Môt tamût, «certamente morrai!»: questo gelido monito risuona fin dalle prime righe della Bibbia (Genesi 2,16) ed è come il simbolo archetipico della nostra creaturalità innestata nelle coordinate del tempo e quindi del limite. Nella morte fisica si condensano, in tutte le culture, le molteplici oscurità che ci avvolgono come in un sudario: la sofferenza, la paura, la solitudine, il peccato, il senso di colpa, la miseria, l'infelicità. L'atteggiamento dell'umanità nei suoi confronti oscilla tra il nichilismo pessimistico e la fiducia in un "oltre" che si apre al di là di quella frontiera. La civiltà contemporanea oscilla, invece, tra due altri poli: da un lato, l'esorcismo nei confronti della morte che viene accuratamente esclusa da ogni discorso o immagine (col rigurgito, però, di apparire in ogni momento con la cronaca quotidiana e internazionale) e d'altro lato, la tensione verso un'immortalità biotecnologica che sembra appannaggio di un nebuloso post- o trans-umanesimo.
Dopo secoli e secoli di riflessione sul tema, dopo imponenti cattedrali teologiche erette dalle varie fedi, dopo gli incontri con la morte delle persone care, è possibile riprendere il discorso per dire qualcosa di nuovo? Sembrerebbe di no; eppure è incessante la bibliografia filosofica, letteraria, artistica, teologica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, magica (e altro ancora) su questa realtà. Ed eccoci anche noi a riproporre un paio di saggi tra i vari più recenti.
Il primo che suggeriamo – lo dobbiamo riconoscere – merita lo strillo pubblicitario della quarta di copertina: «Un testo inusuale, provocatorio e salutare, in cui l'eclissi della morte è denunciata come perdita di umanità per tutti noi». A scriverlo è Robert Redeker, filosofo francese, classe 1954, che si interessa, però, anche di fotografia, di critica letteraria e di fenomeni sociali come Internet, la disumanità dello sport attuale, l'educazione scolastica. Non per nulla le sue pagine rivelano un'incessante frequentazione non solo di biblioteche ma anche di piazze, di angoli urbani remoti, di cimiteri, di programmi televisivi e di stregonerie con fantasmi, persino con un interludio di ascolto del "vento di Autan", che nella mitologia popolare francese coi suoi lamenti può rendere folli. L'autore, in un dettato godibilissimo e vivace, nonostante il tema agli occhi di molti solo funereo, sfida uno stereotipo socio-culturale contemporaneo.
La grande tradizione che abbiamo alle spalle, infatti, concepiva la vita come orientata verso una meta che aveva il duplice valore della parola latina finis: era una fine ma anche un fine, una frontiera ma anche una soglia. Interessante, ancora per stare al latino, l'assonanza tra limes, "limite", barriera, e limen, "liminare" di una porta oltre la quale si apre un altro spazio. Rilke affermava appunto che la morte è l'altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi. Sta di fatto che, sia nella visione della morte come suggello e sigillo definitivo dell'esistenza, sia nella prospettiva di un altro orizzonte rispetto ad essa, la vita presente acquisiva un significato drammatico e glorioso, ma aveva comunque un senso.
Ora con «l'eclissi della morte» che scompare da ogni ambito, la stessa vita perde profondità e grandezza, riducendosi a una mera sequenza di eventi contingenti da consumare senza troppe domande. Se si parla di morte, è per affrontare questioni pratiche come l'eutanasia, la cremazione, le strutture funebri, l'industria del "caro estinto", le vittime di catastrofi, di incidenti, di guerre. La riflessione dalle continue ricadute concrete che delinea Redeker cerca, invece, di sbattere di nuovo la morte davanti alla faccia nauseata dell'uomo e della donna di oggi, nella convinzione della fecondità di un simile sguardo per dare un colore e un sapore diverso alla vita. E il suointento non è apologetico, così da condurre all'opzione immortalistica, bensì umanista nella consapevolezza che «la morte ha dei vantaggi» per la stessa vita.
Detto in forma ancora più brutale, questo saggio giunge al punto di ammettere una domanda scandalosa e sconcertante per la cultura odierna: «perché mai dovremmo gioire di dover morire?». Ma lasciamo al lettore coraggioso o, forse più semplicemente, curioso di inoltrarsi in queste pagine alla scoperta della risposta che l'autore elabora, sempre nella convinzione sopra evocata che la considerazione della morte «apre una finestra sulla dimensione metafisica della realtà», e così umanizza la nostra vita. […]
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 27 ottobre 2019, 27