Solitudine come benedizione o maledizione? Condizione nella quale la nostra personalità pian piano si autodistrugge o dove invece sviluppa il massimo delle sue potenzialità? Infine, come rapportarsi con essa? Tanti quesiti che emergono da Silenzio e solitudine nel ritmo della vita del famoso monaco benedettino Anselm Grün che ha al suo attivo moltissimi titoli sempre stimolanti.
Il problema della solintudine (citerò solo la solitudine, per non appesantire questa recensione, ma sappia il lettore che solitudine e silenzio procedono sottobraccio per tutto il libro) è uno di quei problemi con il quale ognuno deve prima o poi rapportarsi, e non parlo di quella particolare solitudine - più o meno inaspettata - dovuta a un evento luttuoso, bensì di quella ontologica che ognuno porta in sé. E allora, secondo Anselm Grün, è necessario affrontare l'argomento di petto, per primi e per tempo, in modo da saperlo poi gestire al meglio e nella maniera più proficua per lo sviluppo della nostra vita interiore. […]
Vorrei condividere con chi mi legge alcune tematiche che mi hanno particolarmente colpito, sulle quali di tanto in tanto torno a riflettere. Il primo filone che ho scoperto è stato considerare il nostro percorso terreno come un cammino che conduce all’attimo finale, nel quale si sperimenterà la solitudine assoluta. Al momento della morte, non importerà se e quante persone care avremo accanto a noi e quante, vicine e lontane, per usare un linguaggio un po' demodé, staranno pregando per noi e se ci sarà qualcuno che ci terrà con affetto la mano. L'ultimo istante, quello nel quale ci verrà svelata la completa e totale verità su noi stessi, senza ulteriori possibilità di infingimenti o dilazioni, sarà solo e tutto nostro. […]
Il secondo aspetto, che mai nella disanima della solitudine avevo percepito, è il suo rapporto con l’umiltà. Grazie all'autore ho scoperto che l'umile ben difficilmente diventa solo, a meno che non ne faccia una precisa scelta. Egli sa cercare la vicinanza degli altri, sa esprimere il desiderio di stare con gli altri e, se del caso, offrire o chiedere aiuto, conforto. La solitudine è uno dei frutti avvelenati dell'orgoglio, quello che spinge a negare, a rifiutare il rapporto con altre persone, sulla base di più o meno reali torti subiti. Un po’ come un bambino che, sgridato, si allontana da genitori e compagni, si chiude in un volontario astioso mutismo per punire parenti o amici. Ma ciò che in un bambino è accettabile (un atteggiamento deleterio andrebbe però corretto per tempo), nell'adulto tende a trasformarsi in una spirale perversa per la quale più uno si chiude in uno sdegnoso mutismo, più gli altri si allontaneranno da lui; e più gli altri si allontaneranno, più cupo sarà il mutismo dell’orgoglioso, il suo deciso negare anche solo l'ipotesi di riallacciare rapporti almeno umani. Emblematica la frase: «Dopo quello che mi ha fatto, per me è morto/a». […]
«Leggere e scrivere sono due attività che mi mantengono vivo» (p 68) scrive Grün all'interno del capitolo nel quale tratta come gestire la propria solitudine, arricchendola di interessi: una frase sottoscrivibile da collaboratori e lettori anche del Gallo. Ridotte dimensioni e ricchezza di contenuti sono un invito alla lettura per tutti: si legge gradevolmente, ma, per apprezzarlo, occorre non aver fretta e centellinarlo un poco per volta come si fa con un buon vino.
E. Gariano, in
Il Gallo 5/2016, 20