Disponibile
L’eclissi della morte
Robert Redeker

L’eclissi della morte

Prezzo di copertina: Euro 18,00 Prezzo scontato: Euro 17,10
Collana: Nuovi saggi 94
ISBN: 978-88-399-0994-7
Formato: 12 x 20 cm
Pagine: 216
Titolo originale: L’éclipse de la mort
© 2019

In breve

«La morte ha una pessima reputazione. Perché mai dovremmo gioire di dover morire, anziché fuggire dai nostri limiti e dalla nostra finitudine?
Propongo qui una risposta umanista a questa domanda. Risvegliando due sentimenti: il senso di angoscia e il senso del tragico. L’erosione di questi due sentimenti segna la disumanizzazione, crea la soglia del post-umano». (Robert Redeker)

Descrizione

Il nostro non è forse il tempo dell’eclissi della morte? Tra sogni d’immortalità, culto della giovinezza e paura del cadavere, la morte non deve più fare parte della vita. Viene nascosta, snaturata, eclissata. Ed è un’eclissi sia nel linguaggio (dove per esempio “lasciare” ha sostituito “morire”) sia nell’ambito sociale (per cui la morte è stata evacuata dalla città). E il transumanesimo porta oggi a compimento tale eclissi, decretando che la vita è ormai senza morte e la morte senza vita.
È allora questa la difficoltà che viene affrontata da Redeker: quella di una vita che non è più ordinata verso una fine, verso la morte che le conferiva profondità e significato. Analizzando ciò che l’eclissi della morte dice del nostro tempo, il filosofo francese evoca i temi della cremazione, dell’eutanasia, del posto del corpo. E pone questa domanda scandalosa per la società contemporanea: perché mai dovremmo gioire di dover morire?

Commento

Un testo inusuale, provocatorio e salutare, in cui l’eclissi della morte è denunciata come perdita di umanità per tutti noi.

Recensioni

A giudizio del filosofo francese Redeker, la morte è diventata insopportabile (e quindi viene elusa, eclissata, rimossa), perché l'immaginario dominante, di tipo industriale, la de-simbolizza, cioè la distacca da un universo di senso che la renderebbe comprensibile e nominabile, legandola ad altre figure linguistiche, ad altre esperienze di scacco, a riti pubblici, a rappresentazioni condivise. Lo strazio della separazione andrebbe riconosciuto, e non cancellato da liturgie secolari di tipo analgesico, o da facili illusioni di stampo religioso-idolatrico.

Redeker distingue il timore (una normale reazione etologica) dalla paura (segnata da un senso antropologico) e dallo spavento (legato allo spettacolo sublime di un'entità che ci sovrasta e che accende la sensibilità dell'artista e del mistico). Noi purtroppo «temiamo la paura della morte» e interponiamo la distrazione tra la paura e noi stessi.

La tesi dell'A. non è nuova. Si pensi ai testi di Norbert Elias sulla solitudine del morente e di Philippe Ariès sull'occultamento della morte, vissuta oggi come evento selvaggio, innominabile. Redeker non segue però l'approccio pessimistico di Emil Cioran, secondo il quale è un inconveniente il fatto stesso di essere nati. L’A. ama la vita e desidera che sia celebrata in pienezza, risvegliando paradossalmente il sentimento di angoscia e il senso del tragico, proprio per opporsi a euforiche consolazioni a basso costo, che vengono sfornate da una diffusa ideologia consumista, edonista, falsamente progressista.

Diversi punti dello scritto meriterebbero un approfondimento e una discussione più intensa. La critica del femminismo, offerta da Redeker a p. 118, ci pare sbrigativa e ingenerosa. Inoltre, se è vero che la spettacolarizzazione televisiva della morte e il ritmo frenetico della civiltà industriale ostacolano la meditazione sulle cose ultime, è altrettanto vero che molta letteratura e molta arte contemporanea - anche videotrasmesse - hanno elaborato metafore e icone che riscattano, senza dissimularlo, il dolore della fine.

D'altro canto, il desiderio d'immortalità, che alimenta in parte l'attuale medicalizzazione della vita, non è necessariamente una resa codarda o opportunista al fanatismo per la salute, al potere tecnologico e alle lusinghe del mercato, ma rappresenta talora il simbolo di un'aspirazione legittima di ordine escatologico: la tensione cioè a un mondo liberato dalla morte, la fiducia in una promessa integrale di salvezza, che redima corpo e anima e che svincoli carne e spirito dal giogo del negativo.

Non convince nemmeno l'apologia della mortalità (che l'A. non distingue adeguatamente dalla «finitudine» dei viventi) quale carattere costitutivo della natura umana, quale utile strappo dalla bestialità animale e dal culto narcisistico, quale dolorosa ascesi, quale condizione necessaria per la crescita spirituale e per il rinnovamento di generazioni e civiltà. Contro le derive doloriste, andrebbe piuttosto ricordato che Dio non ha creato la morte (come recita il libro della Sapienza): egli ha fatto le creature per l'esistenza; è invece per l'invidia del diavolo che la morte è entrata nel mondo.


P. Cattorini, in La Civiltà Cattolica 4098 (20 marzo/3 aprile 2021) 614-615

«La morte ha una cattiva reputazione. Solo alcuni mistici e alcuni disperati l'attendono con impazienza. Gli altri uomini la fuggono», scrive con estrema lucidità e schiettezza il filosofo Robert Redeker, spiegando che per tante persone di cultura giudaico-cristiana questo evento è associato a una «colpa ereditaria» e vissuto come una punizione, un castigo morale, «fino a negarla con un immortalismo biotecnologico».

Opponendosi alla rimozione contemporanea del pensiero della morte, il filosofo invita a concepire la morte come un'opportunità, come faceva chi sacrificava la vita «per la patria, per la religione, per la discendenza e la posterità». Distruggere i simboli, a favore solo delle immagini esplicite e «prodotte industrialmente» per «l'intrattenimento e lo stordimento», crea un vuoto in cui è impossibile sopportare qualsiasi forma di negatività. I simboli, infatti, aiutano a comprendere il senso profondo dell'esistenza e ad accogliere la realtà della finitudine perché sono «abitati» da una presenza, mentre le immagini odierne «non sono più porte aperte sul mistero» perché virtuali, prive di «un'esperienza provata nella vita reale di ciascuno».

La deriva verso una concezione dell'uomo come automa biologico, che annulla la morte riducendola a «un momento tecnico su cui tutto si può sapere», significa cancellare l'orizzonte metafisico e, per un credente, negare redenzione e salvezza: «Nel morire, noi ci doniamo abbandonandoci mentre consegniamo l'eredità a coloro che ci sopravvivono».


L. Badaracchi, in Jesus 11/2019, 94

Môt tamût, «certamente morrai!»: questo gelido monito risuona fin dalle prime righe della Bibbia (Genesi 2,16) ed è come il simbolo archetipico della nostra creaturalità innestata nelle coordinate del tempo e quindi del limite. Nella morte fisica si condensano, in tutte le culture, le molteplici oscurità che ci avvolgono come in un sudario: la sofferenza, la paura, la solitudine, il peccato, il senso di colpa, la miseria, l'infelicità. L'atteggiamento dell'umanità nei suoi confronti oscilla tra il nichilismo pessimistico e la fiducia in un "oltre" che si apre al di là di quella frontiera. La civiltà contemporanea oscilla, invece, tra due altri poli: da un lato, l'esorcismo nei confronti della morte che viene accuratamente esclusa da ogni discorso o immagine (col rigurgito, però, di apparire in ogni momento con la cronaca quotidiana e internazionale) e d'altro lato, la tensione verso un'immortalità biotecnologica che sembra appannaggio di un nebuloso post- o trans-umanesimo.

Dopo secoli e secoli di riflessione sul tema, dopo imponenti cattedrali teologiche erette dalle varie fedi, dopo gli incontri con la morte delle persone care, è possibile riprendere il discorso per dire qualcosa di nuovo? Sembrerebbe di no; eppure è incessante la bibliografia filosofica, letteraria, artistica, teologica, psicologica, sociologica, antropologico-culturale, magica (e altro ancora) su questa realtà. Ed eccoci anche noi a riproporre un paio di saggi tra i vari più recenti.

Il primo che suggeriamo – lo dobbiamo riconoscere – merita lo strillo pubblicitario della quarta di copertina: «Un testo inusuale, provocatorio e salutare, in cui l'eclissi della morte è denunciata come perdita di umanità per tutti noi». A scriverlo è Robert Redeker, filosofo francese, classe 1954, che si interessa, però, anche di fotografia, di critica letteraria e di fenomeni sociali come Internet, la disumanità dello sport attuale, l'educazione scolastica. Non per nulla le sue pagine rivelano un'incessante frequentazione non solo di biblioteche ma anche di piazze, di angoli urbani remoti, di cimiteri, di programmi televisivi e di stregonerie con fantasmi, persino con un interludio di ascolto del "vento di Autan", che nella mitologia popolare francese coi suoi lamenti può rendere folli. L'autore, in un dettato godibilissimo e vivace, nonostante il tema agli occhi di molti solo funereo, sfida uno stereotipo socio-culturale contemporaneo.

La grande tradizione che abbiamo alle spalle, infatti, concepiva la vita come orientata verso una meta che aveva il duplice valore della parola latina finis: era una fine ma anche un fine, una frontiera ma anche una soglia. Interessante, ancora per stare al latino, l'assonanza tra limes, "limite", barriera, e limen, "liminare" di una porta oltre la quale si apre un altro spazio. Rilke affermava appunto che la morte è l'altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi. Sta di fatto che, sia nella visione della morte come suggello e sigillo definitivo dell'esistenza, sia nella prospettiva di un altro orizzonte rispetto ad essa, la vita presente acquisiva un significato drammatico e glorioso, ma aveva comunque un senso.

Ora con «l'eclissi della morte» che scompare da ogni ambito, la stessa vita perde profondità e grandezza, riducendosi a una mera sequenza di eventi contingenti da consumare senza troppe domande. Se si parla di morte, è per affrontare questioni pratiche come l'eutanasia, la cremazione, le strutture funebri, l'industria del "caro estinto", le vittime di catastrofi, di incidenti, di guerre. La riflessione dalle continue ricadute concrete che delinea Redeker cerca, invece, di sbattere di nuovo la morte davanti alla faccia nauseata dell'uomo e della donna di oggi, nella convinzione della fecondità di un simile sguardo per dare un colore e un sapore diverso alla vita. E il suointento non è apologetico, così da condurre all'opzione immortalistica, bensì umanista nella consapevolezza che «la morte ha dei vantaggi» per la stessa vita.

Detto in forma ancora più brutale, questo saggio giunge al punto di ammettere una domanda scandalosa e sconcertante per la cultura odierna: «perché mai dovremmo gioire di dover morire?». Ma lasciamo al lettore coraggioso o, forse più semplicemente, curioso di inoltrarsi in queste pagine alla scoperta della risposta che l'autore elabora, sempre nella convinzione sopra evocata che la considerazione della morte «apre una finestra sulla dimensione metafisica della realtà», e così umanizza la nostra vita. […]


G. Ravasi, in Il Sole 24 Ore 27 ottobre 2019, 27

Una notizia è giunta dalle agenzie di stampa: è stato raggiunto il limite massimo della durata della vita umana. Eppure mai come in questa fase storica la morte, sempre di scena sui media, pare che si sia eclissata. «Qualcuno» o «qualcosa» l’ha seppellita, l’ha nascosta sia a livello lessicale che in ambito più prettamente sociale. L’a., docente di Filosofia in Francia, in maniera provocatoria afferma che senza la morte non c’è neanche la vita: in estrema sintesi la domanda da porsi è «perché mai dovremmo gioire di dover morire?». Ripercorrendo la categoria della morte nel corso della storia del pensiero, Redeker denuncia con forza l’attuale perdita di umanità che, a sua volta, ha perso, nascosto, obliato il senso della finitudine.
D. Segna, in Il Regno Attualità 14/2019

Si può a buon diritto affermare che l'ultimo tabù ancora esistente sia quello della morte: si fa di tutto per allontanarne soltanto l'idea, si cerca di esorcizzarla in mille modi, si accarezza il sogno dell'immortalità, si rincorre l'eterna giovinezza, si rifiuta il termine stesso «morire» per sostituirlo con altri più tranquillizzanti. La morte ha sempre spaventato l'uomo, ma ha costituito anche una delle grandi questioni sulle quali l'essere umano ha saputo sviluppare riflessioni abissalmente profonde, che hanno contribuito a chiarire il senso della vita stessa.

Il volume del filosofo francese Robert Redeker, L'eclissi della morte (Queriniana, pp. 216, euro 18) vuole essere fin dal titolo una provocazione. Scrive l'autore: «Lo scopo di questo libro: risvegliare due sentimenti, il senso di angoscia e il senso del tragico. L'erosione di questi due sentimenti segna la disumanizzazione, crea la soglia del post-umano».

Affrontando il tema sotto molteplici aspetti, Redeker fa i conti anche con problemi di particolare rilevanza e gravità, primo fra tutti l'eutanasia. L'al di là dell'io, che la morte ci dischiude, è, come affenna l'autore, la verità del nostro essere. Senza la morte «non c'è niente, nessun mondo umano… non c'è né redenzione né salvezza. Senza la morte, non vi è che il nulla».


M. Schoepflin, in Toscana Oggi 14 luglio 2019, 14

No es nuestro tiempo el eclipse de la muerte? Entre los sueños de inmortalidad, el culto a la juventud y el miedo al cadáver, la muerte ya no debe ser parte de la vida. Está oculta, distorsionada, eclipsada. Y es un eclipse tanto en el lenguaje (donde, por ejemplo, "abandonar" ha reemplazado a "morir") como en la esfera social (donde la muerte ha sido expulsada de la ciudad). Y el transhumanismo lleva a cabo este eclipse hoy, decretando que la vida ahora no tiene muerte y la muerte no tiene vida. Ante esta situación se enfrenta el profesor de filosofía Robert Redeker, 1954: la vida ya no está ordenada hacia un fin, hacia la muerte, lo que le daba profundidad y significado. Al analizar lo que dice el eclipse de muerte de nuestro tiempo, el filósofo francés evoca los temas de la cremación, la eutanasia, el lugar del cuerpo. Y plantea esta pregunta escandalosa para la sociedad contemporanea: Por qué deberfamos regocijarnos por tener que morir en lugar de huir de nuestros límites y nuestra finitud? Y el autor propone una respuesta humanista a esta pregunta: "Despertar estos dos sentimientos: el sentido de la angustia y el sentido de lo tragico. La erosión de estos dos sentimientos marca la deshumanización, crea el umbral del post-humano" (pag. 9). El autor entiende por deshumano "el intento de hacer del hombre un ser sin preocupaciones, un ser liberado de la angustia y de lo tragico, liberado de la preocupación por el alma" (pag. 10).

[…] En conclusión, estamos ante un texto inusual, provocativo y saludable, en el que el eclipse de muerte se denuncia como una pérdida de humanidad para todos nosotros.
J.L. Vázquez Borau, in Actualidad Bibliográfica 1/2019, 27-28

Viviamo un’età che rifiuta la morte. In un orizzonte materialista solo il biologico ha peso. Ma questo è l’opposto del perire, il cui scopo è l’azzeramento della materia. Morire è farsi polvere. Può la polvere essere fine ultimo di un’umanità desimbolizzata? Il vocabolo è del filosofo Robert Redeker, che alla cupa signora con la falce dedica un libro scomodo. Perché in tempi di “immortalismo biotecnologico” morire è sconveniente. I funerali in città si celebrano sottotono e a volte i cadaveri si cremano in fretta per poi spargere le ceneri – la polvere appunto – affinché nessuno pianga sulla tomba di chi ha subìto l’onta di perire. Il verbo “morire” lentamente si allontana dal linguaggio comune: semplicemente le persone si spengono, o se ne vanno, non si sa bene dove. Nel nulla, presumibilmente.

Invece la morte di senso ne ha eccome e Redeker si premura di ricordarcelo. Nel Fedone Socrate si prepara a morire e lo fa con dignità e distacco, perché tale dev’essere la dipartita del saggio. Del resto, la filosofia non è forse un’esercitazione all’accettazione della morte? Heidegger spiega che essa è la possibilità “più propria, senza relazione, certa e come tale indeterminata, insuperabile del Dasein”, ossia dell’esserci. August Comte scrisse che “il culto dei morti è segno di umanità”. Per restare in Italia, Vico identificava l’inizio della civiltà con la comparsa delle pratiche di inumazione. Ma si dice che noi viviamo in tempi post umani, quindi dell’umanità in senso stretto – ovvero intesa in senso letterario, filosofico e religioso – ci importa poco. Quindi passa in secondo piano il fatto che Budda abbia scelto di vivere in santità dopo l’atroce scoperta della necessità della vecchiaia e della morte. Ma il simbolo più alto, più incredibile di sublimazione della morte si ha con Cristo, che sceglie di morire crocifisso per espiare le colpe dell’umanità e garantire, con essa, la risurrezione della carne. Chateaubriand scrisse un libro significativamente intitolato Genio del cristianesimo, e in effetti mai la simbolizzazione del rito di passaggio per eccellenza aveva raggiunto vette tanto alte.

Metempsicosi, immortalità, risurrezione: parole grandi, forse troppo. Perché religioni e sistemi di pensiero rispondono all’esigenza dell’angoscia per la propria finitudine. Esse tramutano la fine nel passaggio a uno stato di esistenza superiore. Il materialismo invece annulla la morte e promuove la vita, quindi la fine si tramuta in un’ingiustizia a cui porre rimedio godendosi la luce, finché c’è. Perciò sono finite al bando le “belle morti”, quelle per la patria o per una giusta causa. Santità ed eroismo sono ideali superati e il mondo non è più una “foresta di simboli” interpretati sì bene nelle guglie di Notre-Dame, il cui rogo giustamente è parso la fine della storia. Non di una storia, in verità, ma di quella dei nostri antenati. Che alla morte contrapponevano lo slancio verticale delle cattedrali verso il cielo, in attesa delle risurrezione.


C. Gualdana, in Il Foglio 1 maggio 2019

Racconta il filosofo tedesco Jürgen Habermas che, quando morì, Max Frisch, lo scrittore e architetto svizzero suo amico, volle che si tenesse una cerimonia religiosa in una cappella protestante di Zurigo, sebbene fosse non credente. Eravamo nel 1991. Allo stesso modo quando ci lasciò Jorge Luis Borges, curiosamente sempre in Svizzera ed esattamente cinque anni prima, ottenne di essere sepolto nel cimitero di Plainpalais, riservato alle personalità elvetiche, dato che lo scrittore argentino considerava Ginevra la sua seconda patria. Nell'occasione, in ricordo delle sue due nonne, una cattolica e l'altra protestante, un sacerdote e un pastore tennero l'orazione funebre. Si tratta di due episodi che risalgono a circa trent'anni fa e che sono emblematici del rapporto dell'uomo contemporaneo con la morte. L'ateo Frisch e l'agnostico Borges mostrarono un'apertura al mistero che circonda l'esistenza, compresa la fase finale, che oggi probabilmente sorprenderebbe.

Come diceva il sociologo Norbert Elias in un saggio divenuto giustamente famoso, La solitudine del morente (in Italia pubblicato dal Mulino nel 1985), la modernità ha trasformato la morte in un fatto privato, di fronte a cui si prova disagio e che si preferisce rimuovere al più presto. Facendo venir meno quella solidarietà verso chi sta per abbandonare la vita che era caratteristica fondamentale del Medioevo, epoca in cui la morte era un fatto familiare, vicino e per così dire attenuato, reso morbido e verso il quale si esprimeva partecipazione e non indifferenza. Naturalmente, ciò non significa affatto che la morte fosse più pacifica, anzi era sin troppo esibita, nei suoi aspetti selvaggi e crudeli. Fenomeno che a noi capita quando accadono cruenti fatti di cronaca o tragedie che ci lasciano sgomenti, come accadde a Vermicino o più recentemente a Rigopiano, con i rischi di spettacolarizzazione e morbosità che ben conosciamo.

Ma leggiamo cosa scriveva Elias, studioso di origine ebraica costretto negli anni Trenta del Novecento a lasciare la Germania per sfuggire alle persecuzioni naziste: «Strettamente connesso alla rimozione della morte dalla vita sociale e alla conseguente dissimulazione della morte - soprattutto davanti ai bambini - è poi l'imbarazzo che si prova di fronte al moribondo. Spesso non si sa cosa dire: le frasi d'uso per tale situazione sono relativamente scarse e un sentimento d'imbarazzo impedisce di parlare: per il moribondo questa può essere un'esperienza amarissima: ancor vivo, è già abbandonato». È una situazione che ci è capitato spesso di toccare con mano: al cospetto della morte siamo spaesati e l'unica risposta possibile ci pare il silenzio.

Se c'è una disciplina che nel secolo scorso e anche negli ultimi decenni ha cercato di remare controcorrente rispetto alla dimenticanza della morte è certamente la filosofia: ce lo ricorda lo studioso Carlo Scilironi, docente di Filosofia teoretica e pensiero teologico all'Università di Padova, nel suo libro Note intorno al problema della morte (Cleup, pagine 176, euro 18). Egli affronta la questione ripercorrendo le posizioni del mondo antico e di quello biblico e cristiano per giungere appunto ai nostri giorni dove, scrive, «si assiste in un certo senso ad un'inversione delle parti: allorché il morire era ciò in presenza di cui si stava apertamente, onere della filosofia era mitigarne la vista per rendere possibile la vita; oggi che il morire è rimosso, alla filosofia sembra competere l'opposto compito di aprire gli occhi sull'ombra della Gorgone che ineluttabile accompagna l'esistere». Il pensiero contemporaneo si è imposto il compito di un'assunzione radicale del problema della morte. Pensiamo a quanto scrive Franz Rosenzweig: «Dalla morte, dal timore della morte prende inizio e si eleva ogni conoscenza circa il Tutto». Oppure a Max Scheler, che vede la causa della cancellazione della morte nella mentalità scientista dell'uomo moderno: si prende in considerazione solo ciò che è calcolabile, tutto il resto diviene evanescente e perciò da radiare dall'orizzonte del pensiero. Nel volume vengono poi accostate le riflessioni di Jaspers, Heidegger, Sartre, Bloch, Jankelevitch, Lévinas e Derrida. Lévinas in particolare riconosce nella morte «il vero altro», in cui è racchiuso il mistero della relazione con la trascendenza, mentre Derrida invita a «fare della morte un dono» aprendosi in tal modo al cristianesimo. La lezione dei filosofi contemporanei di fronte alla morte consiste per Scilironi nella «custodia della finitezza umana», in quello scarto fra sapere e verità che è testimoniato dal riconoscimento dell'altro.

Che la morte fra i nostri contemporanei goda di cattiva reputazione è anche l'assunto di un altro volume edito da Queriniana e scritto dal filosofo Robert Redeker (L'eclissi della morte;pagine 216, euro 18). Per l'autore è in atto un vero e proprio processo di disumanizzazione, che si svela nel tentativo di fare dell'uomo un essere senza preoccupazioni, liberato dall'angoscia e da ogni senso del tragico. I morti sono imbarazzanti e dobbiamo liberarcene al più presto. Di qui secondo Redeker il boom della pratica della cremazione, il cui risultato è l'emergere di una civiltà senza cadaveri: «È perché noi rivendichiamo la civiltà del culto del corpo - religiosità da quattro soldi che permea lo sport, la moda, lo spettacolo - che aspiriamo a diventare una civiltà senza cadaveri. È che il cadavere, nel suo squallore, insulta l'oggetto di questa nuova idolatria». L'esito di questo fenomeno è un mondo che rifiuta i cimiteri e i sepolcri. L'occultamento della morte, anche in questo caso, passa attraverso la sua privatizzazione: da evento pubblico viene sospinta nell'intimo della sfera privata. Il colmo è che a tutto ciò fa da contrappeso l'immortalità in versione transumanista, in cui l'uomo diventa indefinitamente riparabile, il suo corpo composto da protesi, i suoi organi sostituibili come pezzi di ricambio. Ma anche questo sogno di vincere il nostro essere mortali grazie alle meraviglie della tecnica si rivela «un tecnicismo dalla più sconcertante ingenuità».

Per questo secondo lo studioso francese docente al Cnrs occorre riappropriarsi, proprio come suggerisce Derrida, della dimensione del dono: «Nel morire, noi ci doniamo abbandonandoci mentre consegniamo l'eredità a coloro che ci sopravvivono. Senza la morte, il dono non sarebbe mai entrato nel mondo».


R. Righetto, in Avvenire 16 aprile 2019