La tesi centrale del saggio teologico di Menke può essere così sintetizzata: il cattolicesimo non è una determinata dottrina cristiana né una organizzazione religiosa, ma un modo specifico e particolare di vivere e pensare il cristianesimo, ossia viverlo e pensarlo in termini di sacramentalità.
C’è un “di più” della comunicazione sacramentale con Cristo rispetto a quella non sacramentale. Tuttavia, per comprendere questo, è necessario distinguere la sacramentalità dal sacramentalismo. Mentre il sacramentalismo è l’identificazione della Chiesa visibile con quella invisibile, la sacramentalità «poggia sulla distinzione tra il piano indicante e il piano indicato, tra la Chiesa invisibile e quella visibile, tra l’autorità di Cristo e l’autorità del ministero apostolico, tra la verità in sé e il dogma che la indica» (5). Il piano indicante/significante, nella prospettiva sacramentale, non è mero simbolo convenzionale, ma è inseparabile, nonostante tutta la diversità, da quello indicato/significato.
Il testo di Menke è strutturato in cinque ampi capitoli. Nel primo capitolo il teologo prende in considerazione l’essenza del cattolicesimo secondo la critica protestante. È il tentativo di scandagliare la propria essenza mettendosi dal punto di vista dell’altro, cercando di vedersi con gli occhi di un protestante. Sono analizzate le teologie protestanti di R. Sohm, A. von Harnack, E. Troeltsch, alla luce delle quali l’essenza del cattolicesimo appare come l’identificazione della Chiesa con una organizzazione, l’identificazione della parola di Dio con l’uomo Gesù, del Vangelo con il dogma, l’identificazione dell’assoluto con un fatto storico (cf 40). Attraverso l’analisi e il confronto tra la teoria cattolica del simbolo (K. Rahner) e quella protestante (P. Tillich), Menke prepara la tesi esposta nel capitolo secondo: il cattolicesimo sta o cade con la sua sacramentalità. La Chiesa, con e in Cristo come sacramento, è il mezzo e lo strumento da lui inseparabile per salvare anche l’ultimo fratello e l’ultima sorella. La Chiesa è «sacramento e simbolo reale, perché non solo allude a Cristo come al totalmente Altro, ma perché Cristo si lega talmente ad essa da essere solo con essa e niente affatto senza di essa la salvezza del mondo» (120). Nel terzo capitolo del suo lavoro, Menke riflette sull’essenza sacramentale della Chiesa come popolo di Dio, nato dal Corpo di Cristo. Egli polemizza contro una ecclesiologia talvolta esplicitamente antisacramentale. Partendo dall’intimo legame tra Eucaristia e Chiesa, tra la sacramentalità del dono di sé fatto da Cristo nell’Eucaristia e la sacramentalità della Chiesa, è illustrato il “di più” della comunicazione sacramentale con Cristo rispetto a quella non sacramentale: «questo “di più” sta nel fatto che la comunicazione sacramentale è una comunicazione visibile e, quindi, una pubblica professione di fede. Il cristiano che si comunica sacramentalmente si identifica pubblicamente con la comunità professante la propria fede, che è rappresentata dal vescovo locale menzionato per nome in ogni celebrazione dell’Eucaristia e dal successore di Pietro, parimenti menzionato per nome» (122).
Il quarto capitolo affronta la delicata questione del rapporto fra Cristo e lo Spirito, tra concezione cristocentrica e pneumatocentrica della Chiesa. Si tratta di una questione controversa che, nel campo del dialogo cattolico-protestante, si presenta nella forma dello specifico problema della definizione del rapporto tra Chiesa visibile e Chiesa invisibile. Gran parte del capitolo è consacrata alla descrizione in chiave sacramentale delle proprietà ecclesiali dell’unità, dell’apostolicità, della cattolicità e della santità (cf 181-272). Il capitolo conclusivo si occupa delle conseguenze di una sacramentalità incrinata, ovvero dei fenomeni diffusi della desacralizzazione, del funzionalismo, del misticismo e dell’integralismo, vere e proprie ferite inferte al cuore dell’identità cattolica.
Pian piano si è passati da una ecclesiologia sacramentale a una ecclesiologia funzionale, che finisce per svuotare di significato l’Eucaristia e il ministero. La tentazione misticistica del cattolicesimo e quella integralistica rappresentano una perversione dell’essenza del cattolicesimo, perché giudicano e pensano in modo antisacramentale: il misticismo e l’integralismo hanno in comune l’antisacramentalismo; in entrambi non esiste la distinzione tra realtà significante (sacramentale, rappresentante) e realtà significata (trascendente, rappresentata). Per il paradigma misticistico, reale è ciò che è sperimentato dal singolo soggetto; per il paradigma integralistico, reale è solo quello che l’autorità oggettivamente presenta (cf 308).
Il saggio di Menke è particolarmente interessante perché rimette al centro del pensare teologico la categoria della sacramentalità, in un contesto socio-culturale in cui il pensiero sacramentale è fortemente in crisi ed estraneo al pensiero postmoderno.
Il pensiero sacramentale e il pensiero postmoderno – nota il teologo tedesco – si comportano tra loro come due opposti, si escludono a vicenda, perché il pensiero postmoderno non riesce a custodire la distinzione antropologica tra io e non-io e quella ontologica tra un piano indicante e un piano indicato, che sono presupposte dal pensiero sacramentale (cf 321).
Il libro di Menke è provocatorio, soprattutto dal punto di vista ecumenico; esso sembra aprire fossati da lungo tempo creduti colmati e parla senza mezzi termini di una differenza fondamentale tra cristianesimo protestante e cristianesimo cattolico: da un lato l’azione esclusiva diretta (pneumatica) da parte di Dio, dall’altro l’attività congiunta sacramentalmente mediata. Menke non ama compromessi ecumenici fatti a spese della verità, è contrario a un ecumenismo, talvolta irenico, di dichiarazioni congiunte e di pezzi di carta che mette a tacere la differenza fondamentale tra protestantesimo e cattolicesimo. I documenti elaborati dai teologi delle diverse parti interessate mostrano un crescente consenso in ambito ecumenico e una comprensione reciproca sempre più profonda. Sono passi importanti e necessari, ma non sufficienti, perché la differenza fondamentale può essere superata non con la riflessione teologica (l’unione concettuale non è un’unione reale), ma unicamente mediante la traduzione dell’incarnazione di Cristo nell’incarnazione sacramentale della Chiesa (cf 7).
A. Porreca, in
Rassegna di Teologia 57 (2/2016) 346-348