Il testo offre dieci lezioni di estetica teologica, raccolte in quattro raggruppamenti e corredate ciascuna di preziose mappe concettuali ricapitolative. L’“estetica teologica” in oggetto non è una teologia del “bello” nella sua valenza metafisica, né della “forma” nel dominio della creazione artistica. Non è criteriologia per la lettura teologica di un’opera d’arte né, infine, trattazione sui principi dell’arte sacra. Essa aggredisce invece il nodo teorico della correlazione tra ragione teologica e pensiero estetico, della struttura della ragione teologica fondata sull’esperienza effettiva e affettiva del Dio incarnato, espressa in categorie estetiche, integrative dell’elemento sensibile e della dimensione affettiva.
Hans Urs von Balthasar, l’inventore di una teologica estetica, intendeva unire, nel registro della “bellezza”, il dono della rivelazione dall’alto e l’apertura alla sua accoglienza dal basso, lo splendore oggettivo del donarsi di Dio e il rapimento soggettivo dell’uomo interpellato. Sequeri cerca di andare oltre, con una riproposizione post-moderna dell’“inedito cristiano”, nell’inclusione e integrazione della dimensione sensibile e affettiva nell’episteme della fede.
La I parte (“Estetizzazione del mondo”, 11-69) descrive l’accresciuta rilevanza attuale del tema estetico. L’estetica, che in età moderna ha assunto il ruolo di scienza generale della sensibilità umana, incorporando i grandi temi dell’ontologia e dell’etica, in epoca romantica si è configurata come dottrina dell’intuizione spirituale, nella correlazione tra fenomeno artistico ed esperienza religiosa. La primitiva “dottrina del sensibile” si è sviluppata anche come teoria dell’immaginazione e dell’immagine, non solo nel dominio del sovrarazionale – l’artistico espressivo dell’esperienza religiosa –, ma anche dell’“irrazionale” – l’artistico come provocazione straniante –, sfogo di pulsioni critiche per l’idolatria di una ratio la cui sicurezza sistematica manifesta tutta la sua fallacia ermeneutica nei confronti di un mondo che si ribella alla sua pretesa ordinatrice. L’odierno rovesciamento delle categorie estetiche, con il frantumarsi dei canoni artistici tradizionali in funzione polemica e la migrazione dell’estetico tradizionale negli spot pubblicitari, ha spezzato l’alleanza romantica tra l’artistico e lo spirituale, rendendo insufficiente lo stesso progetto balthasariano, in cui percezione estetica, struttura trascendentale e dimensione trascendente sono direttamente correlate. Oggi il pulchrum qua tale (quale?) non è più accesso ai trascendentali del bonum e del verum, alla dimensione etica e gnoseologica dell’essere stesso.
La II parte (“Ritorno al fenomeno”, 73-153), si situa tra l’istanza antropologica di una sensibilità capace di riconciliare ragione e affezione e il recupero teologico di una fenomenologia del “corporeo” come epifania dello “spirituale”, mediante il “sensibile”. La scissione oggi avvertita in occidente tra logos e aisthesis chiede una riconciliazione mediante il tertium sovra-ontologico dell’affezione. In passato il tema delle passiones e degli affectus ha toccato l’etica filosofica e l’antropologia teologica solo indirettamente, in relazione all’incidenza sulla ragione e sulla volontà. Ha acquistato rilevanza solo di recente, con lo sviluppo delle scienze umane. L’esplorazione di regioni interiori ancora insondate da parte dalle scienze umane ha avuto un impatto decisivo soprattutto nel pensiero filosofico. Il lungo processo di revisione della fenomenologia di Husserl rispetto al tratto più rigido della sua intenzionalità, sino alle “conversioni filosofiche” che la hanno “rovesciata”, piegandola sul versante teologico di una fenomenologia della carne, oltre l’empirico e l’organico, insieme all’affermarsi di un’antropologia degli affetti, hanno interpellato anche la riflessione teologica, il cui resistente concettualismo onto-teologico, ha a lungo ostacolato l’accesso alla dimensione affettiva del divino, e l’assunzione di un intellectus fidei effettivo e affettivo, conforme alle esigenze di una ratio hominis digna, espressione dell’umano che è comune.
L’insufficienza delle fenomenologie della carne e del dono, rende urgente una fenomenologia post-metafisica dell’essere spirituale. La fenomenologia tradizionale ha infatti trascurato le figure dell’essere-credibile e dell’essere-amabile, irriducibili tanto al pulchrum del godibile quanto al bonum del valevole, quanto, infine, al verum delle gnoseologie intellettualistiche, dall’adaequatio intellectus alla reine Vernunft. A supporto della sua analisi Sequeri riporta due “meditazioni post-husserliane”, su Emmanuel Lévinas e Miguel de Beistegui, nel solco di una fenomenologia priva di pregiudiziale gnoseologistica. Il primo tematizza la relazione con l’alterità come risposta all’appello del vulnerabile e alla giustizia dell’amabile, irriducibile alla ragione filosofica e aperta alla trascendenza etico-affettiva. Il secondo muove dalla quota aristotelica presente nella scienza moderna, per ricondurre tutto il sapere al recupero antico di un legame tra physis e psyché, estensione e pensiero, nell’unione di intuizione poetica e ragione computativa, epifaniche dell’essere in modo convergente.
Metafisica dell’arché e sorgente dell’affectus si possono ricomporre risalendo alla radice primordiale dell’affezione: il mistero dell’origine, nell’atto della generazione in analogia all’evento della creazione. Creatio ex nihilo e generatio alterius chiedono di essere assunte per il denominatore comune dell’Uno capace di produrre il Nuovo, non come estensione dell’Unico, né come suo doppio-copia, ma quale novità radicale, comprensibile non nel regime ontologico-causale, ma nell’ordine affettivo di un voler-bene, trascendente la metafisica dell’essere, nell’orizzonte del gratuito inspiegabile causalmente e della libertà intelligibile solo affettivamente. Il voler-bene, dislocato rispetto all’esser-bene effusivum sui, e chiaramente trascendente rispetto all’inerire ontologico dei suoi trascendentali, trova la sua cifra simbolica nella metafora affettiva del concepimento e della nascita, nel pro-creare/generare che fonda l’essere al mondo dell’ente spirituale. Solo nella luce della creazione e della generazione, della libertà, della gratuità e del dono, è possibile ricomporre la relazione dell’Uno e del Molteplice (dall’Unità del fondamento/origine alla Dualità/molteplicità originata), questione evidentemente insolubile nella logica puramente ontica che ha dominato la tradizione occidentale. Il regime dell’affezione, irriducibile al sapere ontico, è per Sequeri la chora generativa della qualità spirituale del sensibile. Il tema è assunto in recto nella III parte del lavoro, dedicata all’“impensato cristologico” (157-206).
Si tocca il vertice teologico del testo. L’atto della generazione, arché assoluta dell’essere divino e «prima Parola in cui il Fondamento si pronuncia e si annuncia» (157), trascende ogni distinzione tra fisico e metafisico, sensoriale e intelligibile, esteriore e interiore: inaugura un ordo amoris privo di qualsiasi antecedente ontologico. La polemica ariana accentua il carattere ontologico della distinzione nicena tra creazione e generazione, lasciando in ombra la valenza affettiva del generare, anche in riferimento alla generazione da Maria. L’enfasi ontologico-trinitaria nell’uso della metafora della generazione ha trascurato anche l’analogia creationis per Verbum formulata nel NT, chiudendo la riflessione trinitaria nell’immanenza, compresa come ontologia della processio, che deprime la valenza affettiva implicata nell’atto del generare. «Nella disposizione al voler-bene che attinge all’antecedente divino – solo a posteriori afferrabile nella sua eccedenza rispetto alla stessa fenomenalità –, è deciso il come deve essere l’essere, per essere come deve in ogni possibile accadere» (182). Senza una fondazione affettiva tutto ricade nella pura dimensione ontica: le relazioni sono processi formali, da ricondurre al generico della sostanza; l’uguaglianza nella dignità tende all’omologazione; la libertà personale è individualismo dell’indifferenza; il lessico romantico dell’amore è mistica della pura funzione estetica; pro-creazione e pro-affezione originano debito da estinguere e non eredità da far fruttificare. Senza una fondazione nell’ordo amoris non si supera neppure l’ambivalenza del sacro. Il fondamento affettivo della generatio richiede tuttavia, per potersi declinare, una coscienza gnoseologica della funzione metaforico-immaginativa. Ecco entrare in gioco il pensiero fenomenologico di Marc Richir.
Oltre la fenomenologia di Merleau-Ponty, troppo schiacciata sulla percezione, Richir tematizza la dimensione della phantasía, funzione originaria che indirizza la coscienza a organizzare la percezione nell’ambito dell’aisthesis – irriducibile alla sensorialità misurabile per quel surplus affettivo che già la abita, fonte di simbolizzazione e integrazione metaforica del significato – e della pulsione, il complesso delle “tendenze interne” di associazione e dissociazione, attrazione e repulsione in un ambito pre-logico, ma già affettivamente connotato. La phantasía articola dynamis e aisthesis, originariamente intrecciate nell’enigmatica sovrapposizione di desiderio del non ancora raggiunto e nostalgia dell’irrimediabilmente perduto, magma iniziale di un’affettività arcaica, da cui affiora l’architettura del simbolico della relazione all’alterità, dalla funzione linguistica alla comunione amicale. Rivisitando il mythos arcaico dell’origine/nascita, nella sua energia eziologica pre-logica, Richir rilegge l’interiorità nella chiave micro-cosmogonica di un’affettività originaria, madre e matrice di ogni successiva emersione simbolico-comunicativa, istitutiva di comunione e socialità. Ogni processo comunicativo e ogni manifestazione di senso sono attraversati e plasmati ab initio dalla sedimentazione di eventi dell’affettività originaria, capace di trascendenza del simbolico stesso, al punto da attivarsi anche nell’inibizione del semantico o nell’assenza dell’immaginale.
«Lo schematismo fenomenologico dell’affezione in quanto tale è un corpo fantasmatico dell’animo sensibile in cui il pensiero e l’apparire sono sempre anticipati nell’istituzione simbolica del dover essere dell’essere per essere come deve» (193). Il processo micro-cosmogonico dell’istituzione del senso ha un suo snodo essenziale nell’iniziazione alla legge, istitutiva degli opposti del giusto e dell’ingiusto e capace di plasmare l’immaginario simbolico-affettivo nella libera decisione per la giustizia e l’affidabilità dell’origine. La legge, con la sua simbolica mediata nella stessa relazione di generazione e riconoscimento, ostacola l’auto-ripiegarsi del Gemüt, opponendosi al risucchio “auto-affettivo” verso l’origine materna, in concomitanza con la percezione di una pro-affezione genitoriale capace di autolimitarsi, per indirizzare il generato a spezzare il cerchio fatale dell’auto-affezione, verso l’“oltre” di un’autentica pro-affezione a sua volta generativa.
Si passa così alla IV parte del lavoro, sull’estetica del vissuto di fede, nella correlazione tra “miraculum e sacramentum” (209-258), ritorno conclusivo all’esperienza che risponde al fenomeno dell’estetizzazione del mondo. La struttura della coscienza, intreccio responsoriale d’informazioni e affezioni, opera non secondo il modello veritativo dell’adaequatio, ma nella dinamica immaginativa di una phantasía architettonica che non si rapporta all’alterità come puro rispecchiamento, ma come lenta emersione del sé e dell’altro nella loro distinzione, in forza di un responsorio guidato dalla ricerca di una segreta corrispondenza con il sensore affettivo primordiale del voler-bene, che plasma un’esperienza morale come memoria della materia e immaginazione dello spirito, nel grembo fiduciale del nostro inizio, in cui verità e bene si identificano.
Il verum, trascendentale di relazione insieme al bonum, si determina in corrispondenza con la logica segreta del voler bene, che prende forma nel registro immaginativo. Dynamis affettiva costituente e aisthesis sensibile costitutiva della singolarità nella sua emersione, attendono di corrispondersi nel continuo scambio tra interiorità ed esteriorità, irriducibile a ogni semplicistica correlazione di causa-effetto. Tale processo non è affatto sovrapponibile alla ratio concettuale con le sue categorie logico-causali. Lascia traccia memoriale e irriflessa di sé nell’immaginazione simbolica, capace di restituirne la pertinenza “oggettiva” solo mediante l’illuminazione della metafora, col suo potere di nominare l’innominabile, di estendersi narrativamente e ritualmente nella modalità di un mythos che, guidato dal nomos del voler-bene e dell’affezione, risale oltre i limiti del logos, alle soglie dell’originario, all’umile fondamento della propria dipendenza dall’atto del concepimento. La risalita al fondamento si attua nell’irruzione gratuita del sublime, eccesso di affezione, sospensiva dell’aisthesis immaginativa e della dynamis affettiva proprie del soggetto. L’avvento del sublime, mentre rivela la prossimità del fondamento, interdice paradossalmente ogni tentativo di fondazione, predisponendo a un umile passaggio dalla potenza evocativa del “miracoloso” alla kenosi immaginativa del “sacramentale”, con la sua discesa a scoprire nelle pieghe del mondo la singolare estetica di un divino immanente e nascosto, nell’atto grazioso del suo donarsi senza lasciarsi afferrare.
L’aisthesis del soggetto chiede di essere attivata dal “miracoloso” dell’immagine e dall’esteriorità del simbolico, come risveglio memoriale e riaccensione desiderativa. L’esperienza vertiginosa e sospensiva del sublime la converte al potere performativo più intenso del “sacramentale”, capace di custodire il dono come dono, interdicendone il possesso e impedendo così il risucchio idolatrico, e paradossalmente spiritualizzante, nelle dinamiche di estetizzazione del mondo. Estetica del “miraculum” e anestetica del “sacramentum” intrattengono una relazione incessante, che impedisce tanto lo spiritualismo di una “bellezza” “disincarnata”, quanto il suo degrado in un informe afasico e sfuggente. Il sensibile del miracoloso è autentico solo nella predisposizione/apertura all’inatteso del sacramentale, che mantiene una sua ricevibilità e comunicabilità soltanto nel suo concedersi amabilmente al potere dimesso dell’estetica “convertita” all’umile linguaggio del simbolo e della metafora.
Ecco la reale portata dell’espressione che titola il volume: il sensibile è autentico solo nell’apertura, oltre l’estetica del miracoloso che ritrova le coordinate della memoria e del desiderio, all’inatteso del sacramentale, “vigilando l’istante” dell’umile e discreto passaggio di Dio, con il suo rivelarsi aniconico a una sensibilità disposta alla sorpresa e alla conversione rispetto ai suoi abituali canoni estetici. La lirica di Clemente Rebora, Dell’immagine tesa (1920), in apertura del volume, tocca proprio il delicato rapporto tra il sensibile e l’inatteso.
Queste lezioni di estetica teologica raggiungono un importante traguardo nel percorso di ricerca che Pierangelo Sequeri ha intrapreso da decenni per un rinnovamento della teologia nella direzione aperta dall’approccio “estetico” di Hans Urs von Balthasar. Il teologo milanese vi espone, infatti, in modo sistematico, gli esiti di una lunga indagine, già parzialmente espressi o accennati in altri suoi preziosi contributi, principalmente l’opus magnum Il Dio affidabile (1996), in cui si riconosce, quale defectus principale dell’elaborazione teologica, Balthasar incluso, quell’esclusione della dimensione affettiva che qui è invece messa a tema in modo decisivo. Il lavoro esprime tutta la sua coerenza nel muovere dalla sensibilità iconica di un “mondo estetizzato”, per ritornarvi nella luce di un approdo all’aniconico del “sacramentale”, attraverso un passaggio “fondativo” all’“impensato cristologico”, preparato dalla base filosofica di una rinnovata modalità di “ritorno al fenomeno”. Il percorso, per certi versi, ha l’andamento prima di una “salita” dall’antrolopogico al teologico, poi di una “discesa” alle conseguenze antropologiche scaturite dal teologico, ancorché i due livelli siano, lungo tutta l’opera, strettamente intrecciati e spesso sovrapposti. Il punto di forza di tutta la riflessione sembra situarsi nella riconduzione del sensibile a qualità e funzione dello spirituale e attitudine di una corporeità che porta in sé il riferimento allo spirito, il tutto pervaso da quell’energia affettiva che è a fondamento di una ratio hominis digna e di una giustizia del senso e degli affetti, e si esprime nella capacità pre-concettuale di un’immaginazione metaforica, che fa emergere dall’indistinzione nel grembo magmatico-affettivo originario, il sostrato della memoria e l’orizzonte del desiderio, nella loro energia pro-tensiva, creativa e generativa, che vince la regressione nel risucchio incestuoso e nella tentazione narcisistica. La metafora generativa è la chiave d’accesso al fondamento affettivo dell’umano, con la sua ontologia “sovra-etica” e “sovra-razionale” di un voler-bene così gratuito e “ingiustificabile” da operare efficacemente più nell’ascosità del “sacramentale”, garanzia di libertà responsoriale, che nell’evidenza del “miracoloso”, pur nella sua insostituibile funzione rammemorativo-desiderante.
Sequeri pone così la base per una nuova fenomenologia dello spirito, capace di declinare il voler bene dell’affettività e della giustizia del senso, oltre i limiti della recente fenomenologia della carne. L’ampiezza e la densità delle questioni porta con sé una sovrapposizione di piani che, nella sua ricchezza, fatica tuttavia a mantenere distinti, nel loro complesso rapporto, i due ambiti, antropologico e teologico. Il loro intreccio, coi continui passaggi analogici nell’uso, ad esempio, della metafora della generazione, come pure di quelle del miraculum e del sacramentum, con la loro afferenza a molteplici ambiti, ha una sua efficacia nel declinare la potenza teo-antropologica della pro-affezione. Una più accentuata distinzione avrebbe tuttavia il vantaggio di cogliere lo specifico di un ordine degli affetti trasformato dall’Amore di Dio, rispetto all’orizzonte del voler-bene possibile nel semplice dominio antropologico. Una tematizzazione della singolare esperienza della “grazia” nell’ambito delle affezioni umane consentirebbe di superare il semplice livello dell’analogia, con un rovesciamento catalogico (per dirla con Balthasar) della correlazione tra gli analogati. Una teologia del sensibile aperto all’inatteso potrebbe così meglio evitare il rischio di una costrizione dell’inatteso al regime della sensibilità umana per il senso ed esplicitare, invece, la differenza di un ordine umano degli affetti trasformato dall’irruzione dell’inatteso. Una declinazione, inoltre, della metafora generativa nell’orizzonte trinitario, cristologico e teo-antropologico senza mettere sufficientemente a tema l’estetica “teo-drammatica” del mistero pasquale e dell’affezione generativa dell’Amore crocifisso, è forse indizio del carattere intuitivo e non sufficientemente riflesso di tale sovrapposizione del teologico e dell’antropologico, che non rende pienamente “ragione” della singolarissima estetica pro-affettiva dell’impensato cristologico. Si tratterebbe, in altre parole di procedere, dando centralità all’energia generativo-affettiva della sapientia crucis, a una fenomenologia della conversione teologale nella sua capacità di trasformare l’ordo amoris humanus, con un decisivo passaggio dal teologico spiegato antropologicamente all’antropologico compreso teologicamente. La lezione di Bernard Lonergan ha cercato di includere l’evento della conversione nell’elaborazione teologica, fondando la sua proposta metodologica sulla conversione, originata dall’inatteso dell’irruzione dell’amore di Dio, riversato nel cuore dell’uomo (Rm 5,5). Egli ha così a suo modo posto, facendo tesoro, nel solco di Max Scheler, delle acquisizioni filosofico-fenomenologiche e psicologico-religiose allora a lui disponibili, la realtà dei sentimenti e degli affetti nella dinamica di un’elaborazione teologica capace di oggettivare, nella luce delle fonti rivelate, l’evento della conversione personale, nel suo potere di trasformare l’interiorità del teologo stesso, sino alla conversione dei suoi pensieri e delle sue categorie, a misura della sapienza divina, donata/rivelata nel Crocifisso-risorto. Un incontro tra la teologia estetica elaborata con tanta acribia da Sequeri e la metodologia teologica approntata, nelle sue coordinate essenziali, da Lonergan, potrebbe rivelarsi feconda per rispondere all’attuale estetizzazione del mondo.
L. Bassetti, in
Teresianum 70 (2019/1) 275-283