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La follia di Dio
John D. Caputo

La follia di Dio

Una teologia dell’incondizionale

Prezzo di copertina: Euro 24,00 Prezzo scontato: Euro 22,80
Collana: Giornale di teologia 428
ISBN: 978-88-399-3428-4
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 208
Titolo originale: The Folly of God. A Theology of the Unconditional
© 2021

In breve

«Tanto irriverente quanto serio, tanto irragionevole quanto avveduto, tanto teologico quanto a-teologico, La follia di Dio domanda fino a che punto siamo disposti a inoltrarci nella teologia della croce e cosa siamo disposti a lasciar cadere» The Christian Century.

Descrizione

Prendendo le mosse dalla Prima lettera ai Corinzi, letta attraverso il decostruzionismo di Derrida, il saggio offre una prospettiva di riconcettualizzazione radicale: rifiutare l’idea metafisica di Dio come Ente supremo, onnisciente e onnipotente, per riconoscerne la natura di “evento” che si concretizza nei termini elusivi e folli di una “chiamata”.
Caputo rigetta il teismo metafisico classico e avanza il programma di una “teologia debole”. Quest’ultima scalza la dicotomia fra secolarismo e religione o fra ateismo e teismo, per innervarsi in ogni aspetto della vita umana; e adotta come proprio linguaggio caratteristico una “teopoetica”.
Riscrivendo i paradigmi teologici, Caputo riscrive anche il senso e la possibilità stessa della fede. Di qui l’idea di un regno di Dio «non ha bisogno di Dio» e che si traduce in una ricerca appassionata dell’agápe e della giustizia nel mondo.
Un progetto provocante e visionario, “radicale” perché intende “scavare alle radici”, destinato a rivoluzionare il modo abituale di pensare Dio

Recensioni

[…] Analoga proposta per una riflessione su Dio, che assuma la protesta dell'ateismo non come fine del discorso su Dio ma quale inizio di un rinnovato discorso teologico, è riscontrabile nel testo del filosofo statunitense John D. Caputo, già docente di filosofia alla Villanova University (Pennsylvania, USA) e di Religione e Humanities presso la Syracuse University (New York, USA). Egli manifesta il suo intento di andare oltre alcune concezioni mitologiche della divinità e oltre le pretese della teologia rivolta a indagare il Dio altissimo, per intraprendere una ricerca orientata all'indagine della profondità e della «debolezza di Dio» (lCor 1,25). Il punto di partenza è costituito da istanze della teologia di Paul Tillich (1886-1965) sottoposte anch'esse a critica e sviluppate in una personale proposta di una «teologia dell'incondizionale». È quanto si delinea in J.D. Caputo, La follia di Dio. Una teologia dell'incondizionale, Queriniana, Brescia 2021, la proposta cioè di una teologia debole e – secondo il linguaggio dell'autore – «teopoetica», che si oppone alle pretese della conoscenza assoluta di Dio:

«La follia di Dio è che Dio non esiste. Dio insiste, ma non esiste. Quindi state alla larga dalle guerre interminabili e magniloquenti tra teisti e atei e date ascolto al fenomeno, all'evento, all'incondizionale, per quanto possa essere elusivo in modo esasperante (ibid., 129)».

Caputo traccia i percorsi di una teologia che rifugge da ogni identificazione di Dio con il fondamento e con il più profondo dei profondi – proprie anche della teologia apofatica e mistica – e introduce al centro della sua proposta la categoria di regno di Dio come forza debole fino in fondo, in cui si manifesta la follia di Dio:

«L’evento contenuto nel nome (di) «Dio» eccede ogni calcolo, esula da ogni regola, elude ogni programma. Il nome di Dio è il nome della possibilità di un evento. Quello di Dio è il nome del regno in cui l'evento ci visita come una chiamata inattesa, svegliandoci nel cuore della notte con un bussare vigoroso alla nostra porta (ibid., 133)».


A. Cortesi, in CredereOggi 257 (5/2023), 153

Il filosofo e teologo John David Caputo, accademico cattolico statunitense, è un acclamato esponente di quella teologia radicale che intende andare alle radici della teologia “sporcandosi le mani”. Nel libro La follia di Dio egli però si spinge ben oltre, proponendo una "teologia debole", opposta a quella forte a cui la stessa teologia si mostra poco interessata perché offre poco di buono. Caputo, richiamando «la debolezza di Dio» (1Cor 1,25) di san Paolo, ritiene che si debba e si possa «pensare la debolezza e la follia di Dio fino in fondo», da una parte resistendo alla tentazione di farle rientrare «in un'economia della forza e della sapienza a lungo termine», dall'altra evitando di chiedersi in modo calcolato se porteranno «un futuro vantaggio in termini di potere reale (che sia mondano o celeste)» (p. 104). Infatti quando Paolo sostiene che Dio usa la follia della croce per svergognare la sapienza dei filosofi, e ciò che è niente e nessuno nel mondo per confondere i poteri esistenti, in sostanza sostiene: «Dio, il nome (di) "Dio", ciò che avviene nel e per il nome di Dio, è la solidarietà di Dio con i niente e nessuno, con i "minimi", non con i grandi e le persone di prestigio; con gli ultimi, non con i nobili; con la debolezza, non con la forza; con la follia, non con la sapienza» (p. 101).

La tesi di Caputo è sostenuta dall'idea che dire Dio non significa affermare che è un Essere supremo, l'Altissimo. Se infatti la sua Essenza o esistenza fosse decifrata in tal senso come Qualcuno o Qualcosa d'identificabile, si dovrebbe concludere che la migliore risposta teologica è la negazione, ossia l'ateismo, poiché si tratterebbe di qualcosa di «semiblasfemo e mitologico». Egli piuttosto si colloca sulla linea di Paul Tillich, teologo luterano tedesco, secondo il quale Dio «non è un oggetto» del quale noi, come soggetti, vogliamo dimostrare l'esistenza. Se la teologia vuole avere un futuro deve «superare questa idea di Dio come l'Essere supremo» (p. 20) e volgere piuttosto il suo interesse verso l'incondizionale poiché Dio è incondizionato. Non si deve infatti partire da Dio e dalle nozioni di cui abbiamo la testa piena, bensì da un interesse «in qualcosa di piu profondo di Dio, di profondo in Dio e profondo in noi stessi, un qualcosa di più remoto e profondo delle nostre discussioni che infuriano in superficie sul credere o non credere in Dio» (p. 34) per volgere la ricerca quaggiù, verso le profondità della nostra esperienza e quelle di Dio nella convinzione che ci sia qualcosa di comune dentro di noi e dentro Dio, dal momento che «siamo sempre interconnessi» (p. 16).

Il libro si compone di dieci capitoletti. Si apre con l'assioma "Dio non è un Essere supremo" (cap. 1) e col pensare Dio come l'incondizionale nel senso che egli viene prima di noi, della nostra immaginazione e dei nostri linguaggi. «L'incondizionale è più ciò che ci possiede che ciò che noi possediamo» (p. 51). Caputo usa la metodologia della decostruzione (questa è la sua metodologia) che porta a chiedersi: a cosa dunque si deve guardare? A chi prestare la propria responsabilità? «La risposta è l'indecostruibile»(p. 49).

Seguono poi un capitolo sulla "Protoreligione'' (cap. 3) ossia su una "religione senza religione" la cui profonda risonanza richiama l'incondizionale, e un capitolo sulla crescente incredulità che lo porta a chiedersi "Quanto durerà la religione?'' (cap. 4). Nei capitoli successivi (5-9) viene sviluppata la teologia dell'indebolimento, congeniale con quella dell'incondizionale; viene fatto l'elogio della debolezza (cap. 5) che poi si traduce nell'indebolire l'essere dell'Essere supremo e nel silenziare la teologia mistica (cap. 6). Tutto ciò prendendo spunto dal filosofo francese J. Derrida che, parlando degli incondizionali come la giustizia «aggiunge sempre "chissà (peut-être)" o "se esiste una cosa simile" ovviamente – se è genuinamente indecostruibile – non esiste» (p. 128) lo porta a dire che occorre evitare la mitologizzazione di Dio. Solo così si può giungere a comprendere che «l'incondizionale non esiste, insiste. La follia dell'incondizionale è il non esistere. L'incondizionale chiama, seduce, sollecita, provoca, spaventa e perseguita» (pp. 128-129).

Infatti la follia di Dio sta proprio nel fatto che non si è presentato come uno a cui aggrapparsi. Egli invece chiama (La follia della chiamata, cap. 8); ha svuotato se stesso nel mondo «lasciando l'esistenza a noi, il che è una faccenda rischiosa, sia per Dio che per noi, dato che potremmo non giungere alla mèta» (p. 135). Per questo alla logica della metafisica occorre preferire quella dei granelli di senape (cap. 9) che richiede di saper smettere quando si sta vincendo, così da proteggere il segreto dell'incondizionale che non deve essere identificato con questo o con quello.

A tal proposito ci si deve anche chiedere se davvero il regno di Dio ha bisogno di Dio (cap. 10). Non è forse vero che la sovranità di Dio è diversa da qualsiasi altra? Anche il regno vive della follia di Dio che chiama. Il regno di Dio è tale se è chiamata, se è promessa, se è qualcosa a-venire, che è dentro l'uomo, che non è calendarizzato; il regno è «ogni volta che si dà riparo ai profughi e cibo agli affamati, ogni volta che i poveri vengono consolati, ogni volta che si visitano i prigionieri. Il regno viene qui e ora, nella misura in cui viviamo seguendo la forza debole della seduzione, anche se è sempre a-venire» (p. 182).

L'epilogo del libro è racchiuso in un adagio rivolto al lettore: «La chiamata chiama. La chiamata invoca una risposta, che può fare capolino o meno. Dio insiste, l'esistenza sta a noi. […] La chiamata chiama. Incondizionatamente. Amiamo perché amiamo, con tutta la felice follia dell'amore. Che altro c'è da dire?» (p. 203).

Con La follia di Dio Caputo conclude una trilogia finalizzata a tracciare una teologia dell'incondizionale fondata sulla logica della croce, sulla via della debolezza e del non essere, di fronte alla quale la reazione religiosa e teologica non può essere che questa: che follia! La teologia deve mettere da parte la pretesa di spiegare e di avanzare delle proposizioni per privilegiare invece metafore, metonimie, narrazioni, allegorie, canzoni, poemi e parabole. Deve «lasciare che l'evento accada e si dia a noi» (p. 152). Deve cercare di figurarsi Dio come meglio può; deve essere una teopoetica che «non vuole comprendere il lógos ma apprendere l'evento che è custodito nel nome (di) Dio» (p. 154).

Pubblicato in un tempo di pandemia per la diffusione del Covid-19 che ha posto molti interrogativi ineludibili sul futuro dell'uomo e sull'apparente dramma del silenzio di Dio, il libro può essere letto come una sana provocazione per ripensare la professione di fede in "Dio Padre Onnipotente", ed è una traccia insolita ma assai curiosa per dare un futuro alla teologia rendendola più attenta ai segni dei tempi secondo la logica di quel Dio folle per amore dell'uomo, fattosi debolezza fino alla morte di croce.


G. Zambon, in Studia Patavina 69 (2022/3), 558-561

L’autore, noto filosofo statunitense, proviene da una lunga attività acca­demica: docente prima di filosofia alla Villanova University in Pennsylvania (1968-2004) e poi di filosofia della religione presso la Syracuse University (2004-2011), continua, anche come emerito, un’intensa attività di conferenze e pubblicazioni. Maggiormente concentrato su temi e autori del pensiero con­temporaneo lungo tutta la prima fase del suo insegnamento, si è poi dedicato più direttamente alla filosofia della religione, soprattutto nella fase finale della sua lunga carriera. Il suo percorso di ricerca ha in realtà seguito un filo rosso: dalla fenomenologia husserliana, ancora legata alla potenza intenzionale del soggetto, attraverso l’ermeneutica esistenziale heideggeriana, con la sua ca­pacità di raggiungere il sicuro terreno di un’ontologia forte, egli percorre il sentiero delle critiche all’ontoteologia sino ai suoi epigoni più radicali. Caputo condivide così le istanze di una fenomenologia rovesciata e del ribaltamento assiale soggetto-oggetto, in direzione di una kenosi dell’essere, che si sottrae alla mira intenzionale soggettiva per consegnarsi solo come “evento” di au­todonazione; egli sposa al tempo stesso la causa del decostruttivismo con i suoi effetti di deontologizzazione della verità e di disseminazione del senso. Tale percorso filosofico, già inizialmente intriso di questioni religiose, approda all’ultima fase della sua attività accademica nella tematizzazione esplicita di un pensiero più direttamente teologico. Il seme dell’interesse religioso è in realtà già presente in una delle prime opere, dedicata all’elemento mistico nel pen­siero di Heidegger (1978: The mystical Element in Heidegger’s Thought), e si è svi­luppato nel solco costante della critica a quell’ontoteologia che aveva sempre sostenuto una teologia dell’onnipotenza dell’Ipsum Esse Subsistens (1982: Hei­degger and Aquinas). Caputo fa sua la presa di distanza dalla fenomenologia direttamente ontologizzante di Heidegger, soggettivamente autocratica (1993: Demythologising Heidegger), per assumere il rovesciamento prospettico di uno spiazzamento del soggetto nella sua incapacità di dominio di un senso ormai disseminato. Tra i molti autori del panorama filosofico contemporaneo Caputo dichiara così di prediligere Jacques Derrida, per la sua spietata metodica deco­struttiva (1997: Deconstruction in a Nutshell. A Conversation with Jacques Derrida) e Jean-Luc Marion per la sua conversione dall’ontologia della verità alla dona­zione del senso come evento.

Il testo qui esaminato, come già altri testi della sua produzione più recente (da Philosophy and Theology e The Weakness of God. A Theology of the Event del 2006 a Cross and Cosmos. A Theology of difficult Glory del 2019) si colloca all’in­crocio tra la prospettiva decostruzionista dell’ermeneutica radicale di Derrida e la svolta teologica della fenomenologia francese di Marion. La radicaliz­zazione di un immaginario filosofico ancorato al “Dio senza l’essere”, con­duce Caputo all’approdo verso una “Teology without God”, rispondente alle istanze culturali postmoderne delle filosofie continentali della “morte di Dio” e ai paradigmi del pensiero debole (After the Death of God, del 2007, con Gianni Vattimo e The Insistence of God. A Theology of Perhaps, del 2013).

In tale orizzonte di pensiero si colloca il presente testo sulla follia di Dio come tentativo di elaborare una “teologia debole”, correlativa alla debolezza di Dio nell’orizzonte della sapientia crucis di cui parla Paolo in 1Cor 1-2: «una teologia dove i teologi deboli sono alquanto spaventati dalle cose elevate e dall’essere troppo inorgogliti, non solo dal sapere, ma anche dal potere» (6). Il fine dichiarato è nobilissimo, collocato nell’orizzonte cristologico della the­ologia crucis della kenosi del Dio crocifisso, nel solco dell’attestazione paolina. Vediamo se e come esso viene perseguito nello sviluppo dell’opera. Nel primo capitolo viene spazzata via la categoria dell’Essere Supremo, che ha attraver­sato l’intera riflessione cristiana, cogliendo la provvidenzialità dell’ateismo post-moderno come possibilità di un’autentica riflessione su Dio. Condivi­dendo l’intuizione ana-teistica di Richard Kearney (senza tuttavia citarlo) di una possibilità di ritornare a Dio dopo Dio, di ritrovare cioè una fede più autentica solo per il passaggio antitetico sul terreno dell’ateismo, Caputo di­chiara la sua dipendenza da Paul Tillich, teologo da lui molto apprezzato, dal quale mutua la categoria dell’incondizionale (das Unbedingte). Debitore della grande lezione dei mistici, per i quali Dio non può mai diventare “oggetto” di conoscenza o di pensiero, Tillich lo indica come Unconditional o Unconditioned: Colui che non può essere soggetto ad alcuna condizione e che chiede una relazione che non lo vincoli ad alcuna condizione, ne lo racchiuda in alcuna gabbia concettuale, neppure entro la collaudata categoria dell’Essere Supremo. In riferimento a Derrida, Caputo interpreta l’incondizionale divino come l’as­solutamente indecostruibile, rispetto al quale l’intero nostro immaginario con­cettuale, metafisico e metaforico chiede di passare al vaglio di un radicale pro­cesso di decostruzione (cap. 2). L’esito radicale di tale processo è l’approdo a una sorta di proto-religione, una religione finalmente “laica”, intesa non come sfera separata dal mondano, ma come profondità raggiunta dall’umano au­tentico. Il coraggio di Esistere di Tillich e le Circonfessioni di Derrida sarebbero esemplificative di tale disposizione proto-religiosa, nella quale «la distinzione tra teismo e ateismo, teologia e filosofia, fede e ragione, religioso e secolare, s’indebolisce, sfuma e alla fine svanisce» (75). La proto-religione è una fede nell’incondizionale che anima segretamente la vita, al quale si è dato conven­zionalmente il nome di Dio (cap. 3). I germi e le spinte culturali in tale dire­zione operano già in modo potente, cosicché l’autore si chiede quanto ancora durerà la “religione” intesa nel modo tradizionale (cap. 4). Sino a qui la pars destruens – o per meglio dire deconstruens – del lavoro, alla quale segue la pro­posta di un’assunzione di debolezza. Egli formula un elogio della debolezza (cap. 5) che tocca anzitutto l’Essere Supremo (cap. 6) ed elabora una teologia del “chissà”, una riflessione teologica che non ha più la certezza di un “oggetto” che abbia lo statuto di Ente, di una realtà che e-sista, ma che piuttosto in-sista in tutto ciò che l’umano manifesta di incondizionale nella latenza di atti di “giustizia” sprovvisti della consistenza dell’essere e profetici di messianismo debole, di un’escatologia dell’avvento dell’incondizionale pieno nell’umano autentico, con tutta l’incertezza del chissà, cioè della possibilità del contrario (cap. 7). L’incondizionale, che non esiste ma insiste, si manifesta “chiamando”, muovendo un appello interiore nel cuore della notte (cap. 8). Chi chiama non è Dio se non per convenzione: è il nome del «nostro desiderio che trascende il desiderio per ciò che è incondizionale nelle nostre vite, per ciò che ci chiama incondizionatamente a trasformare le nostre vite» (143). Una teologia così con­cepita non può essere che una teologia debole, non concettuale, ma metaforica, che meriti il nome di “teopoietica del regno di Dio” (cap. 9), di un “regno di Dio che non ha bisogno di Dio” (cap. 10). A questo punto Caputo esprime a pieno la sua opzione: «Al posto del Concetto hegeliano e del fondamento dell’essere di Tillich, io pongo l’inconcepibile, improgrammabile evento, la venuta di ciò che non possiamo veder arrivare, la speranza in un futuro che ci auguriamo anche non sia un disastro, e una buona dose di incredulità post moderna sul poter dire qualsiasi cosa di più» (169).

Rifiutando di diritto la distinzione tra filosofia e teologia, la sua riflessione si colloca necessariamente in ambito filosofico. La filosofia assorbe e integra totalmente la teologia: si disquisisce e si discetta sul divino a partire da se stessi e dal proprio raziocinio, senza alcun riferimento a una rivelazione, a una qualsiasi fede ecclesiale rispetto alla quale la teologia si determini come atto secondo, teso all’intelligenza dello iam creditum. La teologia sarebbe in tale ac­cezione, non priva di equivocità, un ambito decisivo della stessa riflessione fi­losofica nel suo sporgersi oltre ciò che la ragione può raggiungere, ma sempre nella pretesa di un controllo razionale che funziona in definitiva come criterio valutativo unico. La teologia è in sé un procedimento “scientifico” che muove dai dati della fede per elaborarne, sotto un controllo metodico, un’intelligenza nell’oggi della storia in cui una chiesa vive e rende testimonianza di Colui in cui ha creduto. Non è la teologia che pone i dati, ma la relazione viva con un Dio che ha parlato ripetutamente e in differenti modi, sino a dire tutto, una volta per tutte, nel Figlio. D’altra parte l’autore stesso dichiara che la sua teo­logia sui generis non è interessata a Dio, ma all’incondizionale. Il compito è ap­parentemente nobile: quello di una decostruzione antiidolatrica, che infranga il legame tra il divino e le proiezioni umane di affermazione e di potere, sino alla giustificazione della violenza nel suo stretto nesso con il sacro. La nobile apparenza nasconde tuttavia l’operazione surrettizia di una nuova “costru­zione”: quella di un divino anonimo, forse anemico, identificato ai desideri tra­scendenti dell’umano autentico. Dietro l’accattivante riferimento paolino alla sapientia crucis c’è una nescienza trinitaria: si misconosce la rivelazione del Dio cristiano, diluendone la precisa e nitida identità tripersonale, nell’anonima ca­tegoria dell’incondizionale. Tillich parlava del divino come ciò che ci concerne in modo ultimo e supremo (ultimate concern). Das Unbedingte non è il punto di arrivo se non di una riflessione filosofico-religiosa che si apre alla rivelazione del Padre di Gesù Cristo nello Spirito Santo. Tillich non avrebbe mai accettato un pensiero che non mettesse in gioco la compresenza di polarità correlate. Ca­puto rimuove la polarità e appiattisce il discorso teologico sul versante di una razionalità teosofica, che sviluppa una gnosi negativa. D’altra parte egli stesso dichiara che l’unica eresia per lui inaccettabile è il docetismo (7). Con questo egli intende probabilmente rifuggire dal divino disincarnato delle altezze celesti per abbracciare l’incondizionale divino tutto intriso di mondanità e di umanità nella sua più autentica espressione. Finisce tuttavia per negare al divino uno statuto personale, facendone pura controfigura dell’Autentico, dell’Evento da attendere in modo folle, senza certezze né condizioni. Ma tutto ciò ha un grado di realtà solo possibile: potrebbe deludere. È un “che cosa” posto nella pallida luce del “chissà”: un probabile senza personalità. Che proprio tutto ciò non sia ricaduta in quel docetismo che si cerca di fuggire? Non sembra neppure che ri­manga “traccia” (per dirla con Derrida) significativa neppure di quella metafi­sica oblativa e amorevole dell’atto donativo, con il suo potere saturante, capace di convertire l’intenzionalità soggettiva in umile istanza ricettiva di un’alterità trasformante, così cara a Marion. Carica di stimoli e di fecondità decostruttiva quest’opera aiuta la riflessione teologica a purificare, all’ombra della croce, le proprie operazioni da ogni idolatria del concetto e da ogni brama possessiva dell’oggetto, ma non varca la soglia del sapere teologico, il cui oggetto è iden­tico all’atto effettivo e affettivo del suo consegnarsi per amore a una risposta di fede amorosa, identica a un atto di conversione autentico nel quale si rinuncia ad afferrare per lasciarsi abbracciare. Solo a queste condizioni è riconosciuta al divino quell’identità realmente personale, libera e fedele che la fede biblica complessivamente e distributivamente attesta e che sembra fare difetto al ra­dicalismo della Weak Theology.


L. Bassetti, in Teresianum 2/2022, 671-675

L’espressione «follia di Dio» è impiegata, in questo libro, nel senso della Prima lettera di San Paolo ai Corinzi (cfr 1 Cor 1,22-25): la follia di Dio è più saggia degli esseri umani e la debolezza di Dio è più forte degli esseri umani. John Caputo, teologo e filosofo statunitense di formazione cattolica, è un noto esponente della cosiddetta «teologia debole o del forse o dell’in­condizionale». In essa Dio non è pensato come un principio di potenza, una garanzia materiale di successo mondano, ma come la voce che chiama a operare il bene senza condizioni, accordi contrattuali, vantaggi idolatrici. Dio non «esiste» come la causa efficiente da cui tutto dipende, ma come l’e­mergere di un appello alla libertà.

Più che «esistere» al modo di una cosa, Dio «insiste» affinché noi, pren­dendoci cura di chi ha fame, sete, è ignudo, prigioniero, colmiamo ciò che manca al corpo di Dio e completiamo – facciamo «esistere» – ciò che Dio ha consegnato alle nostre deboli mani. Il Regno promesso viene attraverso la nostra risposta, senza ricompense o garanzie che il bene trionferà in forza di un Deus ex machina.

Il credente scommette sulla speranza di giustizia, ma non è mosso da cal­coli retribuzionisti, da secondi fini opportunistici – fosse pure la vita eterna –; invece è scosso e rapito dal fascino dell’azione degna, dall’obbedienza a un comando di prossimità, dalla dedizione misericordiosa verso l’altro che sof­fre. Tutto avviene in modo simile al richiamo di bellezza che un artista av­verte nell’abbozzo dell’opera che grazie a lui sta prendendo forma. La teolo­gia come deduzione metafisica cede il posto a una «teopoetica», a un insieme di generi discorsivi (narrazione, poesia, ermeneutica, parabole, formule apo­fatiche, immaginazioni visive).

L’interessante testo di Caputo, che valorizza la lezione di Eckhart, Der­rida, Bultmann, Benjamin, Vattimo e Tillich, meriterebbe un’analisi critica più dettagliata. L’inoggettivabilità del sacro scaccia l’idolatria dottrinale, ma rischia di smarrire la dimensione «drammatica» e storica del Vangelo. Per l’A., la nozione di un Regno che non avrebbe bisogno di Dio – è Dio che avrebbe bisogno del Regno – si connette con la «divinità» di Dio quale regione oscura da cui il Dio celeste sarebbe emerso (Eckhart, citato a p. 34).

Manca però una giustificazione argomentativa – e non solo allusiva – dei criteri che distinguerebbero la «pazzia» (patologica) dalla «stoltezza» che la croce rappresentava per i pagani, secondo Paolo. L’apologia della secolarizza­zione, quale itinerario «ateo» verso una religione più autentica, andrebbe de­clinata attraverso una contestazione più esplicita dei nuovi idoli della potenza: la medicalizzazione forzata della vita, l’avidità dello sfruttamento ecologico, il conformismo indifferente. Chi crede nel Cristo risorto conferma la sua op­posizione alla morte e all’ingiustizia, attendendo cieli e terra nuovi, che Dio promette rivendicando a sé la garanzia di sconfiggere le tenebre. La religione non è un’ironica canzone di lode a un futuro sognato ma irrealizzabile, né uno spettro che spaventa le nostre esistenze, ma la fiducia nella potenza del Cristo («Noi annunciamo Cristo crocifisso: […] potenza di Dio e sapienza di Dio», 1 Cor 1,24), che si è manifestato come colui che guariva i malati, mondava i lebbrosi e donava la vista ai ciechi.


P. Cattorini, in La Civiltà Cattolica 4105 (3 luglio 2021) 92-93

Prendendo le mosse dalla Prima lettera ai Corinzi, letta attraverso il decostruzionismo del filosofo Derrida, il saggio offre una prospettiva di riconcettualizzazione radicale: rifiutare l'idea metafisica di Dio come Ente supremo, onnisciente e onnipotente, per riconoscerne la natura di "evento" che si concretizza nei termini elusivi e folli di una "chiamata". L'Autore rigetta il teismo metafisico classico e avanza il programma di una "teologia debole", una teologia che scalza la dicotomia fra secolarismo e religione o fra ateismo e teismo, per innervarsi in ogni aspetto della vita umana; e adotta come proprio linguaggio caratteristico una "teopoetica".

Riscrivendo i paradigmi teologici, l'Autore riscrive anche il senso e la possibilità stessa della fede. Un progetto provocante e visionario, che vuole "scavare alle radici", e rivoluzionare il modo abituale di pensare Dio.


L. Cabbia, in Rogate Ergo 4/2021, 61