La morale cristiana non sarebbe morale se non fosse liberamente agita dall'uomo e non sarebbe cristiana se non fosse veramente in rapporto con Cristo. Libertà umana e verità cristiana sono gli ingredienti imprescindibili che la teologia morale è chiamata a "cucinare", rendendo ragione del loro rapporto. La discussione sulla "ricetta" che meglio assolve a tale compito ha visto opporsi, già subito a seguito del concilio Vaticano II, i due fronti di chi, valorizzando la libertà umana, sottolinea l'autonomia della morale cristiana, e chi, richiamando alla verità cristiana, afferma la teonomia della morale cristiana. La discussione teologica ha indotto l'intervento magisteriale dell'enciclica Veritatis splendor, la quale, allo scopo di scongiurare il pericolo «di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità», ha inteso riaffermare la «fondamentale dipendenza della libertà dalla verità» (n. 34). La recezione dell'enciclica ha tuttavia ulteriormente irrigidito i due fronti, di cui sono emblematica espressione i due testi, tradotti dal tedesco, e qui brevemente recensiti. Pur non essendo i due autori teologi morali, il loro dibattito attiene ai fondamenti stessi della morale cristiana.
Il primo testo di Karl-Heinz Menke, già docente di teologia dogmatica teologica all'Università di Bonn, oppone fin dal titolo la verità che rende liberi alla libertà che rende veri, perorando la prima posizione contro la seconda. Lo scritto espressamente polemico di Menke è antitetico alla tesi che Magnus Striet, docente di teologia fondamentale a Frlburgo, in collaborazione con Stephan Goertz, docente di teologia morale a Mainz, va promuovendo attraverso la collana di volumi Katholizismus im Umbruch, pubblicata presso l'editrice Herder. La loro tesi è che a seguito della modernità, affermatasi con Kant, la libertà deve essere riconosciuta nella sua autonomia. L’autonomia della libertà, per la quale essa determina da sé la verità, non negherebbe la teonomia della verità, poiché «se Dio esiste e se egli è come lo testimonia la Bibbia - deducono Goertz e Striet all'unisono - egli vuole ciò che comanda la ragione pratica che giudica in autonomia» (I,19). L’autonomia della libertà nemmeno scadrebbe nell'arbitrio individualista, poiché chi attribuisce dignità incondizionata alla propria libertà, deve riconoscerla alla libertà altrui.
La determinazione della verità da parte della libertà Implica che la libertà determini anche che cosa sia peccato e che cosa sia moralmente comandato. Il criterio dell'agire morale proposto da Striet prevede che «ciò che è amato e ciò che non interviene nel diritto alla libertà degli altri ed è necessariamente voluto nell'istanza della libertà formalmente incondizionata per il bene dell'altra persona, può essere vissuto» (II,81).
Opponendosi alla concezione autonoma della libertà, Menke argomenta che «la verità si identifica con una persona, cioè con la persona di Gesù Cristo» (I,94), il Lógos di Dio. Il lógos divino si comunica all'uomo attraverso la coscienza, la quale è duplicemente descrivibile, sulla scorta di J.H.Newman e dell'enciclica Veritatis splendor, come voce divina che comanda (sense of duty) e come giudizio della ragione pratica (moraI sense). L'obbedienza alla coscienza, in quanto voce di Dio, mette l'uomo in comunicazione con la verità cristiana. Il giudizio di coscienza, in quanto operato dalla ragione umana, dispone a operare secondo la verità cristiana. Alla fallibilità del giudizio di coscienza, dati i limiti creaturali e i difetti morali dell'uomo, rimedia la Chiesa, la quale, in quanto traditio apostolica e successio apostolica, è il sacramento fondamentale della verità che è Gesù Cristo. La conoscenza della verità percepita nella soggettività della coscienza e testimoniata dall'oggettività della Chiesa è la medesima, poiché medesimo è il Dio all'origine della coscienza personale e della comunità ecclesiale.
L'argomentazione di Menke contempla anche una rivisitazione della Riforma di Lutero, allo scopo di contestare coloro che rinvengono in essa il capovolgimento del primato della verità sulla libertà e la assumono per accreditare l'autonomia della libertà. Producendosi in una recensione storica dell'interpretazione della concezione della libertà in Lutero, Menke conclude affermando che «quando il Riformatore spiega il rapporto dell'uomo con Dio, non parla di autonomia ma, al contrario, di obbedienza della fede. [...] L’intuizione originaria della Riforma non ha nulla in comune con ciò che Striet e Goerzt esigono per l'entrata del cristianesimo nella modernità» (I,183).
Lo scritto polemico di Menke ha presto suscitato la replica di Striet, che con altrettanta vis polemica ha inteso ribadire l'autonomia della libertà come irrinunciabile principio di una teologia al passo della modernità. La ragione moderna rinuncia alla pretesa di conoscere con certezza la verità divina, dalla quale poi dedurre la legge della libertà. Il concetto di ragione di cui dispone l'uomo moderno corrisponde al «concetto di una libertà finita che conosce la propria limitatezza e il proprio legame storico» (II,32). Con tale ragione l'uomo può approdare solamente al «Dio che è possibile pensare» e non, come sostiene Menke, giungere al «Dio reale» (II, 16) sino ad assumere la «prospettiva divina» (II,33) sulla libertà dell'uomo.
Per abbattere la posizione di chi, come Menke, ritiene di poter comprendere la libertà a partire dalla verità, Striet argomenta contro la concezione della coscienza «come splendor veritatis o come una "antenna" della percezione della voce dì Dio» (I,41) e contro la concezione della Chiesa che rimedia alla fragilità creaturale e morale dell'uomo nella conoscenza della verità pratica. Contro la concezione della libertà che, nell'intimità della coscienza, percepirebbe la voce divina e quindi la sua dipendenza dalla verità cristiana, Striet sostiene la necessità che, per quanto sfuggente alla ragione, «la libertà finita deve avere una causa auto-originale, [...] così da poterle attribuire veramente la possibilità dell'auto-determinabilità attraverso se stessa» (ll,83·84).
Rispetto alla chiesa, Striet non ne contesta la concezione sacramentale e apostolica, ma osserva che vi è «molto spazio per comprendere cosa significa essere apostolico e che cosa questo richiede di strutture per arrivare a decisioni responsabili» (II,111). A riguardo poi della necessità della chiesa per evitare che la libertà scivoli nel male, si osserva che tra i bastioni eretti dalla chiesa contro la modernità, il principale da abbattere «è il sospetto, profondamente radicato nella chiesa, che la libertà umana finisca necessariamente nell'arbitrio sfrenato se non si sottomette all'istanza di un magistero, se non è posta sotto la certezza di Dio» (II,40).
È senz'altro vero che la libertà può essere abusata, ma quale alternativa vi sarebbe? Quella di eliminarla? La necessità della chiesa per trattenere l'uomo dal male presuppone che il male presente nel mondo sia tutto riconducibile alla libertà degli uomini. In realtà, la presenza del male nel mondo, pur a fronte dell'amore incondizionato di Dio, rivelato da Gesù sulla croce, lascia in una «cruda incomprensione» (II, 105). Il problema della teodicea non è risolvibile dall'uomo e la sua soluzione può soltanto essere rimessa a Dio.
La replica di Striet riguarda anche l'interpretazione della Riforma proposta da Menke, il quale esclude che Lutero sia il promotore della libertà autonoma in epoca moderna. Striet concorda con Menke nell'escluderlo, ma sul presupposto che Lutero non è per niente moderno, restando ingessato nella teologia tradizionale. «Lutero non ha niente a che vedere con il pensiero nuovo della libertà, il suo padre della Chiesa è Agostino» (ll,125). Egli mutua da Agostino il pessimismo antropologico legato al peccato originale, che compromette irrimediabilmente la libertà dell'uomo, il quale può essere giustificato per sola gratia. In questa ottica, «Lutero non rappresenta un'anticipazione di Kant, ma la reincarnazione di Agostino» (ll,140).
La polemica attestata dai due contigui volumi della collana Giornale di teologia contrappone la teonomia della verità, sostenuta da Menke, all'autonomia della libertà, rivendicata da Striet. l due volumi, scritti entrambi come antitesi alla tesi altrui, si concentrano su una delle due variabili in gioco - la verità o la libertà - perorandone il primato ed evidenziando i limiti dell'altra variabile.
Una disposizione meno polemica e più dialogica esigerebbe che entrambi gli attori meglio illustrino come pongano in relazione le due variabili, evitando di finire nella pura autonomia della libertà, che non riconosce alcuna teonomia della verità, o nella mera teonomia, che non riconosce alcuna autonomia alla libertà.
Da questo punto di vista la riflessione di Menke, come egli esplicitamente dichiara nelle battute finali del suo testo, dovrebbe inoltrarsi nella teologia di H.U. von Balthasar, e la riflessione di Striet sembrerebbe dover considerare non solo Kant, ma quanto meno anche la sua assunzione critica in teologia, come, emblematicamente, in K. Rahner.
Il compito di rendere ragione della interazione di verità e libertà ha conosciuto peraltro significativi sviluppi nell'ambito specifico della teologia morale a seguito del concilio Vaticano II, giungendo a prospettare, per esempio, un'«autonomia teonoma» (F. Böckle) o una «morale autonoma in contesto cristiano» (A. Auer), e poi ulteriormente a pensare la relazione di verità e libertà in chiave trascendentale-ermeneutica (K. Demmer) o fenomenologica (G. Angelini). A fronte di questi sviluppi, la polemica tra Menke e Striet (Goerzt), sembra comprovare che «il pomo della discordia è sempre l'autonomia» (II,90). L’intelligenza critica del rapporto tra la libertà umana e la verità cristiana, da sempre sottesa alla riflessione teologico-morale, rappresenta la questione fondamentale dell’odierna teologia morale.
A. Fumagalli, in
Teologia 3/2021, 491-493