Pochi autori sanno ancora parlare con i propri libri all’anima dell’uomo d’oggi come facevano con i loro contemporanei. Thomas Merton appartiene di diritto a quella categoria — i «classici» — che andrebbero riscoperti, non solo dal lettore «forte» ma anche nelle scuole, nelle università e (perché no?) soprattutto nei seminari e nelle facoltà teologiche. Perché la sua capacità di avvincere il lettore trattando i temi più spaiati — lo zen e il buddismo, la mistica e la letteratura, la meditazione monastica e il disarmo nucleare — si coniuga ad una profondità e introspezione d’animo che raggiungono vette somme e disarmanti livelli di stile. En passant: anche la predicazione religiosa trarrebbe un gran giovamento dalla frequentazione più assidua di maestri della parola piena come Thomas Merton, capaci di affilare la comunicazione verbale nel crogiolo purificante del silenzio.
Ora, grazie a una nuova pubblicazione, è possibile entrare ancora più da vicino in una delle molteplici fessure dell’intimo di Thomas Merton: il suo contatto con la natura e il creato. Gli abissi infiniti del cielo (Queriniana, Brescia 2020, pagine 192, euro 16) è un’antologia di testi del celebre monaco («un americano straordinario» lo definì Papa Francesco durante il suo intervento al Congresso Usa) dedicati al contatto e alla contemplazione del creato.
Sono testi anche brevi, raccolti dalla curatrice Kathleen Deignan dalla multiforme produzione mertoniana, molti dei quali mai tradotti in italiano, che custodiscono come in germe la grande narrazione dell’autore della Montagna dalle sette balze. Una pluralità di interventi e occasioni che però sottintendono un’impostazione di fondo: come tutti i grandi mistici, anche Merton ha nel suo rapporto con la natura una relazione intima, profonda, quasi viscerale, proprio perché l’io che si sente creatura di un Creatore sa di essere «connesso» (Laudato si’ dixit) con tutto il creato: con i boschi e la foresta, con il deserto e il cielo stellato, ma anche con la moltitudine di animali che Merton incrocia nel suo eremitaggio nel Kentucky, farfalle e falene, stornelli e corvi, uccelli pigliamosche e gru bianche, il falco, l’anatra bianca, il vireo, la parula, il toro, perfino il crotalo diamantino, «enorme e mostruoso» serpente.
Così l’acutezza delle osservazioni naturalistiche di Merton (guarda caso grandissimo appassionato di fotografia, come testimoniano i suoi sontuosi scatti contenuti in Beholding Paradise, libro fotografico edito da Paulist Press) diventa una cassa di risonanza della sua mistica. Così il mistico si manifesta come colui che vede la santità della natura quale riflesso della santità di Dio: «I fiori pallidi del corniolo fuori da questa finestra sono santi. I fiorellini gialli che nessuno nota sul ciglio di questa strada sono santi che fissano il volto di Dio. Questa foglia ha un suo tessuto, una sua venatura e una sua forma che sono santi, e il pesce persico e la trota che si nascondono in fondo al fiume sono canonizzati dalla loro bellezza e dalla loro forza».
Talvolta lo spirito di osservazione di Merton incrocia mirabilmente l’io orante e la natura circostante: «Tetro giorno in più dell’anno bisestile. Buio, con qualche fiocco di neve, come ieri (mercoledì delle ceneri) che non c’era neve a terra ma nevischiava e i secchi per l’acqua piovana erano quasi pieni. Tutta l’erba è bianca, non a causa della neve, ma della morte… Fiocchi di neve s’incontrano sulle pagine del breviario». Oppure, la natura riporta alla memoria vicende bibliche: «A metà della discesa, in un punto abbastanza riparato, poco prima della pineta, ho trovato un rifugio che Dio mi aveva preparato come il ricino di Giona. Era stato creato proprio per quell’occasione. C’era un tronco d’albero in una piccola radura. Era secco, e un minuscolo cedro vi si curvava sopra ad arco, come una tenda verde, formando una capanna. Mi sono seduto là in silenzio: ho amato il vento della foresta e ascoltato a lungo Dio».
Dalle pluriformi venature di cui è intriso il volume è anche possibile cogliere un fil rouge decisamente mertoniano, potremmo dire conciliare, nella capacità quasi innata di collegare in continuazione la mistica del creato con l’eco — a volte violento e disumano — della storia umana. Sono note le posizioni, fortemente argomentate, di Merton contro la guerra e contro la stessa bomba atomica, vera minaccia apocalittica del suo tempo, gli anni Cinquanta e Sessanta, dopo Hiroshima e Nagasaki. È davvero singolare ed eloquente che anche in pagine in cui Merton comunica al lettore il suo sentire verso la natura faccia spesso capolino il pensiero delle armi, degli armamenti, degli aerei di guerra: «Durante la notte, un sottile strato grinzoso di nubi lassù nel cielo; non riesce ad oscurare del tutto la luna. Si è fatto più spesso con l’avanzare del mattino. Si sente aria di neve. Striature di luce pallida e livida sulle scure colline verso sud. L’aereo militare ha volato basso sulla vallata subito dopo la campana della consacrazione durante la messa convenutale e un’ora più tardi ne è passato un altro ancora più vicino, quasi sopra il monastero. Enorme, perfetto, nefasto, peso massimo in picchiata, grigio, gravido di bombe atomiche ed “elementi-chiave per la pace”». «In quindici minuti tre meteoriti hanno attraversato il cielo in un bagliore. Due mezzi militari sono passati ringhiando e lampeggiando lungo il percorso della cometa, e il cervo ha bramito nel campo buio oltre la siepe. Che fortuna! Ho recitato il Salmo 19, Coeli enarrant, con gioia».
Ancora, a corollario di un’osservazione su un falco che si è precipitato su uno stornello: «Ho cercato di pregare. Ma il falco stava mangiando l’uccellino. E io pensavo a quel volo, in picchiata come un proiettile dal cielo, da dietro di me e sopra il mio tetto; alla mira infallibile con la quale il falco aveva colpito quell’unico uccello, come se lo avesse scelto mentre era un miglio lontano. (...) E ho compreso anche il terribile fatto che certi uomini amino la guerra. Ma penso che il falco dovrebbe essere studiato dai santi e dai contemplativi: poiché sa il fatto suo. Vorrei conoscere il mio mestiere, come lui sa il suo».
Descrizioni mirabili che uniscono l’interiorità del mistico con la presa in carico della storia degli uomini, in particolare del suo lato oscuro, la guerra e la minaccia nucleare. Infine ecco un altro esempio di questo connubio tra la mistica mertoniana e il suo farsi vicino al dramma bellico: «Le colline sono azzurre e calde: c’è un campo scuro e polveroso a fondovalle. Riesco a distinguere il rumore di una macchina, di un uccello, di un orologio. Le nuvole volano alte ed enormi. Tra di esse, l’immancabile aereo: questa volta, probabilmente, pieno di pingui passeggeri in viaggio da Miami a Chicago, ma presto ne passerà uno con la bomba. Ho visto l’aereo che trasporta l’arma atomica volare basso sopra di me e ho guardato oltre la foresta, dritto verso la radura. Come chiunque altro, io vivo sotto la minaccia della bomba». Parola di mistico.
L. Fazzini, in
L’Osservatore Romano 20 novembre 2020, 5