Nonostante da quando le ho lette siano passati diversi anni – come corre in fretta questo tempo che ci è dato da vivere! – mi tornano spesso alla mente, nella loro freschezza, le pagine profonde a cui il cardinale Joseph Bernardin ha consegnato la memoria dei suoi ultimi giorni. Il libro, che in Italia è edito dalla Queriniana, ha un titolo che ne riassume in pieno il contenuto: Il dono della pace. Come spiega nella Prefazione il cardinale Carlo Maria Martini, si tratta di una delle più sconvolgenti testimonianze del nostro tempo: un guardare in faccia all’aggressione alla propria reputazione – fu ingiustamente accusato di abusi sessuali – e poi all’aggressione di un tumore al pancreas, entrambe affrontate con dignità, fede e semplicità. Non ha trascurato nessuno dei mezzi umani per difendersi legittimamente, ma non ha nemmeno mai smesso di rimettersi nelle mani di Dio, trovando in Lui la forza per perdonare l’accusatore e consolare molti altri malati.
Questa sera, mentre mi accingo a scrivere queste righe, con cui – grazie al servizio di Vita Pastorale – raggiungo tanti di voi, confratelli e operatori pastorali, mi si riaffaccia la figura di quest’uomo definito come «il vescovo più influente della storia della Chiesa statunitense». Se ha lasciato un segno così profondo è stato per la sua grandezza, una grandezza declinata nella sua umiltà, che ha contribuito a far risplendere come una lampada la fede che l’ha animato fino all’ultimo giorno.
Penso a lui, nell’introdurre febbraio, che sarà pur il mese più corto dell’anno, ma conosce alcuni appuntamenti significativi: dalla Giornata per la vita a quella del malato, per poi condurci nelle prime domeniche di una nuova Quaresima.
Sarà forse una forzatura la mia, ma nell’accostamento delle due Giornate non stento a riconoscere la passione e l’impegno con cui come Chiesa non ci stanchiamo di annunciare la sacralità e la preziosità della vita umana, intangibile dal concepimento alla morte naturale. Un valore senza prezzo, su cui quindi non si può mercanteggiare o scendere a compromessi, in nome di alcuna valutazione economica o utilitaristica. Un valore che così evidente forse più non è, in una cultura chiusa all’incontro i cui segni – come sottolinea il Messaggio per la vita – «gridano nella ricerca esasperata di interessi personali o di parte, nelle aggressioni contro le donne, nell’indifferenza verso i poveri e i migranti, nelle violenze contro la vita dei bambini sin dal concepimento e degli anziani segnati da un’estrema fragilità». Sullo sfondo non si fatica a riconoscere il dramma dell’aborto e dell’eutanasia, nonché le domande aperte introdotte nel nostro ordinamento con le “Norme in materia di consenso informato e di disposizioni anticipate di trattamento”: vanno dalle riserve etiche e professionali – in nome delle quali è doveroso appellarsi all’obiezione di coscienza – alla concezione della morte come diritto, che obbliga il medico ad acconsentire ai rifiuti di trattamenti, compresi alimentazione e idratazione.
Se sul piano politico sentiamo gravare il compito di impegnare la prossima legislatura a correggere i contenuti di una legge nata male, su quello ecclesiale ci sentiamo coinvolti a rinnovare «la vocazione materna della Chiesa verso le persone bisognose e i malati, concretizzatasi nella sua storia bimillenaria». Si tratta, come ci sprona papa Francesco in vista della Giornata del malato, di non dimenticare una lunga storia di dedizione, convinti che «questa eredità del passato aiuta a progettare bene il futuro», ossia a rispettare la persona del malato nella sua dignità, mantenendola sempre al centro del processo di cura.
Penso a tante strutture sanitarie come pure a molte famiglie, in cui un’accoglienza concreta e premurosa serve la vita in ogni sua fase. Penso al cardinale Bernardin, al suo amore per la vita, alla fiducia e alla forza con cui ha vissuto pienamente perfino nei tempi peggiori, al segreto che ci ha lasciato: «La capacità di fare precisamente ciò, dipende dall’approfondimento della nostra relazione con Dio per mezzo della preghiera».
E vorrei chiudere questa lettera ancora con parole sue, con una testimonianza che non smette di commuovermi nel profondo e che, forse, diventa viatico per entrare nel cammino della Quaresima, tenendo fisso lo sguardo sulla meta dei nostri passi. Ecco il pensiero di questo figlio di una famiglia di emigrati dal Trentino: «Molti mi hanno chiesto di parlare del paradiso e della vita ultraterrena. Talvolta sorrido a tale richiesta, perché ne so tanto quanto loro. Eppure, quando un giovane mi chiese se aspettavo con ansia di essere unito a Dio e a tutti coloro che se ne sono andati prima, feci un collegamento con qualcosa di cui ho parlato prima in questo libro. La prima volta che andai con mia madre e mia sorella nella terra natale dei miei genitori, a Tonadico di Primiero, nell’Italia del Nord, mi sembrava di esserci già stato prima. Dopo anni che sfogliavo l’album di fotografie di mia madre, riconobbi le montagne, il paese, le case e la gente. Appena entrammo nella valle, dissi: “Dio mio, questo posto lo conosco. Sono a casa”. In qualche modo, penso che passando da questa vita alla vita eterna sia una cosa simile. Sarò a casa».
G. Bassetti, in
FamigliaCristiana.it 29 gennaio 2018