Uno degli incipit più belli della storia della filosofia è forse quello del Mondo come volontà e rappresentazione, laddove Schopenhauer scrive: «Quel che per mezzo [del mio libro] io voglio comunicare è un unico pensiero. Eppure, nonostante ogni mio sforzo, non m'è riuscito, per esporlo, di trovar altra via più breve di questo intero libro» (Mondadori, Milano 2007, p. 5). Ecco, qualche cosa del genere potrebbe valere anche per Tempo e Dio del teologo austriaco K. Appel che, in 200 pagine dense e fitte, riesce a ripensare in maniera teologicamente concreta il concetto di tempo. Concretezza che, almeno in parte, l'autore intende alla maniera di Hegel.
Appel apre l’Introduzione esponendo lo scopo del libro, affermando che egli vuole «testimoniare» una «concezione festiva del tempo» (p. 5). La maniera biblica di intendere il tempo è presa come paradigma alternativo rispetto alla concezione maggioritaria del tempo in vigore nel pensiero occidentale (filosofico ma anche, e soprattutto, quotidiano): il tempo come linea di punti consecutivi che dilegua verso l'infinito, che ha origine da un non-si-sa-quando remoto alle spalle degli uomini e che si estingue in un nulla.
AI tempo oggettivo dell’orologio e all'eternità persa nel cielo, ferma e fissa, dove abiterebbe un Dio troppo solitario, l'autore vuoi contrapporre un tempo soggettivo inteso come festa, cioè un «luogo in cui può rivelarsi il significato del nome biblico di YHWH», alla quale «è invitata tutta la creazione, sia i vivi che i morti» (p. 5). Proprio il nome di Dio nella forma del tetragramma sacro è la chiave ermeneutica privilegiata, insieme al testo biblico nel suo complesso, per sviluppare questa concezione concreta del tempo. L'autore prosegue scrivendo: «Questo lavoro è infatti da intendersi come riflessione sul nome biblico YHWH, il cosiddetto tetragramma. Questo nome, al contrario di tutto il testo biblico, non è stato vocalizzato e rimane impronunciabile. Dal momento che esso è il centro della Scrittura, rimanda nella sua impronunciabilità al fatto che la Bibbia non si riferisce direttamente a una realtà fuori dal testo, ma è consapevole che il nucleo traumatico della realtà e del soggetto chiede un differimento (spostamento, cambiamento, metánoia, Verschiebung)di una prospettiva che separa gli eventi dalle loro rappresentazioni immediate: finisce dunque la possibilità di rappresentare la Scrittura tramite accadimenti puramente "oggettivi". I racconti della Bibbia non narrano un passato raffigurabile e non si riferiscono direttamente ad esso. Il canone non considera il mondo un evento oggettivabile, ma un testo di cui decodifica il significato in quanto chiama il lettore ad essere il soggetto della sua storia. Per questo il mondo e il suo tempo non sono un insieme di avvenimenti oggettuali che si riferiscono tra loro a vicenda. Questo testo nel quale il mondo viene aufgehoben (elevato, conservato, reso inoperoso/cancellato) è più reale di ogni realtà direttamente rappresentabile» (pp. 5-6).
Il tempo come festa diventa allora la serie infinita delle attualizzazioni possibili del nome di Dio nella concretezza della vita soggettiva. E dunque, Dio «non va pensato né come sottomesso alla fugacità del tempo né come atemporale, anzi, tutto concorrerà a far pensare Dio come tempo affettivo e soggettuale e il tempo come Dio»(p. 8; per una ricapitolazione conclusiva della prospettiva del testo, cfr. pp. 203-204). In termini teologicamente più stretti, l'autore scrive che «la tesi che intendo difendere in questo libro» è che «il tempo del mondo è inserito nel tempo della storia della salvezza» (p. 26). Queste citazioni abbastanza estese, oltre a mostrare quale sia lo scopo del libro, mostrano al lettore anche quale sia lo stile della prosa di Appel, che ha qualcosa del jargon heideggeriano, dell'ermeneutica del secondo Novecento, con un pizzico di dialettica hegeliana.
Il concetto di tempo porta con sé tre aporie, che l'autore, sulla scia di Ricœur, Tempo e racconto,enuclea all'inizio della propria trattazione. La prima aporia è quella tra tempo fenomenico (cioè il tempo della coscienza personale) e tempo fisico – potremmo dire: tempo soggettivo vs tempo oggettivo naturale. La seconda aporia è quella tra la pluralità delle narrazioni e il tempo come singolare collettivo – potremmo dire: i tempi soggettivi e il tempo oggettivo storico, ovvero il tempo della storia dell'umanità. La terza aporia, infine, è quella tra le indagini che si occupano del tempo e il loro essere situate nel tempo – l'aporia tra il pensare il tempo e l'essere nel tempo mentre si pensa (pp. 15-16). Anche alla luce di queste aporie si rende necessario, appunto, un concetto concreto di tempo.
Il percorso argomentativo del testo, abbastanza curioso, consta di un primo e di un ultimo capitolo più propriamente teologici: tra di essi, nella parte centrale, si snoda invece un percorso in certo modo storico-filosofico, che inverte l'ordine cronologico e passa attraverso Leibniz, Kant, Heidegger, lo Schelling tardo e quindi Hegel, che qui fa la parte del leone. Proprio riguardo a Hegel troviamo scritto che «le concezioni hegeliane di Dio e del tempo possono fornire una base adeguata per l'interpretazione del nome biblico di Dio e dell'idea, in esso implicita, del tempo e della storia» (p. 108. ma cfr. anche p. 136). Scrive pure l'autore: «In questo lavoro verrà elaborata – sulla base di una ripresa dei pensieri filosofici (e teologici) fondamentali di Leibniz, Kant, Heidegger, Schelling e Hegel – una dialettica di tempo ed eternità nella quale non solo il tempo è momento dell'eternità, ma anche quest'ultima momento del tempo» (p. 14; per una spiegazione diffusa della struttura del lavoro. cfr. par. 7, pp, 19ss.).
Si può certo ricordare quel bel distico del Faust di Goethe che recita: «Werd ich zum Augenblicke sagen: / Verweile doch! du bist so schön!». La concezione di Appel è certamente tutto l'opposto di una concezione faustiana del tempo: ha però certamente il concetto di attimo, nel senso di kairós,al proprio centro. Se Chronos,il tempo che corre, divora i suoi figli, il kairós riporta perfino in vita i morti. Infatti, come ripete Appel più volte, il tempo cairologico, il tempo inteso come festa e pienezza, non conosce passato e futuro come un al di qua e un al di là: tutto è ricapitolato in un presente aperto e pieno di presenza. La stessa escatologia, allora, non si rivolge a un éschaton differito chissà quando nel futuro, ma evangelicamente al regno di Dio che è già qui in mezzo a noi.
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Bisogna pure menzionare, da ultimo, due aspetti che guardano per così dire storicamente l'impresa teologica di Appel: da una parte, il confronto con i teologi, ma anche con i filosofi, contemporanei; dall'altra, il confronto con la teologia cattolica ufficiale. Per un verso, Appel sembra porsi, pur con tutte le cautele del caso, su quella linea che si potrebbe chiamare di teologia della processualità,le cui radici riposano nella filosofia classica tedesca, e che più di recente ha avuto il proprio esponente più famoso in Teilhard de Chardin – senza però dimenticare, accanto a lui, Hans Küng e Hans Jonas e, in Italia, forse Pietro Prini e Vito Mancuso. Si può riassumere questa compagine varia di pensatori sotto un paio di tesi programmatiche, l'una negativa, l'altra positiva.
La tesi negativa suonerebbe grossomodo così: bisogna abbandonare la dicotomia tra tempo ed eternità, secondo la quale la verità starebbe nell'eternità, escludendo così ogni possibilità di un confronto serio con iI presente e di un rinnovamento della teologia. La tesi positiva suonerebbe all'incirca così: bisogna sviluppare un'idea di Dio in cammino nella storia e in sintesi con essa o, almeno, bisogna procedere a dialogare senza sosta e a trovare punti di accordo con l'avanguardia più avanzata del pensiero scientifico, filosofico e religioso, mettendo a tema anche i problemi dell'inculturazione del messaggio cristiano e delle sue implicazioni sociali e politiche. Sulle fonti e sui rimandi di Appel ad altri pensatori contemporanei vi sarebbe ancora molto da dire, ma voglio almeno segnalare che, tra le righe, si trova una presenza abbastanza costante di Slavoj Žižek (infatti, oltre a essere sulla linea di una rilettura di Hegel, entrambi condividono almeno una concezione "aperta", non oggettivistica del tempo – quello che per Appel è il kairós per Žižek è l'evento –, e ci sono pure affinità nel modo in cui considerano il soggetto, mettendo tanto l'accento sulla intersoggettività quanto, e soprattutto, ponendo al cuore del soggetto un nucleo traumatico, o una rottura, da cui si origina la sua attività libera).
Anche rispetto al confronto di Appel con la teologia cattolica non posso che essere molto sintetico. Desidero comunque mettere in evidenza due punti critici: 1. l'impostazione di Appel comporta un profondo cambio di paradigma nella discussione teologica rispetto alla teologia neo-tomista che ha il proprio organon nel lumen naturale e si fonda su una certa forma di naturalismo e di realismo. La posizione di Appel è evidentemente lontana toto coelo da tutto questo, e sarebbe più che interessante sentire una sua parola sulla questione e, in generale, sullo statuto epistemologico della teologia come scienza; 2. per quanto riguarda l'esegesi del testo sacro, Appel ha certamente ragione quando rifiuta una lettura puramente letteralista delle Scritture, ed è pure interessante l'uso che egli fa delle posizioni hegeliane per giustificare questo punto. A partire da ciò, egli spiega molto bene, per esempio, il senso dei proclami apocalittici che si trovano sparsi qua e là nei vangeli e che lasciano perplesso il lettore moderno, il quale si chiede, insomma, perché mai iI mondo non sia già finito. Egli legge questi annunci non in senso cronologico, ma appunto in senso cairologico (pp. 164-165). Ed è pure degno di nota il modo in cui Appel interpreta il fatto che i vangeli non parlino mai dell'aspetto fisico di Gesù: «Non abbiamo descrizioni esteriori di Gesù, non perché non ci fossero stati testimoni della sua esistenza, ma perché la sua dimensione sensibile trascende i suoi tratti fisici. Chi vuoI comprendere sensibilmente Gesù deve mettersi alla sua sequela» (p. 124).
Qui si rischia, però, di imboccare una china scivolosa. Certi fatti narrati dalle Scritture non devono necessariamente essere intesi come fatti storici?Mi riferisco, evidentemente, almeno ai due fatti centrali del cristianesimo: l'incarnazione e la resurrezione di Cristo. Se anche di questi si dà una lettura non fattuale, non si rischia di perdere ogni specificità e ogni senso dell'essere cristiani? Sono molti i punti in cui il libro di Appel propone un'interpretazione volta a togliere (aufhehen,direbbe lui) la storicità fattuale della narrazione (cfr. ad esempio pp. 177-178, 182 e 207), e qualche riserva è da lui portata anche nei confronti del metodo storico-critico (cfr. p. 183 nota 27). Tuttavia, rinunciare a un minimo di storicità fattuale significa sia correre il rischio di far svanire la specificità del cristianesimo, sia anche rinunciare a un terreno di verificazione possibile sul quale, proprio attraverso il metodo storico-critico, si possa mostrare la maggiore attendibilità che il testo biblico ha rispetto a testi di altre confessioni religiose, come il Libro di Mormon o la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture.
A. Loffi, in
Humanitas 2-3/2019, 484-489