Carmine Di Sante, originario di Bisenti, è un teologo e biblista di grande esperienza. […] Abbiamo incontrato Di Sante per questa intervista sul suo nuovo libro Il perdono. Nella Bibbia, nella teologia, nella prassi ecclesiale (Queriniana, pp. 176, 12 euro), pubblicato nell'anno del Giubileo della Misericordia.
D: Nel suo libro ll perdono ha affrontato temi difficili e importanti nell'anno che ha concluso Il Giubileo della misericordia indetto da Papa Francesco. Come giudica questo anno giubilare e quali sono a suo avviso le grandi questioni che attraversano il mondo odierno?
R: «L'anno giubilare che si è appena concluso va giudicato positivamente. Il grande sociologo e filosofo Zygmunt Bauman, recentemente scomparso, in una delle sue ultime interviste lamentava l'assenza di leader mondiali capaci di intercettare i problemi e le angosce del mondo contemporaneo, con l'unica eccezione – per lui ebreo e non credente – dell’attuale pontefice. La più drammatica questione di fronte alla quale oggi ci troviamo, che è sotto gli occhi di tutti, è la diseguaglianza abissale tra ricchi e poveri che è alla radice di ogni forma di ingiustizia e violenza. Solo un nuovo ethos potrà contribuire a risolverla: quello della misericordia che sente intollerabile e vergognosa la sofferenza e la miseria altrui ed è la condizione vera e non ingannevole per la creazione di una società giusta e solidale».
D: Di solito abbiamo un rapporto difficile con l'argomento – che sarebbe meglio chiamare prassi – del perdono. Siamo sospettosi perché crediamo che sotto il suo significato si mascheri il perdonismo facile con il conseguente ridimensionamento della giustizia. Come se perdonare equivalesse a dimenticare ciò che è stato commesso. Cosa ne pensa?
R: «Se tutte le parole sono ambigue, questa del perdono lo è più di ogni altra. L'equivoco più grave è di pensare che il perdono coincida con la rimozione o sottovalutazione del crimine commesso. Oppure che sia l'alternativa alla giustizia, come se perdonare il colpevole significasse rinunciarne alla riprovazione e alla condanna. Se cosi fosse il perdono sarebbe immorale e, pertanto, imperdonabile. Il perdono, in realtà, non è né la cancellazione del crimine né la concessione d'impunità al criminale, ma la non identificazione del colpevole con il male fatto, slegandolo dalla sua azione malvagia e facendogli dono della possibilità di tornare ad essere uomo di pace, capace di amare. Per questo il perdono è un iper-dono: perché offre a chi ha fatto il male la possibilità di rinascere realmente una seconda volta, tornando dall'abisso del male allo splendore della bontà e del bene».
D: Nel suo saggio insiste molto sull'insegnamento biblico, antico e nuovo testamento, attraversando le grandi questioni del male, della colpa, della redenzione. Che cosa insegna a noi oggi il messaggio biblico su questi temi?
R: «La storia umana da sempre è segnata dalla violenza e dalla inimicizia: dalla percezione che l'altro da me non è uno come me, che come me è attesa e bisogno di cose buone e relazioni buone, ma una minaccia da cui salvaguardarmi e difendermi. È la nota storia di Caino che uccide Abele. La novità del messaggio biblico è che, se è vero che Caino uccide Abele, questa violenza, per il testo biblico, non si iscrive nella natura umana – come vuole la maggior parte dei miti fondanti, come quello ad esempio di Romolo e Remo – ma nella volontà umana che da volontà per il bene liberamente si è pervertita in volontà per il male. La novità del racconto biblico è di annunciare un umano la cui verità non è quella di essere un lupo per l'altro uomo, secondo la teoria hobbesiana sulla quale si fonda lo stato moderno, ma l'immagine e la somiglianza di un Dio che è Padre e che, appunto perché Padre, istituisce un umano come vocazione – appello e impegno – alla fraternità universale. Utopia e sfida per la quale vale la pena dedicare l'intera propria vita».
D: Antico e nuovo testamento sono in sintonia sul tema del perdono o divergono in maniera significativa?
R: «Una lunga tradizione, frutto dell'antigiudaismo cristiano, ha opposto e ancora oppone il perdono neo-testamentario alle pagine antico-testamentarie come se queste ci testimoniassero un Dio di ira e di vendetta e non di amore e di perdono. Questo pregiudizio, oltre che offensivo del popolo ebraico, lo è soprattutto, come ogni altro pregiudizio, dell'intelligenza cristiana che lo ha alimentato. Il Nuovo Testamento in realtà assume e radicalizza il perdono antico-testamentario escatologizzandolo: leggendo cioè, nella risposta non violenta di Gesù sulla croce a chi lo uccide, l'evento definitivo e ultimo – escatologico appunto – dell’amore divino per l'uomo e dell'amore dell'uomo per l'altro uomo che gli si è fatto nemico. Il crocifisso disarmato, che non restituisce il male e la sofferenza, ma li assume su di sé per amore dell'altro, è l'incarnazione vertiginosa – divina diranno gli autori neotestamentari – della dedizione d'amore per l'altro da sé fino alla sostituzione e alla espiazione: l'unica potenza capace di rendere impotente il male e di instaurare una umanità non violenta, giusta e fraterna».
D: Ho trovato molto interessante la terza parte del libro dedicata alla prassi ecclesiale del perdono. Lei parte dalle tesi del teologo Bernhard Häring, oggi completamente disattese. Perché a suo avviso la Chiesa ha spesso agito male nella pratica della confessione e della penitenza? Perché viene posta tanta enfasi sul peccatore e sulle procedure penitenziali che a volte sfiorano il masochismo? Che rimedio c'è a tutto ciò?
R: «Bernhard Häring è stato uno dei più grandi teologi che ha rinnovato la morale nel secolo scorso, incentrandola sul primato dell'amore gratuito di Dio, e uno dei periti conciliari più apprezzati durante lo svolgimento del Vaticano II. A proposito del sacramento della confessione – che forse più propriamente andrebbe chiamato del perdono – la sua proposta era che si tornasse a fare della celebrazione eucaristica il luogo primario dell'annuncio del perdono divino e della conseguente presa di coscienza del proprio peccato: tradimento del disegno d'amore di Dio sugli uomini e volontà di conversione ad una prassi di giustizia e di pace. Al centro dell'universo liturgico cristiano c'è la celebrazione eucaristica settimanale che nel Nuovo Testamento porta il nome di fractio panis: lo spezzare il pane del Risorto con i suoi discepoli perché lo spezzino per condividerlo tra i molteplici e i diversi. Dotata di forza performativa, la celebrazione eucaristica è contemporaneamente e indissolubilmente annuncio efficace del perdono divino e imperativo incondizionato, per i partecipanti, ad agire come figli dell'unico Padre. Perché tutto questo non è ancora avvenuto? Perché la chiesa – intendendo con questo termine soprattutto la chiesa magisteriale e istituzionale – non è ancora tornata al radicalismo evangelico che pone al centro del suo annuncio l'amore gratuito divino che interpella il cuore di ogni uomo e di cui le chiese sono testimoni ma né proprietarie né inter-mediazioni indispensabili».
V. Di Marco – C. Di Sante, in
La Città. Quotidiano della provincia di Teramo 15 febbraio 2017