Era il luglio 2011 e ricorrevano i sessant'anni di sacerdozio di papa Benedetto XVI. Coi miei collaboratori riuscii ad allestire una mostra-omaggio di altrettanti artisti di tutte le discipline, provenienze e scelte spirituali. Tra costoro c'era Arvo Pärt, uno dei maggiori musicisti viventi, nato in Estonia nel 1935, un personaggio che ha attraversato tutte le drammatiche vicende della sua terra e dell'Europa del secolo scorso, dimostrando la forza salvifica della musica. A lui assegnai il compito di aprire, davanti al papa "musicista", quell'esposizione. Ed egli lo fece con un breve ma emozionante Vater unser (Padre nostro) per pianoforte (a lui stesso affidato) e voce bianca. Lo spartito autografo fu donato al pontefice che lo assegnò alla Biblioteca Vaticana. Ora, è particolarmente suggestivo che, per la prima volta, il Premio Ratzinger, oltre che a teologi noti, sia stato assegnato proprio a Pärt, la cui creatività purissima si unisce a una fede appassionata e a un carattere mite e umile nello spirito evangelico.
Ovviamente non è né possibile da parte mia illustrare lo straordinario contributo offerto da questo grande artista alla storia della musica contemporanea, come è per altro già accaduto con l'intenso ritratto che gli ha dedicato lo scrittore olandese Jan Brokken in Anime Baltiche (Iperborea 2014), con l'ampia intervista di Enzo Restagno (Allo specchio, Saggiatore) e con la vasta bibliografia musicologica che lo accompagna.
È interessante, invece, ritornare su un tema molto rilevante, quello del nesso intimo tra musica e religione, sul quale per altro abbiamo avuto occasione di intervenire anche recentemente, in occasione del quinto centenario della Riforma. Lo facciamo attraverso due testi significativi. Il primo è l'eco scritta di un congresso internazionale organizzato dal Pontificio Consiglio della Cultura in Vaticano lo scorso marzo, con partecipanti provenienti da una quarantina di nazioni. Essi erano consapevoli che, a 50 anni dall'unica istruzione ufficiale ecclesiale sul tema, la Musicam sacram del 5 marzo 1967, pubblicata nell'immediato post-Concilio, il rapporto tra culto e cultura - vocaboli che hanno la stessa radice etimologica - doveva essere rivisitato.
E questo doveva avvenire proprio attraverso quella cartina di tornasole fondamentale che è la musica, vero e proprio paradigma di riferimento, come affermava lo stesso Concilio Vaticano II nel suo primo documento approvato, Sacrosanctum Concilium:«Il canto sacro, unito alle parole, è parte necessaria e integrante della liturgia» (n. 112). Purtroppo quella cartina di tornasole è uscita da questi decenni con colori che segnalano uno stato di salute non proprio brillante, con infezioni e affezioni da sottoporre a terapia. Ebbene, nel volume che raccoglie gli interventi di una ventina di studiosi si ha veramente una mappa dello status quaestionis in sé considerato e nell'attuale contesto culturale ed ecclesiale, nàturalmente tenendo come fondale il riferimento sempre capitale della Bibbia che al riguardo squaderna un imponente dossier.
Ma lo sguardo deve allungarsi e allargarsi penetrando nell'orizzonte in cui ora siamo immersi, sia "laico", sia ecclesiale, non esitando a veleggiare verso le esperienze più lontane, come quelle libanesi, africane, cubane, latino americane, nella consapevolezza della necessità dell'inculturazione. O anche inoltrandosi nel delicato mondo delle scuole musicali, degli animatori, dei cori, dei pastori d'anime e dei compositori (ai quali verrà riservato un ulteriore convegno il prossimo anno). Per secoli la musica è stata la via privilegiata dell'ascensione dell'anima orante a Dio, come attesta uno sterminato repertorio. Non per nulla la tradizione giudaica immaginava che, nella visione di Giacobbe del c. 28 della Genesi, gli angeli si fossero dimenticati di ritirare la scala sulla quale erano discesi ed erano risaliti dopo aver annunciato la promessa divina al famoso patriarca biblico. Essa è rimasta sulla terra ed è la scala musicale le cui note sono come gli angeli di Dio che permettono agli uomini e alle donne di ascendere fino al mistero di Dio.
Persino un ateo radicale come Emil Cioran era strattonato dalla musica verso Dio: «Quando voi ascoltate Bach, vedete nascere Dio... Dopo un oratorio, una cantata o una Passione, Dio deve esistere... Pensare che tanti teologi e filosofi hanno sprecato notti e giorni a cercare prove dell'esistenza di Dio, dimenticando la sola!».
Teologo e musicista è l'autore del secondo testo che presentiamo sul tema: è Don E. Saliers, docente alla Emory University di Atlanta, di confessione battista, alimentato dagli spiritual ma anche dai classici come Bach e Mozart, senza ignorare la contemporaneità jazz o alla Joan Baez, Leonard Cohen e Bob Dylan. Le sue sono pagine godibilissime e non temono di inoltrarsi fino alle frontiere che distinguono ma non separano sacro e profano, folclore e liturgia, spirituale e popolare, consapevole comunque che «non tutta la musica è, o implicitamente o esplicitamente, teologica».
Si devono, perciò, chiarire gli statuti che definiscono le identità musicali specifiche perché non sono necessariamente sinonimici gli aggettivi, spesso miscelati senza cautela, come musica "liturgica, sacra, religiosa, spirituale". Ma il discorso di Saliers è molto mobile e si insinua in vari territori tematici, a partire da quelli più teorici generali attingendo alla sorgente antropologica del suono, dell'ascolto, della sinestesia (la ricettività multisensoriale), della tensione spirituale. Da lassù egli discende lungo "li rami" della tradizione che si è spesso aggrovigliata attorno al nesso parole-musica che s. Agostino ha per primo tentato di dipanare.
Né si può ignorare, come già si diceva, l'intreccio con la teologia: molto vivace è il capitolo riservato a Lutero, autore di un testo emblematicamente intitolato Frau Musika, a Bach nella cui biblioteca dominavano i libri spirituali, e a Mozart interpretato in modo suggestivo da due teologi del calibro di Barth e Küng. Un altro teologo, Jeremy S. Begbie nel suo Theology, Music and Time (Cambridge University Press 2000), aveva esaltato la funzione della musica come ponte teologico tra la cultura, la società e la storia, da un lato, e la ricerca su Dio e in particolare sullo Spirito Santo (un po' come affermava il citato Cioran).
Un altro ambito in cui Saliers s'inoltra è quello del canto che evoca naturalmente l'innologia, un genere piuttosto sfrangiato ma che ha il suo referente nella classicità cristiana latina e greca. È per questa via che le molteplici colorazioni dell’esistenza - dalla lode al lamento, al "Miserere" del cuor lacerato – si esprimono divenendo armonia e preghiera. È facile intuire da questa evocazione esemplificativa di soggetti tematici quanto corrano parallele la musica e la fede lungo molti percorsi, e le pagine del volume spesso intarsiate di rimandi ad autori e partiture sono la conferma di un’affermazione dello stesso studioso statunitense: «La musica conferisce al linguaggio umano rivolto a Dio il silenzio e il mistero adeguati richiesti dalla preghiera. La musica è il linguaggio dell'anima reso udibile».
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 19 novembre 2017