Nella prestigiosa collana di Queriniana «Giornale di Teologia», subito dopo il volume di Walter Kasper – Martin Lutero. Una prospettiva ecumenica –, esce il volume di Giovanni Ancona, ordinario di Antropologia Teologica ed Escatologia e decano nella Facoltà di Teologia della Pontificia Università Urbaniana.
Il piccolo volume si propone come esplicitamente diverso dall’impegnativo Antropologia teologica. Temi fondamentali proposto dal medesimo Autore per Queriniana nel 2014 (2016²), e si presenta come un breve (88 pagine compreso l’Indice) percorso nel vivere, pensare e dire l’essere umano.
Non si tratta di una impresa semplice, come esordisce l’Autore nella Prefazione: «Dire l’uomo è un’operazione difficilissima, estremamente complessa e misteriosa» (p. 5). Eppure, se «l’uomo si arrendesse nel dire di sé non ci sarebbero l’arte, la poesia, la letteratura, la filosofia, la politica, l’economia» (p. 6). Ogni sapere, ogni epoca e ogni cultura ha da dire qualcosa sull’uomo, ogni risposta mediata dalla cultura porta alla luce i “semi di verità” e si trova inevitabilmente orientata in senso escatologico, perché «l’unica risposta esaustiva è di tipo escatologico» (p. 7).
Di fatto si tratta di un piccolo saggio di filosofia scritto da un teologo, e del teologo si sente proprio il respiro escatologico, che sa fare dell’esperienza del limite e della finitezza il punto di forza per un’apertura di significato.
L’Autore divide il testo in tre parti: la prima è fenomenologica “Il fenomeno uomo”, la seconda è teoretica “L’uomo secondo i saperi”, la terza infine è pratica e propositiva “L’uomo e la riuscita della vita”. La divisione delle parti è ovviamente non netta; l’indagine fenomenologica appare già in certa misura collocata e situata entro l’orizzonte del sapere, essendo impossibile una fenomenologia “pura”, e del resto le risposte teoriche misurano il proprio valore nell’essere più o meno radicate nella fenomenologia esistenziale, ed infine le riflessioni pratiche e propositive presuppongono tutto il percorso. Ciononostante la distinzione ha un suo valore e appare ben condotta.
In modo particolare si presenta come interessante e addirittura avvincente la parte fenomenologica divisa in sette capitoli che descrivono l’esperienza vissuta dell’uomo come essere che parla, che conosce e che pensa, che ama, che lavora, che soffre e che muore, che crede e che spera. L’Autore è efficace nell’entrare nella esperienza umana, soprattutto laddove descrive la sofferenza e la morte. «L’uomo che soffre, che sperimenta la sua fragilità, la sua debolezza, la sua precarietà, ha spesso paura; paura che tutto finisca: la vita, le aspirazioni, i progetti, gli amori. [...] L’uomo che soffre, in altre parole, è messo alla prova della vita e di se stesso» (29-30).
Appare interessante anche come l’analisi del parlare conduca alla considerazione del silenzio, l’analisi dell’amore alla considerazione dell’odio e l’analisi del lavoro alla considerazione del riposo e della festa. Il percorso nel rivelarsi fenomenico dell’uomo, tratteggiandone la misteriosità inesauribile, raccoglie elementi universali e specifici, in cui appaiono dominanti l’aspetto relazionale, l’esperienza del limite e la tensione verso «una vita riuscita in tutto e per tutto» (11).
Nella seconda parte, vengono scelte quattro prospettive epistemologiche: l’uomo come essere aperto al mondo con particolare riferimento a Arnold Gehlen, come funzionale alla tecnica nella prospettiva di Umberto Galimberti, come essere neuronale entro il contesto ormai imprescindibile delle neuroscienze, come essere dell’assoluta trascendenza di Dio nella proposta di Karl Rahner. Appare di fatto che queste visioni del mondo, sebbene siano espressione di saperi formalmente diversi, che spaziano dalle scienze esatte alla teologia, appaiano tutte mediate da una prospettiva filosofica argomentativa, e di fatto si propongono come capitoli della filosofia dell’uomo. Del resto, l’Autore nella prima parte del volume ha sottolineato che la vita umana è “una vita filosofica” e l’uomo è «un filosofo, un essere che conosce e comprende, perché esiste» (17).
Infine si presenta come particolarmente interessante la terza parte in cui si sintetizzano due tipologie dominanti nella riuscita della vita “Il paradigma del neopaganesimo” esemplificato in Salvatore Natoli e “Il paradigma dell’ateismo liberal e libertario” espresso da Paolo Flores d’Arcais. I due paradigmi sono in sé più vicini di quanto possa sembrare; secondo il primo «l’uomo dice la possibilità di essere capace della sua finitezza e di divenire potente indipendentemente dalla promessa di un Dio» (p. 71) e per il secondo «la riuscita della vita dell’uomo è, in definitiva, scommettere sulla finitezza, saper accettare la condizione di una sola vita e questa come finita» (p. 75). Infine l’Autore propone un terzo paradigma “Il paradigma della fede in Gesù Cristo”, che «può sembrare nell’immediato, solo un paradigma accanto agli altri [...] una delle tante opzioni esistenziali che sono a disposizione di ciascun essere umano» (76), ma in realtà «è completamente differente dai paradigmi a disposizione nell’universo culturale, poiché esso può venire compreso e vissuto solo a partire dall’altro, da Dio; esso si inserisce nella dimensione del dono e della conseguente accoglienza da parte dell’uomo, in una parola nell’esperienza della fede» (77). Questo paradigma non esclude niente di ciò che è propriamente umano, anzi «esalta l’umano [...], esclude solo il negativo, ciò che è contrario alla vita, ciò che è di ostacolo all’amore e alla speranza [...] rinvigorisce il senso della vita [...] fa risaltare l’identità relazionale di ciascun uomo, unico e singolare, e dona forma all’amore che fa maturare l’esperienza umana» (79).
Vivere secondo la fede implica un “impegno storico permanente”, ha anche una rilevanza sociale e politica. La vita secondo la fede in Gesù Cristo è garantita dallo stesso Gesù Cristo, e «nell’ottica della fede la vita umana è riuscita quando partecipa in Cristo della stessa vita di Dio, il vivente per sempre, già ora nella complessità della storia e con lo sguardo rivolto al futuro del suo compimento escatologico» (82).
Nell’Epilogo l’Autore si sottrae e lascia parlare un altro. Di fatto tutto il testo riporta spesso citazioni brevi e lunghe, rispondenti a una precisa scelta di metodo di Giovanni Ancona, che valorizza l’ascolto delle parole altrui e preferisce argomentare i paradigmi generali a partire da testi significativi, tanto che il piccolo volume può anche essere letto come un rapidissimo panorama di antropologia contemporanea.
Il finale è, appunto, un lungo ascolto della voce di Ortega y Gasset, filosofo dall’attualità sempre pregnante, qui colto mentre argomenta sul trovarci viventi “a bruciapelo” e sul valore di un’ora della vita spesa ad ascoltare una lezione di filosofia.
Questo testo di Giovanni Ancona si prospetta proprio come una lezione di filosofia. Forse occorre più di un’ora per leggerlo tutto, ma al suo lettore si può applicare la stessa domanda che Ortega rivolge all’uditore dell’ora di filosofia: «Che farà? Si alzerà e andrà via, oppure resterà, accettando la fatalità di portare quest’ora della sua vita, che forse avrebbe potuto essere tanto bella, al mattatoio delle ore perdute?» (84).
Convinti che l’ora spesa nella lettura non sia perduta, concludiamo con Ortega: «L’uomo è l’unica realtà che non consiste semplicemente nell’essere, ma che deve addirittura farsi carico di una realtà» (ivi).
Questi Appunti minimi aiutano a sviluppare i muscoli interiori per farsi carico di se stessi.
L. Congiunti, in
Urbanian University Journal 1/2017, 292-295