetto aperto alla trascendenza e al divino? E aggiunge: «Perché la chiesa afferma l’indissolubilità del matrimonio (a cui molti credono, anche al di fuori della chiesa cattolica), se non in virtù di un’affermazione dell’anima, secondo cui ciascuno è unico, insostituibile attraverso il tempo?» (p. 39). L’interrogativo sulla indissolubilità del matrimonio sembra esulare dalla questione specifica sull’essere o sull’avere un’anima. In realtà, esso è pertinente in quanto, secondo l’A., c’è continuità tra l’unione dei corpi e il dono della vita, e «dare la vita significa dare nascita a un’anima» (p. 81).
I passaggi indicati dall’A. che conducono al tema del “Dare la vita” (pp. 81-103) nell’ultimo capitolo, sono due: in primo luogo «la vita non viene mai dal nulla» in quanto essa si rivela sempre in un vivente che ne è il supporto. Pensando alla risurrezione della carne si può dire che Dio genera alla vita ciò che di noi stessi permane nel suo cuore e nella sua memoria, e il termine ‘anima’ lo designa. In secondo luogo, l’anima non è solo ciò che anima in quanto essa è rivolta verso qualcosa di più grande di sé; è in relazione con l’Altissimo, come afferma Henri Caffarel «vive più dove ama che dove anima» (p. 72). Con questi postulati l’A. giunge a trattare il tema del ‘dare la vita’ come dono donato nel mistero dell’unione dei corpi. E poiché la vita può venire solo dal Vivente, ossia dalla sorgente ultima della vita, occorre evitare qualsiasi categoria di pensiero dualista sul quale fondare la possibilità di dissociare aspetti importanti del dare la vita come parentela e genitorialità, coppia procreatrice e coppia educatrice. A tal proposito, l’A. elenca una serie di ragioni filosofiche e teologiche (pp. 99-103) che consentono di prendere le distanze da un certo idealismo che non rispetta l’unità della persona umana, non riconosce il valore del corpo e nemmeno l’importanza della differenza sessuale, che è anche spirituale e non solo biologica e culturale.
Se gli argomenti analizzati nell’ultimo capitolo sembrano allontanare il lettore dalla domanda iniziale Abbiamo ancora un’anima?, in realtà c’è una continuità tematica tra “dare la vita” e “anima” purché questa sia intesa non in senso astratto e psichico, bensì in relazione alla natura e alla libertà della persona umana. Il testo si legge volentieri ed è ricco di citazioni e aforismi tratti dalla letteratura filosofica e umanistica. Forse nelle intenzioni dell’A. vi è anche quella di aprire la teologia al confronto con tutte quelle scienze, in particolare la filosofia, che sono interessate a dire qualcosa sull’essere e sull’avere un’anima.
G. Zambon, in
Studia Patavina 1/2020, 184-185