Niente può far male come il giudizio di un fratello. Per questo nella Chiesa ci si fa talvolta molto male. La nuova edizione italiana di Cordula ovverosia il caso serio espone il lettore, prima che a riflessioni formidabili, a un’atmosfera travagliata, quella della Chiesa postconciliare.
Hans Urs von Balthasar attacca: «Quanta ambiguità è nascosta nella cristianità moderna? Come non mai! Prendi dunque la lanterna, e forse tra tanti professori troverai almeno un paio di veri confessori». Cinquant’anni dopo, dove può portare il sospetto che le chiese, le cattedre, le riviste cattoliche siano occupate da fratelli liquidabili come “atei anonimi”? Diffidenza e delegittimazione sprigiona la caricatura balthasariana dell’avversario: «Ne ha abbastanza in cuor suo del vangelo, della croce, di tutto il lavorio dogmatico e sacramentale, fiuta l’aria del mattino e prende due piccioni con una fava: si libera di ciò che gli torna profondamente uggioso e, tuttavia, così facendo, cammina come cristiano aperto alla riforma, tenendo il passo con la scienza verso un futuro migliore». Occorre ricordarlo, accostando il piccolo grande libro: la pertinenza delle questioni merita un clima nuovo, pena una paralisi del pensiero teologico e della comunione ecclesiale.
La proposta risulta attualissima, purché riletta nell’unità fondamentale che è Dio stesso a creare tra i suoi figli, al di là delle insufficienze di ciascuno e delle diverse stagioni. Cordula è esattamente ricerca “del criterio” decisivo — per ogni epoca e scuola — del punto dal quale il Signore parla, in cui pone se stesso. «Anzi, di più: il punto è lui stesso, ed esiste soltanto perché lui vi è». Criterio, infatti, è la sua croce storica, «forma permanente di vita per coloro che intendono seguirlo».
In Europa, al termine di un’estate che ha visto il martirio cristiano tornare tra i fatti di cronaca, Cordula diviene per tutti il caso serio. Balthasar rinvia a un antico racconto: quando gli Unni sterminarono un’immensa schiera di giovani cristiane. «Ci fu una vergine, di nome Cordula, che per la gran paura si nascose durante la notte nella nave; ma il mattino dopo si offrì volontariamente alla morte e ricevette così la corona del martirio». Ebbene, devo confidare la mia crisi: se non la mettessi in campo, tutto rimarrebbe molto astratto.
Lo scorso luglio, prima di partire per Cracovia, alcuni genitori chiedevano rassicurazioni per i propri figli: i fatti di Nizza e della Baviera diffondevano presentimenti di un attacco alla giornata mondiale della gioventù. Rimuovendo, di fatto, la testimonianza di migliaia di fratelli perseguitati in altri continenti, risposi che mai in Europa il terrorismo islamista aveva preso di mira simboli o celebrazioni della fede cristiana: c’era dunque da andare con fiducia. Doveva venire l’uccisione di padre Jacques Hamel a scuotere e rifondare l’idea di fiducia? Lo confesso con imbarazzo: sì! Solo grazie a lui siamo partiti con fede, ricondotti a una sospensione della vita in Dio, che troppo a lungo non ci era appartenuta.
«Chi è il cristiano?» si chiede Balthasar. E dichiara, nella postilla alla terza edizione tedesca: «Cordula, rinviando alla testimonianza del sangue, non voleva essere altro che un segnale d’allarme. Stiamo vivendo attualmente uno di quei momenti in cui, con la “mano libera” di progettare tutti i possibili cristianesimi, siamo sul punto di perdere ogni continuità con ciò che finora è stato definito come cristianesimo». Anche per me, prete, come per i giovani e le famiglie con cui sono in cammino, è valsa la tentazione di dire: «Mi mantengo molto aperto». «Ma — si chiede il nostro autore — che sarà di questa apertura se uno hic et nunc dovrà professare la sua fede?». Il tempo nuovo, in cui la storia pare introdurci, non raccomanda però chiusure. Riapre, piuttosto, il rischio della sequela, nei vangeli vocazione che non lascia spazio a tentennamenti, questione di vita o di morte. Sì, i vangeli: accolti come sono, perché, scrive Balthasar, «la mia disposizione a morire per Cristo — con la grazia di Dio — è l’unica risposta adeguata (che implica tutta la condotta di vita) al fatto che egli si è degnato di morire per amor mio. Se questo fatto diventa discutibile, diventa discutibile naturalmente anche la mia risposta». Con immagine potentissima: «Io fiorisco sul sepolcro del Dio che è morto per me, affondo le mie radici nel terreno della sua carne e del suo sangue. Perciò, l’amore che ne traggo nella fede, non può essere di natura diversa da quella del sepolto».
Non mancano, nel libro, pagine urtanti e di difficile digestione. Esse tuttavia preparano illuminazioni che, forse, la distanza cronologica rende ancora più apprezzabili. Mai come ora, ad esempio, tramontate le grandi ideologie, «la cosa principale è che uno abbia l’amore. Ammesso che sappia che cos’è l’amore. Ma con quale metro l’uomo, che è essenzialmente peccatore, misura l’amore?».
La pertinenza dell’osservazione pare immortalarci, travolti dai sentimenti: fatichiamo a distinguerli e a governarli; più li scuotono le emozioni, meno li sostengono le ragioni; ognuno fa quel che può, ma sarà sufficiente? Manca il criterio: abbiamo smarrito il caso serio. C’è infatti identità, tra amore di Dio e amore del prossimo, «soltanto in senso cristologico, e con l’assoluta priorità dell’amore di Dio».
Spiega mirabilmente Balthasar: «Il Cristo, che vive in me, mi è così intimo (è più vicino di quanto io lo sia a me stesso) perché è morto per me, perché mi ha preso con sé sulla croce e mi prende continuamente con sé nell’eucaristia. Come potrebbe il rapporto con un mio simile essere paragonabile a quello, e perciò esigere da me come risposta lo stesso amore? Il ponte per l’amore ai fratelli nel senso di Cristo è costituito dal fatto che egli ha compiuto per ognuno ciò che ha compiuto per me». È la chiave del libro, il dna del cristiano: «La disponibilità illimitata verso il Padre, che può essere chiamato l’atteggiamento confidente di Gesù, gli permette di portare in sé il prossimo al Padre», di condurlo «in un solitario posto nascosto» di cui l’altro nemmeno si avvedrà. «Questo elemento portante di ogni dialogo non è colloquiale, non è neppur necessario che sia reso noto all’interlocutore. L’elemento teoretico, che differenza l’umanesimo cristiano da ogni altro umanesimo, in pratica comparirà nella sfera del dialogo solo come fenomeno terminale: come disposizione al caso serio». Cioè: saprò morire per te? È l’autentica misura dell’amore, la più desiderabile umanamente. «Il cristiano si lascia toccare più a fondo di chiunque altro, perché il suo interlocutore, forse avversario, è portato nel cuore del crocifisso esattamente come lui».
Non importa, allora, se padre Hamel, nel villaggio in cui fu ucciso celebrando messa, fosse un cultore di Balthasar o di Rahner, se don Puglisi a Brancaccio fosse progressista o conservatore, se la devozione all’Immacolata di padre Kolbe si presti per la pastorale del nuovo millennio. Conta come il prossimo è entrato in queste esistenze radicate nella croce di Cristo, con quale profonda serietà.
«Io devo poter sperare per ogni fratello a tal punto che, in un eventuale caso serio, quando si trattasse di entrare o lui o io nel regno di Dio, io, con Paolo (Romani, 9,3), sia disposto a lasciare a lui la precedenza» scrive Balthasar, quasi profetizzando il testamento di Christian de Chergé, priore dei monaci martiri di Tibhirine. Siamo entrati in un tempo in cui sui banchi di un liceo, tra gli scaffali di un supermercato, fra colleghi di lavoro e dentro le mura di casa, non rinviabile è la decisione di Cordula: per chi vivere.
La sera dell’uccisione di padre Jacques, un alunno cinese, diciottenne, mi chiese come incamminarsi verso il Battesimo: quel singolare modo di morire, interiorizzato attraverso i media, dava definitivamente nome alla vita più desiderabile, già intravista nei compagni di classe cristiani e cercata al loro fianco nel servizio tra i bambini di una parrocchia come tante altre. Per grazia, di questo ormai si tratta, anche nelle nostre Chiese: Balthasar vedeva lontano.
S. Massironi, in
L’Osservatore Romano 1 ottobre 2016