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Tempo e Dio
Kurt Appel

Tempo e Dio

Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling

Prezzo di copertina: Euro 28,00 Prezzo scontato: Euro 26,60
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 187
ISBN: 978-88-399-0487-4
Formato: 16 x 23 cm
Pagine: 240
© 2018

In breve

Postfazione di Pierangelo Sequeri

Una sorprendente teoria teologica del tempo, che dimostra come l’eternità sia qualifica intrinsecamente liturgica e come il passato sia una dimensione sempre da riscrivere. Un modo inaspettato di guardare al Dio cristiano che si dona come nostro ospite nel tempo.

Descrizione

In questo importante lavoro, Kurt Appel elabora una teoria teologica del tempo, mostrandone il ruolo centrale nella concezione di Dio da parte della filosofia speculativa – da Leibniz a kant, da Hegel all’ultimo Schelling. Il concetto di tempo si mostra così come una chiave decisiva per la comprensione di questi due complessi sistemi di pensiero, la filosofia e la teologia.
Il tempo al quale noi normalmente pensiamo, quello lineare e meccanico dell’orologio, scorre uniforme e indefinito, sempre uguale. È una continuum senza qualità di sorta, neutrale e asettico, del tutto indifferente: e pretende di dettar legge. Indagando il rapporto esistente fra il tempo della rivelazione (nel paradigma biblico) e il tempo secolarizzato (del paradigma post-moderno), Appel mette in scacco i presupposti di quest’ultimo. Mostra come la concezione del tempo cronologico in eterna espansione sia del tutto insufficiente. E svela come il senso del tempo aperto dalla creazione di Dio e occupato dall’intimità di Dio risieda «nelle infinite costellazioni dell’affezione che fanno il mondo degno di essere vissuto e il regno di Dio ospitale per una creatura realmente finita» (P. Sequeri). L’eternità, in questo scenario, risulta momento di un tempo intrinsecamente liturgico, nel cui passato – aperto e sempre da riscrivere – ci perviene il nome di Dio, e la cui dignità risiede nella vulnerabilità, nell’indisponibilità e nell’apertura dell’essere.
Una sorprendente teoria teologica del tempo. Un modo inaspettato di guardare al Dio cristiano che si dona come nostro ospite nel tempo.

Recensioni

Uno degli incipit più belli della storia della filosofia è forse quello del Mondo come volontà e rappresentazione, laddove Schopenhauer scrive: «Quel che per mezzo [del mio libro] io voglio comunicare è un unico pensiero. Eppure, nonostante ogni mio sforzo, non m'è riuscito, per esporlo, di trovar altra via più breve di questo intero libro» (Mondadori, Milano 2007, p. 5). Ecco, qualche cosa del genere potrebbe valere anche per Tempo e Dio del teologo austriaco K. Appel che, in 200 pagine dense e fitte, riesce a ripensare in maniera teologicamente concreta il concetto di tempo. Concretezza che, almeno in parte, l'autore intende alla maniera di Hegel.

Appel apre l’Introduzione esponendo lo scopo del libro, affermando che egli vuole «testimoniare» una «concezione festiva del tempo» (p. 5). La maniera biblica di intendere il tempo è presa come paradigma alternativo rispetto alla concezione maggioritaria del tempo in vigore nel pensiero occidentale (filosofico ma anche, e soprattutto, quotidiano): il tempo come linea di punti consecutivi che dilegua verso l'infinito, che ha origine da un non-si-sa-quando remoto alle spalle degli uomini e che si estingue in un nulla.

AI tempo oggettivo dell’orologio e all'eternità persa nel cielo, ferma e fissa, dove abiterebbe un Dio troppo solitario, l'autore vuoi contrapporre un tempo soggettivo inteso come festa, cioè un «luogo in cui può rivelarsi il significato del nome biblico di YHWH», alla quale «è invitata tutta la creazione, sia i vivi che i morti» (p. 5). Proprio il nome di Dio nella forma del tetragramma sacro è la chiave ermeneutica privilegiata, insieme al testo biblico nel suo complesso, per sviluppare questa concezione concreta del tempo. L'autore prosegue scrivendo: «Questo lavoro è infatti da intendersi come riflessione sul nome biblico YHWH, il cosiddetto tetragramma. Questo nome, al contrario di tutto il testo biblico, non è stato vocalizzato e rimane impronunciabile. Dal momento che esso è il centro della Scrittura, rimanda nella sua impronunciabilità al fatto che la Bibbia non si riferisce direttamente a una realtà fuori dal testo, ma è consapevole che il nucleo traumatico della realtà e del soggetto chiede un differimento (spostamento, cambiamento, metánoia, Verschiebung)di una prospettiva che separa gli eventi dalle loro rappresentazioni immediate: finisce dunque la possibilità di rappresentare la Scrittura tramite accadimenti puramente "oggettivi". I racconti della Bibbia non narrano un passato raffigurabile e non si riferiscono direttamente ad esso. Il canone non considera il mondo un evento oggettivabile, ma un testo di cui decodifica il significato in quanto chiama il lettore ad essere il soggetto della sua storia. Per questo il mondo e il suo tempo non sono un insieme di avvenimenti oggettuali che si riferiscono tra loro a vicenda. Questo testo nel quale il mondo viene aufgehoben (elevato, conservato, reso inoperoso/cancellato) è più reale di ogni realtà direttamente rappresentabile» (pp. 5-6).

Il tempo come festa diventa allora la serie infinita delle attualizzazioni possibili del nome di Dio nella concretezza della vita soggettiva. E dunque, Dio «non va pensato né come sottomesso alla fugacità del tempo né come atemporale, anzi, tutto concorrerà a far pensare Dio come tempo affettivo e soggettuale e il tempo come Dio»(p. 8; per una ricapitolazione conclusiva della prospettiva del testo, cfr. pp. 203-204). In termini teologicamente più stretti, l'autore scrive che «la tesi che intendo difendere in questo libro» è che «il tempo del mondo è inserito nel tempo della storia della salvezza» (p. 26). Queste citazioni abbastanza estese, oltre a mostrare quale sia lo scopo del libro, mostrano al lettore anche quale sia lo stile della prosa di Appel, che ha qualcosa del jargon heideggeriano, dell'ermeneutica del secondo Novecento, con un pizzico di dialettica hegeliana.

Il concetto di tempo porta con sé tre aporie, che l'autore, sulla scia di Ricœur, Tempo e racconto,enuclea all'inizio della propria trattazione. La prima aporia è quella tra tempo fenomenico (cioè il tempo della coscienza personale) e tempo fisico – potremmo dire: tempo soggettivo vs tempo oggettivo naturale. La seconda aporia è quella tra la pluralità delle narrazioni e il tempo come singolare collettivo – potremmo dire: i tempi soggettivi e il tempo oggettivo storico, ovvero il tempo della storia dell'umanità. La terza aporia, infine, è quella tra le indagini che si occupano del tempo e il loro essere situate nel tempo – l'aporia tra il pensare il tempo e l'essere nel tempo mentre si pensa (pp. 15-16). Anche alla luce di queste aporie si rende necessario, appunto, un concetto concreto di tempo.

Il percorso argomentativo del testo, abbastanza curioso, consta di un primo e di un ultimo capitolo più propriamente teologici: tra di essi, nella parte centrale, si snoda invece un percorso in certo modo storico-filosofico, che inverte l'ordine cronologico e passa attraverso Leibniz, Kant, Heidegger, lo Schelling tardo e quindi Hegel, che qui fa la parte del leone. Proprio riguardo a Hegel troviamo scritto che «le concezioni hegeliane di Dio e del tempo possono fornire una base adeguata per l'interpretazione del nome biblico di Dio e dell'idea, in esso implicita, del tempo e della storia» (p. 108. ma cfr. anche p. 136). Scrive pure l'autore: «In questo lavoro verrà elaborata – sulla base di una ripresa dei pensieri filosofici (e teologici) fondamentali di Leibniz, Kant, Heidegger, Schelling e Hegel – una dialettica di tempo ed eternità nella quale non solo il tempo è momento dell'eternità, ma anche quest'ultima momento del tempo» (p. 14; per una spiegazione diffusa della struttura del lavoro. cfr. par. 7, pp, 19ss.).

Si può certo ricordare quel bel distico del Faust di Goethe che recita: «Werd ich zum Augenblicke sagen: / Verweile doch! du bist so schön!». La concezione di Appel è certamente tutto l'opposto di una concezione faustiana del tempo: ha però certamente il concetto di attimo, nel senso di kairós,al proprio centro. Se Chronos,il tempo che corre, divora i suoi figli, il kairós riporta perfino in vita i morti. Infatti, come ripete Appel più volte, il tempo cairologico, il tempo inteso come festa e pienezza, non conosce passato e futuro come un al di qua e un al di là: tutto è ricapitolato in un presente aperto e pieno di presenza. La stessa escatologia, allora, non si rivolge a un éschaton differito chissà quando nel futuro, ma evangelicamente al regno di Dio che è già qui in mezzo a noi.

 […]

Bisogna pure menzionare, da ultimo, due aspetti che guardano per così dire storicamente l'impresa teologica di Appel: da una parte, il confronto con i teologi, ma anche con i filosofi, contemporanei; dall'altra, il confronto con la teologia cattolica ufficiale. Per un verso, Appel sembra porsi, pur con tutte le cautele del caso, su quella linea che si potrebbe chiamare di teologia della processualità,le cui radici riposano nella filosofia classica tedesca, e che più di recente ha avuto il proprio esponente più famoso in Teilhard de Chardin – senza però dimenticare, accanto a lui, Hans Küng e Hans Jonas e, in Italia, forse Pietro Prini e Vito Mancuso. Si può riassumere questa compagine varia di pensatori sotto un paio di tesi programmatiche, l'una negativa, l'altra positiva.

La tesi negativa suonerebbe grossomodo così: bisogna abbandonare la dicotomia tra tempo ed eternità, secondo la quale la verità starebbe nell'eternità, escludendo così ogni possibilità di un confronto serio con iI presente e di un rinnovamento della teologia. La tesi positiva suonerebbe all'incirca così: bisogna sviluppare un'idea di Dio in cammino nella storia e in sintesi con essa o, almeno, bisogna procedere a dialogare senza sosta e a trovare punti di accordo con l'avanguardia più avanzata del pensiero scientifico, filosofico e religioso, mettendo a tema anche i problemi dell'inculturazione del messaggio cristiano e delle sue implicazioni sociali e politiche. Sulle fonti e sui rimandi di Appel ad altri pensatori contemporanei vi sarebbe ancora molto da dire, ma voglio almeno segnalare che, tra le righe, si trova una presenza abbastanza costante di Slavoj Žižek (infatti, oltre a essere sulla linea di una rilettura di Hegel, entrambi condividono almeno una concezione "aperta", non oggettivistica del tempo – quello che per Appel è il kairós per Žižek è l'evento –, e ci sono pure affinità nel modo in cui considerano il soggetto, mettendo tanto l'accento sulla intersoggettività quanto, e soprattutto, ponendo al cuore del soggetto un nucleo traumatico, o una rottura, da cui si origina la sua attività libera).

Anche rispetto al confronto di Appel con la teologia cattolica non posso che essere molto sintetico. Desidero comunque mettere in evidenza due punti critici: 1. l'impostazione di Appel comporta un profondo cambio di paradigma nella discussione teologica rispetto alla teologia neo-tomista che ha il proprio organon nel lumen naturale e si fonda su una certa forma di naturalismo e di realismo. La posizione di Appel è evidentemente lontana toto coelo da tutto questo, e sarebbe più che interessante sentire una sua parola sulla questione e, in generale, sullo statuto epistemologico della teologia come scienza; 2. per quanto riguarda l'esegesi del testo sacro, Appel ha certamente ragione quando rifiuta una lettura puramente letteralista delle Scritture, ed è pure interessante l'uso che egli fa delle posizioni hegeliane per giustificare questo punto. A partire da ciò, egli spiega molto bene, per esempio, il senso dei proclami apocalittici che si trovano sparsi qua e là nei vangeli e che lasciano perplesso il lettore moderno, il quale si chiede, insomma, perché mai iI mondo non sia già finito. Egli legge questi annunci non in senso cronologico, ma appunto in senso cairologico (pp. 164-165). Ed è pure degno di nota il modo in cui Appel interpreta il fatto che i vangeli non parlino mai dell'aspetto fisico di Gesù: «Non abbiamo descrizioni esteriori di Gesù, non perché non ci fossero stati testimoni della sua esistenza, ma perché la sua dimensione sensibile trascende i suoi tratti fisici. Chi vuoI comprendere sensibilmente Gesù deve mettersi alla sua sequela» (p. 124).

Qui si rischia, però, di imboccare una china scivolosa. Certi fatti narrati dalle Scritture non devono necessariamente essere intesi come fatti storici?Mi riferisco, evidentemente, almeno ai due fatti centrali del cristianesimo: l'incarnazione e la resurrezione di Cristo. Se anche di questi si dà una lettura non fattuale, non si rischia di perdere ogni specificità e ogni senso dell'essere cristiani? Sono molti i punti in cui il libro di Appel propone un'interpretazione volta a togliere (aufhehen,direbbe lui) la storicità fattuale della narrazione (cfr. ad esempio pp. 177-178, 182 e 207), e qualche riserva è da lui portata anche nei confronti del metodo storico-critico (cfr. p. 183 nota 27). Tuttavia, rinunciare a un minimo di storicità fattuale significa sia correre il rischio di far svanire la specificità del cristianesimo, sia anche rinunciare a un terreno di verificazione possibile sul quale, proprio attraverso il metodo storico-critico, si possa mostrare la maggiore attendibilità che il testo biblico ha rispetto a testi di altre confessioni religiose, come il Libro di Mormon o la Traduzione del Nuovo Mondo delle Sacre Scritture.


A. Loffi, in Humanitas 2-3/2019, 484-489

«Viene l’ora ed è adesso [Érchetai hóra kaì nûn estin]»: il versetto giovanneo (Gv 5,25) potrebbe porsi in esergo all’edizione italiana, ampiamente riveduta, del volume di Kurt Appel, Zeit und Gott, pubblicato nel 2008 per i tipi dell’editore Schöningh. A consigliarlo concorrerebbe innanzitutto la dialettica in esso compendiata fra hóra e nûn nel suo inscriversi entro un orizzonte storico che pone queste due coordinate temporali su di un medesimo piano, perché l’“adesso” permane in vista dell’orizzonte stabile e permanente del tempo, finendo col confondersi con l’hóra. Tale è – nota Appel – la tendenza fondamentale della secolarizzazione, come può trarsi esemplarmente dalla riflessione hegeliana, nella quale, come messo in luce da Schelling nella Filosofia della rivelazione, si assiste all’affermazione d’una sorta di panteismo in cui il tempo della storia viene assunto in sé, senza presumere alcun inizio; con ciò circoscrivendolo in una dimensione nella quale tutti gli “adesso” sono inclusi nell’“ora”, tranne l’ultimo: il nûn kairós che disvela l’orizzonte totale nel quale la “forma-coscienza” si concreta e compie. «Già in Kant – puntualizza Appel – il tempo aveva la sua origine nell’autoaffezione del senso interno; in Hegel questo riferimento viene pensato come differenza del Sé e il tempo come espressione di questa differenza. Il tempo è dunque per Hegel identico al Sé» (105).

La presa di distanza da questa prospettiva non può tuttavia arrestarsi, come proposto da Karl Rahner o da Jürgen Ebach, a una considerazione dell’éschaton come una brusca fine del tempo cronologico. Come la stessa teologia della storia di Paolo suggerirebbe, il nûn kairós si riflette pur sempre sulla storia. Se infatti per l’Apostolo «il possesso dei doni dello Spirito» deve sancire «l’edificazione della comunità» (1Cor, 14), l’accadere del tempo messianico consisterà nella messa in opera del tempo storico, non per assecondarne il ritmo uniforme e lineare, ma per aprirlo alla concitazione.

Lo scompiglio del registro temporale provocato dalla profezia del tempo del Regno – osserva Pierangelo Sequeri nella postfazione al volume – è annuncio di un’imminenza sì asimmetrica rispetto al continuum storico, eppure insistente sulla sequenza degli eventi umani. Non si tratta di pensare il nûn come esterno all’hóra, come cronotopo distinto dai momenti infissi nell’ordine del tempo, e perciò capace di suscitare, come il manifestarsi del Cielo per Vico, meraviglia e angoscia. Al contrario, Appel ritiene che l’“adesso messianico” permei la nostra intera esperienza quotidiana del tempo, ancorché elidendo il rapporto causa-effetto che la caratterizza. Sulla scorta delle riflessioni consegnate da Klaus Heinrich a Parmenide e Giona (1966) a proposito del pensiero genealogico antico e della sua ripresa, a partire da Schelling, nell’idea di causalità, Appel osserva che laddove il tempo cronologico esprime, secolarizzandola, l’eterna progressione delle generazioni, il tempo messianico «significa apertura e refigurazione del passato verso la visione della gloria di JHWH» (164).

Il dettato di Es 3,14 costituirebbe in tal senso attestazione di un innestarsi, nell’orizzonte storico, di un movimento di futurità retrospettiva. La risposta di Dio alla domanda di Mosè sul significato del suo nome: «Io sarò colui che sarò!» non costituirebbe infatti un predicato statico, quanto la dischiusura di un tempo non più prolungabile linearmente, ma capace di conciliare il passato con il futuro: «se da un lato JHWH è il Dio dei padri, il Dio che ha stretto un’alleanza con Abramo, Isacco, Giacobbe e i discendenti di Giacobbe; dall’altro lato JHWH è il Dio che scende nella storia, che ha visto la miseria del suo popolo e lo condurrà fuori dall’Egitto» (154).

Nel nome JHWH – sostiene Appel – il tempo parrebbe soggettivizzarsi, uscendo dai cardini delle leggi fisiche, ed accadendo in un ad-venire, ricordato solennemente nella liturgia, «eco e compimento della gloria di JHWH» (206). Il futuro che qualificherebbe il nome di Dio non proietterebbe pertanto un passato sconsolato in un lontano avvenire, trasformando l’evocazione malinconica di ciò che non è più in tristezza lacerante di una promessa irrealizzabile; ma mirerebbe a risvegliare la memoria di «un paese dove scorre latte e miele» (Es 3,8), additando adesso, ad ogni ora, la possibilità della Città Celeste, che esiste, ha scritto Adam Zagajewski, «calma e pura come una pesca, ovunque».


L. Azzariti-Fumaroli, in Rassegna di Teologia 2/2019, 350-351

«Le persone come noi, che credono nella fisica, sanno che la distinzione fra passato, presente e futuro non è altro che una persistente, cocciuta illusione». Se ha ragione Einstein (Lettera alla sorella di Michele Besso, Princeton, 16 marzo 1955), è facile la profezia che sotto le rovine del tempo rimanga sepolta anche la (presunta) realtà designata con il secondo termine: "Dio". Prima di dolercene c'è da lasciarsi istruire dalla congiunzione apposta nel titolo di questo saggio: "Tempo e Dio", stanno o cadono insieme. Però se ne deve precisare la ragione.

Soltanto dal ripensamento delle condizioni istitutive del tempo trova significato anche il discorso su "Dio". Ora è proprio a riguardo delle condizioni istitutive del tempo che anche la filosofia della scienza riconosce un debito di tipo antropologico: non si tratta di raggiungere una oggettività del tempo entro la quale andrebbe ad inserirsi l'esistenza, perché la consistenza del primo è inseparabile dall'attuazione umana. Pertanto, quel che viene presentata come una diade, riguarda sempre un discorso a tre voci: uomo-tempo-Dio. Al di fuori dell'istanza antropologica non trovano significato la tematica del tempo e la questione di Dio.

E da questa prospettiva che si deve cogliere l'interesse del saggio di Appel, in particolare la tesi del tempo come testo soggettuale. Al di là della naturalizzazione del tempo e/o della sua mitizzazione ciclica, con Merleau-Ponty il compito che si apre è di: «comprendere il tempo come soggetto, il soggetto come tempo» (ID., Fenomenologia della percezione, § 20, terza parte, p. 540; cit. a p. 188). Non esiste un mondo sussistente per sé e un tempo cronologico indipendente dal soggetto (204). Gli autori convocati da Appel in un forum ideale concorrono, anche a contrario, al chiarimento di questa tesi.

Così, in rapporto a Leibniz, si può dire che il tempo non esiste come entità a sé stante esterna alla temporalità dell'esistenza relazionalmente istituita: il tempo esiste sempre solo come tempo proprio. La filosofia di Kant assegna al tempo la funzione di unificazione che nella metafisica classica spettava all'essere. Rimane emblematica la terza antinomia, come vertice della tensione tra il meccanicismo naturalista e la teleologia della libertà. Nella panoramica di Appel, è degno di nota l'anticipo di Heidegger rispetto alla filosofia idealista. Per il filosofo di Meßkirch la temporalità è il senso dell'essere dell'ente che chiamiamo Esserci. L’esistenza – riferita al poter-essere – e l'effettività – come insuperabile gettatezza nel mondo – qualificano l'essere stesso come radicalmente temporale.

Attenzione più ampia viene invece prestata agli scritti di Schelling, di cui viene apprezzato il superamento del sostanzialismo della pura presenza. Nell'affermazione di Dio come condizione radicale della possibilità e quindi della libertà trova riscatto una concezione del tempo sotto il primato dell'avvenire. Se si considerano le predilezioni della ricerca di Appel, non desta sorpresa l'accuratezza con cui viene ricostruito il contributo hegeliano, secondo il tracciato di un "vero" da non intendersi come sostanza, ma come soggetto nel suo cammino di esteriorizzazione.

Ora, è proprio riguardo alla valutazione della proposta hegeliana nell'economia complessiva della riflessione sviluppata nel saggio di Appel che è possibile sollevare alcuni interrogativi che tengono aperto il confronto. Qualora l'abolizione della pretesa di totalità (quale stigma del sostanzialismo) si traducesse in un alleggerimento dell'effettività, non si vede come sia possibile mostrare che il tempo è rivelazione della libertà (in quanto non separabile da essa). Nella concezione della contingenza come apertura dell'Assoluto l'ontologia sostanzialista non appare superata, ma solo interrotta. Non basta sostenere che "Dio è l'apertura del tempo" (204); occorre precisare che lo apre come tempo. Detto altrimenti, in questione è il rilievo ontologico del dispositivo dell'Aufhebung:come si definisce il rapporto tra superamento e sussunzione? A p. 138 si vuoI tenere fermo che il tempo non è semplicemente "evento di Dio"; ma come dame conto? Il chiarimento auspicato chiama in causa un modello veritativo che precisi il ruolo dell'attuazione antropologica nella costituzione dell'evidenza.

Si tratta di uno snodo che il discorso filosofico autonomo (svolto nella prospettiva di una ontologia fenomenologica) è in grado di problematizzare e che il confronto con il canone biblico restituisce come condizione interna all'autocomunicazione di Dio. Per la Bibbia, "Dio" è predicato dell'impronunciabile JHWH, di Colui che fa alleanza ed apre futuro, facendo uscire dal tempo votato alla morte, nel quale il passato rimarrebbe immutabile e il futuro significherebbe solamente l'eterna ripetizione del passato. JHWH è piuttosto la designazione non-rappresentabile di una unicità relazionale. E quando si afferma che la creazione è il cantus firmus della Scrittura, non si vuoI dire semplicemente che il tempo del mondo viene inserito nel tempo della salvezza, perché l'ordine della grazia riguarda il principiare di Dio con l'uomo (32; 138). Da qui – da una relazione che Dio non vive da fuori del suo mistero – viene superata ogni contrapposizione, ma anche ogni accostamento tra tempo della rivelazione e tempo secolarizzato, perché nella convocazione – per grazia – dell'attuazione della nostra libertà, si realizza una redenzione del tempo (e non meramente dal).

Il discorso sul tempo non riguarda una condizione esterna – a mo' di contenitore o cornice – all'esistenza, ma il suo dramma, relativo ad una originaria condizione di responsabilità. La vera minaccia per il tempo è l'indifferenza al soggetto, al suo poter-essere. Per la forma biblica della verità la temporalità umana è interamente esposta alla possibilità della salvezza, la quale viene intesa come una pienezza che non rimane apriorica rispetto alla storia dell'uomo e del mondo, perché assume i tratti di un compimento nuziale e di una trasformazione che non viene delineata come una semplice abolizione, dacché trova anticipazione proprio nel rischio del dramma della libertà umana (è la speranza nei "cieli nuovi e terra nuova").

I! rinvio dossologico è certamente funzionale all'istanza di una non-rappresentabilità oggettiva, quindi di una eccedenza; però deve cautelarsi da una sottodeterminazione dell'effettività del pratico, ché, altrimenti, la temporalità del soggetto sarebbe puramente estetica. Penso si debba dire che: «La verità del tempo risiede nel testo» (204), a condizione però che si intenda dire: «nell'azione da cui il testo proviene (l'evento cristologico considerato nella temporalità relativa al "secondo le Scritture") e che il testo genera».


M. Epis, in Teologia 2/2018, 276-277

«Che cosa è dunque il tempo? Se nessuno me ne chiede, lo so bene: ma se volessi darne spiegazione a chi me ne chiede, non lo so». Celebri sono le parole di Agostino sul tempo, quella realtà che non possiamo negare perché navighiamo e anneghiamo in essa, ma che fatichiamo a descrivere perché costituisce piuttosto uno dei trascendentali di qualsiasi nostro sapere, per dirla con Kant.

In un tentativo ardito tra filosofia e teologia, Kurt Appel affronta il tema del tempo nel suo rapporto a Dio in un saggio impegnativo e ricco, uscito per i tipi della Queriniana con il titolo Tempo e Dio. Aperture contemporanee a partire da Hegel e Schelling.

L’eternità gelida

Nella metafisica di Parmenide, il tempo è ritenuto apparenza e l'eternità priva di tempo è considerata l'essenza vera dell'essere. L'eliminazione del tempo, però, è una scommessa troppo alta che non dice la realtà dell'essere-nel-mondo, anzi, la contraddice sotto tanti aspetti negando il movimento, il divenire, il progresso. In una parola, la negazione del tempo nega la vita e nega, in definitiva l'essere. La visione di Parmenide non fa parte solo di un lontano futuro di filosofia presocratica, ne possiamo vedere tracce nella visione dell'eternità intesa «mitologicamente come passato eterno del tempo o cronologicamente come un "ora" eterno», piuttosto che la «trasformazione del tempo». Se, però, «tutto viene annichilito in favore di un eterno presente privo di tensioni e "onnireale", allora ciò che resta è un'assenza di vita, una situazione mostruosa e infernale simbolizzata in maniera visionaria da Dante nella Divina Commedia attraverso l'immagine del ghiaccio» (9).

Il tempo "sincronizzato" con l'eschaton

Nella comprensione biblica, l'eternità non esprime una contrapposizione al tempo (come spiega Bruno Forte nel suo L'eternità nel tempo).Il tempo è lo spazio della manifestazione dell'eterno. Paul Ricœur spiega che la Bibbia «può essere letta come il testamento del tempo nei suoi rapporti con l'eternità divina». L’Eterno entra in rapporto con il tempo e il tempo si polarizza orientandosi verso l'Eterno. «Contro l'idea di un andamento storico o di un concetto di tempo lineari che emergono dalla storia cronologica, Metz pone la concezione [biblica e teologica] di un tempo circoscritto dall'éschaton enon dal chrónos, un istante "in cui pertanto vi sia tempo per il tempo". Egli reclama una temporalizzazione del tempo in cui esso non funge come sfondo spazializzato degli eventi, bensì riceve, per mezzo della memoria passionis, un "segno" escatologico la cui narrazione sfida la plausibilità dei fatti come creati dai potenti della storia» (13).

In altri termini, notiamo nella Bibbia una cristologizzazione dell'esperienza dell'Eterno nel tempo in modo che - come la mette Karl Barth - «Gesù in quanto è il Cristo, è il piano a noi sconosciuto, che taglia perpendicolarmente, dall'alto, il piano a noi conosciuto».

Per una teologia del tempo

Nel tentativo di costruire una teologia del tempo, Appel critica «l'immagine crudele di un tempo puramente cronologico che progredisce all'infinito divorando tutto, incluse la libertà e la responsabilità». Egli mette anche in discussione «l'immagine di un'eternità statica e congelata che rende altrettanto inoperosa la libertà», vista quindi come un «dopo la storia».

Tale svolgimento punta verso l'idea centrale del lavoro che è quella dell'elaborazione del tempo «come "atto performativo" (performance, Inszenierung, mettere in scena) del nome di Dio, porterà a trovare il tempo reale non nella sfera dell'essere, ossia nella natura fisica, bensì nell'irrapresentabile nome di Dio, JHWH» mostrando che «il Dio della Bibbia (JHWH) significa la fine del tempo cronologico-fisico e il principio di un tempo che risiede nel mondo del testo canonico, in quanto quest'ultimo non rimanda più al nostro spazio-tempo, ma al nome di Dio e all'apertura radicale e alla libertà ad esso connessa» (22).

Lo sviluppo concreto dell'opera avviene in sette capitoli di cui il primo (prologo) e l'ultimo sono teologici e gli altri, centrali, sono filosofici. Il secondo capitolo riflette sulla temporalizzazione dell'essere e il congedo di un tempo vuoto nella monadologia di Leibniz. Ad esso fa seguito il dialogo con l'istanza kantiana dove il tempo è visto come temporalizzazione della libertà nella critica della metafisica di Kant. La prospettiva seguente considera il tempo come temporalizzazione della finitudine in Essere e tempo di Heidegger. Il quinto capitolo considera il tempo come temporalizzazione di un futuro promettente nella filosofia positiva di Schelling. Il sesto capitolo riflette sul tempo come esistenza libera della realtà nella Fenomenologia dello spirito di Hegel. Il settimo capitolo riprende la considerazione teologica mettendo in evidenza come già dall'inizio della Bibbia «il tempo funge come tema centrale della Scrittura. La creazione in sette giorni è creazione del tempo» (147).

Nella riflessione sulla prima pagina di Genesi, Appel evidenzia come il settimo e rispettivamente l'ottavogiorno rappresentano giorni della festa divina. Posto, poi, che l'ottavo giorno coincida con il giorno primo, possiamo dire che la creazione è stata pensata in apertura alla festa. Quanto poi al nome di Dio, presentato in modo solenne in Es 3,14 e 34,6ss. vienecollegato a una storia concreta e non a una definizione statica. «II significato del nome di Dio è strettamente legato al tempo, sicché il cammino versoil tetragramma conduce attraverso una verbalizzazione di Dio: Jhwh non è dunque un sostantivo (né come soggetto né come oggetto), ma un verbo» (154).

Inoltre, come dimostra G. Borgonovo, Es 32-34 si trovaal centro della Torah equindi di tutto il Tanakh. E il testo di Es 34,6 è l'unica volta in tutta la Bibbia in cui il nome di Dio viene raddoppiato dando a quest'espressione una solennità particolare. Dio è il Dio del tempo, che entra nel tempo, che presenta il suo nome come futuro - «lo sarò colui che sarò» - un futuro che si realizzerà nella storia nella pienezza del tempo dell'avvento del Figlio il quale annuncia e incarna nel suo dono totale nel tempo il «è compiuto» definitivo che si manifesterà nella sua pienezza e senza più veli nell'eschaton quando Dio sarà tutto in tutti e in tutte le cose, incluso il tempo.

Riassumendo i grandi spunti del volume possiamo indicare due linee complementari: una filosofica e una teologica.

L’idea filosofica è la seguente: «II tempo, in quanto supplemento aperto al tempo cronologico, è soggetto. Il tempo aperto è Dio e Dio è l'apertura del tempo. Questa tesi è stata formulata nella maniera più chiara nella filosofia positiva escatologica di Schelling e nella proposizione speculativa di Hegel, che rende inoperosi/conserva/eleva (aufhebt) tutti i riferimenti linguistici categoriali ed esprime che all'apertura del tempo soggettuale si accompagnano uno spostamento/differimento, un sottrarsi, una frattura delle rappresentazioni oggettuali e così un'alterità che costituisce il tempo nel suo complesso».

L’idea teologica è la seguente: «II tempo in quanto tempo soggettuale è il testo canonico, cioè la sacra Scrittura. Il suo contenuto è la storia del settimo giorno di Jhwh, che giunge a noi festosamente. L’essere è dato nell'apertura soggettuale del tempo. Questo rimanda al nome impronunciabile di Dio, che si sottrae a ogni rappresentazione diretta e che nella Bibbia viene mostrato con il tetragramma Jhwh. Jhwh non è un sostantivo, bensì il tempo nel suo accadere. [...] Nel nome di Dio il tempo presente si capovolgenella testimonianza di un futuro anticipato, che non è più definibile cronologicamente. Questa testimonianza è il canone che mette così in scena il passaggio del tempo coniato fisicamente (il tempo del presente progredisce momento per momento) nel tempo del nome di Dio. Esso non è nient'altro che l'accadere (parusía) di Jhwh Jhwh, un ad-venire che viene ricordato e recitato solennemente in maniera sempre nuova nello Spirito Santo e per mezzo di lui».


R. Cheaib, in Theologhia.com 4/2018

Negli ultimi decenni il tempo ha fatto parlare di sé. Tanto le scienze sociali quanto la filosofia e la teologia si sono rivelate particolarmente attente alla dimensione temporale. Il dibattito sull’età assiale (Achsenzeit) o quello sull’accelerazione sociale (Social Acceleration Theory) dimostrano quanto il tempo rientri nell’ordine delle priorita quotidiane e non solo in quello delle esigenze speculative. Un’attenta riflessione sulla natura profonda del tempo è indice di un pensiero che ama dedicarsi alla sapidità sobria e coerente delle necessità essenziali. Questo approccio maturo e misurato emerge nell’appassionante saggio di Kurt Appel.

L’autore enuncia prontamente e con estrema chiarezza il cuore della propria riflessione: «L’eternità non è da intendere mitologicamente come un passato eterno del tempo o cronologicamente come un “ora”eterno, ma è la trasformazione del tempo. Anche nella comprensione biblica l’eternità di Dio non esprime una contrapposizione al tempo. Ancor meno un avvenimento divino intra-trinitario lontano dal tempo, ma piuttosto l’indissolubile fedeltà di Dio all’Alleanza con l’esistenza temporale e vulnerabile della sua creazione che trova la sua espressione più profonda nell’amore di Israele e della Chiesa. Questo amore trasforma il tempo anaffettivo in un testo salvifico. Dio quindi non va pensato né come sottomesso alla fugacità del tempo né come atemporale, anzi, tutto concorrerà a far pensare Dio come tempo affettivo e oggettuale» (7s).

La mediazione storica dell’annuncio cristiano ha immesso nel cuore dei credenti l’immagine di un Dio che e amico dell’uomo. Solo con fatica lo si è riscoperto anche amico del corpo. Occorre adesso riverberare la logica dell’incarnazione pensando e rappresentando Dio come amico del tempo. Questo significa riflettere criticamente sull’eternità quale attributo divino. A tal proposito Pierangelo Sequeri nella Postfazione al volume scrive che «è venuto il momento di pensare seriamente la temporalizzazione dell’eterno: quella che rende possibile la creazione come atto di Dio e, con essa, la vita del soggetto temporale con Dio, sigillata nell’incarnazione del Figlio di Dio. Portare a termine questo compito, significa riscattare il tempo creaturale degli eventi dalla dittatura cronologica delle scadenze. Il senso del tempo aperto dalla creazione di Dio, e occupato dall’intimità di Dio, è nelle infinite costellazioni dell’affezione che fanno il mondo degno di essere vissuto e il regno di Dio ospitale per una creatura realmente finita: la quale, nondimeno, è destinata a risolversi – non a dissolversi – nell’infinita vitalità delle costellazioni creatrici di Dio» (228).

Il saggio di Appel evidenzia opportunamente come l’ermeneutica teologica del tempo sia un compito essenziale e ineludibile per l’ermeneutica della stessa fede cristiana. Secondo questa prospettiva una delle questioni più spinose e problematiche è proprio l’opposizione tra tempo ed eternità, ovvero l’eccessiva insistenza dottrinale su una concezione dell’eterno che non dialoga o interagisce con la vita dei credenti. Ripensare e riconfigurare questo rapporto significa ribadire la centralità del tempo biblico in quanto tempo visitato e trasformato dall’amore di Dio. L’opera di redenzione dell’uomo non si manifesta soltanto come salvezza dal tempo, ma anche come trasformazione del tempo nella misura in cui non lo si rende più anonimo ma personale, quando non lo si avverte più come tempo asettico e omogeneo, ma anacronistico e tuttavia familiare. Solo in questo modo è possibile capire che il mistero cristiano della salvezza dell’uomo coincide con la possibilità che anche il tempo sia stato redento e definitivamente trasformato.

Sostenuto dal desiderio di percorrere questa via Kurt Appel accompagna il lettore nell’incontro con i massimi esponenti della filosofia occidentale: Leibniz, Kant, Heidegger, Schelling e Hegel. Costoro, benché abbiano riflettuto sul tempo in epoche e modi diversi, sono stati in grado di modulare una dialettica di tempo ed eternità «nella quale non solo il tempo è momento dell’eternità, ma anche quest’ultima è momento del tempo» (14). Questa prospettiva non può che fondarsi sulla critica del tempo cronologico in quanto tempo che prosegue all’infinito, accumulando incessantemente eventi e divorando ossessivamente se stesso: è il tempo dell’orologio, quello in cui chronos si sostituisce alla prossimità calda e affidabile del Dio vivente, quello in cui la consumazione diventa un imperativo urgente e pervasivo.

Il tempo di Dio, quello che fuoriesce dal canone biblico, non coincide neppure con il tempo del mito ovvero con l’idea di un eterno ritorno dell’uguale. L’incarnazione di Dio si attesta quale argine di resistenza nei riguardi della ciclicità. Questa pretende infatti che tutto sia riproducibile e sostituibile, che tutto possa ritornare uguale a se stesso sbarrando l’accesso a ogni esperienza di personalizzazione ed eludendo la speranza di ogni redenzione. Sostenuto da una puntuale lettura dei testi biblici, Appel dimostra come le Scritture non trattano il tempo come oggetto di definizione o di osservazione. La prospettiva biblica propone pertanto non solo un’elaborazione del tempo quale «atto performativo», ma una sua radicale trasformazione, dal momento che l’esperienza e la stessa qualificazione personale del tempo è inscritta nel nome di Dio: «JHWH non è dunque un sostantivo (né come soggetto né come oggetto), ma un verbo. Alla richiesta del nome, cioè del significato, la risposta immediata è: “Io sarò colui che sarò!” (Es 3,14) (…) L’eternità di Dio (“Questo è il mio nome per sempre”) non consiste in una statica conservazione/abrogazione/elevazione (Aufhebung) del tempo, cioè in una presenza senza tempo, bensì nel fatto che la storia viene inserita nella dinamica del nome di Dio, e JHWH con ciò dimostra, nella reciproca penetrazione di passato e futuro, la sua fedeltà all’alleanza promessa ai padri» (154).

D’ora in avanti, da quando Dio ha «pronunciato se stesso», affidando all’uomo il proprio nome, sarà impossibile un tempo anonimo e sempre uguale. Il tempo di Dio non è un contenitore vuoto in cui gli eventi accadono o si accumulano, ma è piuttosto il tempo in cui il nome di Dio «accade», un nome che non chiude ma inaugura un tempo nuovo, quello del «futuro anteriore», l’unico tempo verbale che ospita e permette il paradosso maggiore: ricordare un evento futuro.

In questo si riconosce sia il tempo sia l’opera della Chiesa, comunità che cammina e celebra praticando un ricordo collettivo del futuro. Solo ribadendo la centralità di questa dimensione costitutiva, la comunità dei credenti è in grado di sottrarsi all’errore di ogni fondamentalismo che consiste nel concepire «come avvenimento cronologico ciò che rappresenta un ricordo del futuro, sostituendo l’oggettività della fede con l’oggettività della positività» (178).


V. Rosito, in Il Regno – Attualità 6/2018, 166

Questioni di bruciante attualità strutturano il libro di Kurt Appel, docente all’Università di Vienna.

Per esempio: come pensare oggi Dio, visto che egli è sempre un Dio del tempo? E visto che nella teologia contemporanea prevale il pensiero di un Dio troppo astratto, senza storia, messo fuori dalla spazio pubblico e incapace di una memoria delle vittime della storia. Un Dio così non esiste, semplicemente.

Poi la questione del tempo, questo grande enigma per il pensiero e per la scienza. Viviamo in una società crono-fobica, che ha ridotto il tempo alla sua quantificazione, con ripercussioni negative sulle forme della convivenza civile e restringendo e occultando l’accesso alle qualità del vivere.

Appel riflette sul legame inscindibile di tempo e soggetto: noi oggi, grazie alla scienza, pensiamo agevolmente in termini di milioni di anni, ma non sembriamo altrettanto sensibili al fatto che, dentro tali concezioni, l’uomo e la vita rischiano di diventare un semplice, piccolissimo e quindi insignificante frammento episodico. Il tempo senza vita, dice Appel, non esiste. Una concezione su base cronologica che pone prima l’universo, poi la vita e quindi il suo conclusivo e inesorabile epilogo entropico, è, anche filosoficamente, tutta da rivedere e da ridiscutere.

In tempi di realtà virtuale sempre più pervasiva e di evanescenza in seno allo stesso cristianesimo di un serio approccio alle questioni più profonde, non ultima quella della risurrezione, questo libro di Kurt Appel apre nuovi tracciati di pensiero.


M. Rossi, in SettimanaNews.it 8 marzo 2018