Quando Amos Oz, uno degli scrittori più liberi e creativi di Israele, pubblicò nell’anno della sua morte, il 2018, un romanzo dedicato a Giuda, il traditore di Cristo, rilasciò questa confessione autobiografica: «Ho letto i Vangeli e mi sono innamorato di Gesù, della sua visione, della sua tenerezza, del suo sovrano senso dell’umorismo», e continuava esaltando il fascino del suo sorprendente insegnamento. Tutto vero, anche per chi non è credente: analoghe parole d’amore, ad esempio, aveva riservato a Gesù André Gide.
Quello che, a prima vista, sembra difficile condividere è l’ammirazione per il «sovrano senso dell’umorismo» di Gesù, tant’è vero che un autore medievale, in un latino icastico, non esitava a dichiarare: Flevisse lego, risisse numquam. Certo, Cristo ha pianto per la morte dell’amico Lazzaro, ma il verbo greco gheláô, «ridere», risuona nei Vangeli sulle sue labbra solo nelle Beatitudini in una duplice forma provocatoria: «Beati voi che ora piangete, perché riderete… Guai a voi che ora ridete perché sarete nel dolore e piangerete» (Luca 6, 21.25). Anzi, è lui ad essere «deriso» (katagheláô) in occasione dell’episodio della figlia di Giairo (Matteo 9,18-26).
Sorprende, allora, il fatto che – alle soglie della morte avvenuta nel 2020 a 80 anni – uno dei maggiori neotestamentaristi tedeschi, Klaus Berger, autore di un vero e proprio best-seller, Gesù (quattro edizioni italiane presso la Queriniana), abbia voluto dedicare un intero saggio all’«umorismo di Gesù». Si tratta di un testo tutt’altro che allegorico, basato su un doppio registro che intreccia l’analisi esegetica, teologica e letteraria a un’ermeneutica molto vivida e creativa, affidata in finale anche a un glossario per evitare equivoci sempre in agguato su un soggetto così mobile.
Ecco, allora, la sua definizione dell’umorismo di Gesù: «Capovolgimento di tutto ciò che è altrimenti percepito come serio, minaccioso e capace di incutere paura. È, perciò, distruzione del potere che si pavoneggia e riaffermazione della libertà». Si intuisce che all’egida di questa categoria si rubricano componenti differenti come il paradosso, l’ironia, la critica, la libertà espressiva, il rischio, l’iperbole. A quest’ultimo proposito il ventaglio s’allarga in modo impressionante, mostrando l’abile uso dell’assurdo da parte di Cristo per scompaginare gli stereotipi.
Partiamo già dal titolo del saggio col celebre contrasto tra l’imponente cammello e il minuscolo occhiello dell’ago. Ma si potrebbe continuare a lungo con l’invito sconcertante ad amputarsi occhio, mano, piede, col cieco che diventa guida di ciechi, con lo scorpione o il serpente dato in cibo a un figlio, con la lampada accesa e nascosta sotto una botte, col morto che dovrebbe seppellire i morti, con manciate di perle gettate in cibo ai porci, col filtro che trattiene i moscerini e lascia passare un cammello, col figlio scioperato preferito al primogenito manager nella casa paterna e così via. Tra parentesi, chi non riesce a identificare tutti gli esempi finora proposti è segno che non ha letto integralmente i Vangeli.
Se volessimo scavare in profondità nel significato di questo approccio di Gesù nei confronti della storia, della verità, della stessa morte, degli animali e del potere, il percorso a cui conduce Berger si trasforma in una rilettura inattesa ma non stravagante dei Vangeli. Infatti, il succo dell’annuncio di Cristo, ricostruito attraverso le norme rigorose dell’analisi esegetico-teologica, si ritrova intatto in questo saggio ma con un’incisività e un volto inedito, talora con una causticità (si offre una comparazione persino col pensiero cinico classico) e una grandezza insospettata che il velo dell’umorismo non ottenebra ma esalta.
Trasgressore di tabù, Cristo riesce ad estrarre insegnamenti virtuosi persino dal disdicevole, come il disturbo notturno inflitto a un vicino (Luca 11,5-8), o l’abbandono di un gruppo di ragazze per strada in piena notte (Matteo 25,1-13), o il farsi classificare «mangione e beone» in mezzo a una banda di ghiottoni (Marco 2,18-20). Commenta Berger: «Chi sopporta le provocazioni di Gesù o addirittura le trova edificanti, ha bisogno di senso dell’umorismo, altrimenti rimarrà confuso dinanzi a lui».
Persino alcune scene miracolose rivelano un profilo analogo, come quando alla tempesta che imperversa sul lago egli scaglia questo grido: «Smettila, ora basta!». O come quando immagina la stupefacente acrobazia di un gelso o di una montagna scardinati dalle fondamenta per illustrare il tema della fede pura e radicale (Matteo 17,20; Luca 17,6). Per non parlare poi dei duemila maiali che affogano nel lago di Tiberiade (Marco 5,13). A proposito di animali, sulla scia di una tradizione universale, essi possono diventare maestri di umorismo, dai citati cammelli e porci alle pecore, ai cani, ai pesci, agli uccelli e ai serpenti («siate prudenti come serpenti e semplici come colombe»).
Il concetto di umorismo, inteso in questa forma così lata, diventa quindi per Gesù, secondo Berger, una via simbolica per accendere di potenza e radicalità parole e azioni, appelli e giudizi, vita e morte. È un’epifania dell’umano di Cristo, qualità allargata poi dai Vangeli apocrifi. Ionesco sottolineava che «dove non c’è umorismo, non c’è umanità; dove non c’è questa libertà che ci si prende nei confronti di se stessi e della realtà, c’è il campo di concentramento». E le dittature lo insegnano con la loro allergia a ogni ironia.
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 19 giugno 2022, XII