James D.G. Dunn (1939-2020), già docente alla Durham University, è stato uno dei massimi studiosi del Nuovo Testamento, in particolare per quanto riguarda la letteratura paolina e gli albori del cristianesimo. Ministro della Chiesa di Scozia, ha svolto il ruolo di predicatore metodista. A ricordo della sua opera presentiamo il volume Gesù secondo il Nuovo Testamento.
In questo volume lo studioso si prefigge di delineare rapidamente il volto e il messaggio di Gesù così come è stato presentato nei vari scritti del NT a partire dall’impatto avuto sui suoi discepoli. Dopo un periodo di predicazione orale, i detti e i fatti di Gesù sono stati raccolti in vangeli scritti. Oltre ad essi (e per quanto riguarda le lettere paoline, prima), altri scritti ne testimoniano più o meno direttamente la figura e l’insegnamento, ormai incorporato nella predicazione adattata al mutato ambiente delle comunità alle quali gli scritti erano diretti.
«Gesù secondo Gesù», il primo capitolo del libro, riporta i principali insegnamenti appresi dai discepoli direttamente da Gesù. Vengono ricordati il comandamento dell’amore, la scelta preferenziale dei poveri, l’accoglienza data ai peccatori, l’apertura – iniziale – al mondo dei gentili, la presenza inconsueta e al limite dello scandalo di alcune donne tra i suoi più stretti seguaci. Di Gesù vengono menzionati inoltre l’apertura ai bambini, l’attenuazione dei precetti alimentari con il capovolgimento della sorgente della purità nell’uomo e infine l’Ultima Cena o cena del Signore. I caratteri distintivi del suo ministero sono stati l’annuncio del Regno, l’essere stato un maestro autorevole, uno splendido narratore di parabole e un esorcista di spiriti malvagi.
Secondo gli evangelisti sinottici, il ministero di Gesù si concentrò in Galilea, mentre per Giovanni ci furono diversi viaggi a Gerusalemme. I vangeli furono giudicati come una storia della passione di Gesù – accettata volontariamente – preceduta da una lunga introduzione.
Come Gesù comprende se stesso
Circa l’autocomprensione di Gesù, Dunn pensa che si possa dire con certezza che la sua missione iniziò dopo – l’imbarazzante – battesimo ricevuto da Giovanni Battista. In esso Gesù aveva ricevuto la solenne dichiarazione del favore di Dio e l’unzione della Spirito di Dio per la sua missione. La missione cominciò dall’incarico ricevuto da Dio, suo Padre, quando fu battezzato da Giovanni. Gesù ha la consapevolezza di «essere venuto» o di «essere stato mandato», cioè quella di un incarico celeste. Gesù si percepisce come il Messia/Cristo, ma la sua messianicità comprenderà anche la sofferenza, la morte e la risurrezione.
«Agli inizi del cristianesimo la rivendicazione che Gesù era (il) Messia era già profondamente radicata e rispecchiava completamente l’affermazione messianica da lui incarnata nella sua missione» (p. 33). Gesù si rivolgeva al Padre con il termine «Abbà» e aveva la coscienza di esser Figlio di Dio, anche se le prove non sono così forti. Nel processo gli si contesta di essersi ritenuto Figlio del Benedetto e condannato per blasfemia. Dall’insieme si può dedurre che «la più antica fede cristiana, secondo cui Gesù era Figlio di Dio in modo unico, fosse radicata nelle più antiche memorie della sua missione e morte» (p. 35).
Gesù usa per sé il titolo di Figlio dell’uomo, influenzato da Dn 7,13 sul modo in cui egli immaginò lo svolgimento del suo ministero più di quanto lo fossero i suoi discepoli diretti e posteriori. Gesù si aspettava di morire per mano delle autorità civili (cf. le tre predizioni della passione dopo la confessione di Pietro sulla messianicità di Gesù). I chiari presentimenti di Gesù hanno colorato nei discepoli la memoria di tali predizioni o preavvisi. Nei vangeli si registrano chiari echi dell’autocomprensione di Gesù e della concezione della propria missione. Le «radici delle successive convinzioni su Gesù erano ben fissate in quel che di lui si ricordava (e si ricorda), in ciò che aveva detto e nel modo in cui aveva agito. Gesù secondo Gesù è decisamente alla radice di Gesù secondo gli evangelisti» (p. 38).
I Vangeli
Dalla raccolta di blocchi narrativi riguardanti parabole, miracoli e insegnamenti di Gesù (raccolti specialmente nella fonte Q = Quelle = materiale discorsivo comune a Mt e Lc) nacquero i tre vangeli sinottici: Marco, Matteo e Luca. Marco fu il primo a considerare “vangelo”, buona notizia, la narrazione del ministero, della morte e risurrezione di Gesù. Paolo aveva concentrato il senso del vocabolo solo sulla morte e risurrezione di Gesù.
Marco si presenta, in particolare, come un racconto della passione con una lunga introduzione. È caratterizzato dal segreto messianico, esplicitato dagli ordini di silenzio dati da Gesù perché non si fraintendesse la natura della sua messianicità prima del tempo della passione. Gesù mostra un reiterato desiderio di rimanere nascosto e il finale brusco del Vangelo portò a un suo prolungamento con una sintesi delle testimonianze di apparizioni pasquali, sollecitato forse da Marco stesso. «Ma il modo in cui in realtà terminò il suo vangelo resta una sorte di rompicapo» (p. 46).
Matteo ha una struttura imperniata su cinque lunghi discorsi. Gesù incarna la sapienza divina, porta a compimento l’attesa giudaica (cf. le citazioni di compimento), è presentato come un nuovo Mosè, di cui porta a compimento l’insegnamento espresso nei cinque libri della Torah. La Legge è confermata, seppur interpretata, riconfermata e ridefinita in modo autorevole. Il centro del ministero di Gesù è principalmente Israele, anche se il vangelo è per tutte le genti (Mt 24,14) e il mandato postpasquale ha ampiezza universale (Mt 28,19).
Luca descrive Gesù soprattutto come un consacrato con l’unzione dello Spirito, dimostrando così che intendeva narrare in un secondo volume l’inizio del movimento gesuano dopo la morte e risurrezione di Gesù. Lo Spirito sarà il protagonista assoluto dell’avanzamento della missione iniziale dei discepoli dopo la Pasqua. Luca enfatizza come rilevante e distintiva l’attività di Gesù verso i peccatori (in Atti la parola non comparirà mai).
Il vangelo è una buona notizia anche per i gentili. Gesù è mostrato mentre si ritira spesso a pregare. Gesù è chiamato «il Signore» per la prima volta dai suoi stessi contemporanei (cf. Lc 24,34). Nel vangelo si evidenziano con forza i pericoli della ricchezza e la preoccupazione per i poveri e viene sottolineato il ruolo delle donne all’ingresso di Gesù nel mondo e fra i suoi discepoli. Seguendo Marco servendosi della fonte Q, i sinottici descrissero la figura di Gesù in modo personale e differenziato, ma ribadendo in sostanza la stessa tradizione come affidabile.
Il Vangelo di Giovanni recupera la stessa tradizione ma in forma molto diversa. I miracoli diventano «segni», non si narrano parabole vere e proprie, mentre si ricordano vari detti «Io sono» che possono valere come l’equivalente giovanneo delle parabole sinottiche. Gv non ha voluto raccontare il ministero di Gesù, ma far emergere il suo significato, come pure quello della sua morte e risurrezione. «Il suo vangelo è più una riflessione sul ministero e su Gesù stesso, che attinge alla tradizione di Gesù taumaturgo e, in realtà, elabora cose che si riteneva Gesù avesse detto per far emergere il significato dei segni e della rivelazione di Dio che Gesù portava e incarnava» (p. 65). Gv 20,30-31 esprime esplicitamente lo scopo del suo vangelo: portare alla fede in Gesù come Cristo, il Figlio di Dio, così da avere, per la fede, la vita nel suo nome. Gv fa emergere il significato di Gesù come Messia, conservando il titolo onorario, che in seguito divenne nome proprio per Gesù («Gesù Cristo»). Gesù è definito come «re di Israele», ma Gesù ne precisa la portata di fronte a Pilato. Gesù è «mostrato come colui che realizza e di fatto sostituisce altre figure centrali della storia e della religione d’Israele» (p. 68): Legge, manna, agnello di Dio, tempio, acqua, precedenza su Abramo, vite ecc. C’è tensione fra compimento e sostituzione. Giovanni cerca di aiutare i giudei aperti a Gesù a indirizzarsi verso la fede in lui, forse presagendo che da lì a poco i giudei credenti avrebbero preso una strada diversa. Giovanni non voleva però perdere l’identità giudaica del movimento gesuana, per lui basilare (cf. p. 69).
Gesù è considerato come «il Figlio di Dio» (rimandi esclusivi di Giovanni) e si rivolge a Dio come «Padre». La sua missione era autorizzata dal Padre. Giovanni rispecchia la fede dei primi cristiani in Gesù quale «il Figlio di Dio». Potendo ripetere la preghiera di Gesù – «Abbà» –, i primi credenti affermavano di esser anch’essi figli di Dio (cf. Rm 8,15-17).
Assolutamente nuova è l’affermazione che Gesù non solo proferiva ma era la parola di Dio (cf. il Prologo), il Logos agente e strumento divino della creazione. Gesù è «incarnazione del pensiero e dell’intenzione di Dio, comunicazione egli stesso di ciò che fino a quel momento era stato espresso solo con le parole del profeta ispirato. Gesù, come Parola di Dio, esprimeva ciò che fino ad allora era stato l’inesprimibile e rendeva conoscibile l’inconoscibile» (p. 73). La Parola di Dio si fatta carne in Gesù, e non solo potenza creatrice o salvifica di Dio. In Giovanni ci sono molti echi di ciò che nella letteratura sapienziale veniva detto della sapienza (femminile nel pensiero giudaico). Non c’è problema in Giovanni a esprimere l’incarnazione in termini femminili: Gesù è parola incarnata, sapienza incarnata. Gv riassume il pensiero degli scrittori giudei della Bibbia sul tema della parola di Dio e sulla sapienza di Dio.
Altri tratti peculiari del Vangelo di Giovanni sono il ricordo del comandamento nuovo, la dimensione personale con la quale Gesù si rivolge a ciascuna delle sue «pecore», il culto in spirito e verità non più collegato a un centro cultuale. I silenzi di Giovanni riguardano il battesimo di Giovanni e l’Ultima Cena. C’è però il lungo discorso sul pane della vita. Secondo Dunn, Giovanni sta già protestando contro l’ecclesiologia e la teologia sacramentale che Ignazio propugnerà poco tempo dopo. Da alcuni il cristianesimo espresso da Gv è stato classificato per questo come «conventicolare» (p. 79).
Commentato dapprima dai doceti, secondo i quali Gesù appariva solo nella carne, sembrava essere carne, il Vangelo di Giovanni si prestava a essere identificato con la prospettiva gnostica. Ireneo recuperò Giovanni all’ortodossia e da allora venne sempre considerato il documento e il fondamento scritturale della cristologia ortodossa (cf. p. 80). Inserendolo nel canone, la Chiesa delle origini riconobbe l’importanza di esprimere in modo nuovo la buona notizia al fine di raggiungere coloro che erano fuori dei consueti circoli del giudaismo. Anche prendendosi qualche rischio.
Gli Atti degli Apostoli
Negli Atti degli Apostoli, Gesù non appare quasi mai, dopo la pagina introduttiva di At 1,1-11. Pietro e gli altri ne parlano spesso nei loro discorsi e nella predicazione. Una peculiarità è l’uso de «il nome di Gesù/del Signore/di Cristo». «Signore Gesù (Cristo)» è un appellativo costante. Insolita è soprattutto la menzione de «lo Spirito di Gesù» (At 16,8). C’è la convinzione che la missione con potenza degli apostoli e di Paolo sia la prosecuzione della missione di Gesù. Gli sviluppi nella comprensione di Gesù sono espressi nei numerosi discorsi di Atti (Dunn ne elenca 17). Si può concludere che «Luca sia stato in grado di attingere alla tradizione e di incorporarla – non necessariamente ogni documento o ricordo specifico in sé, ma la tradizione che si ricollegava alle idee dell’oratore, e che, secondo il ponderato parere di Luca, le rappresentava e si presentava bene all’occasione» (p. 88). Luca ha fatto ricerche accurate e ha seguito la metodologia propugnata dallo storico Tucidide. I suoi resoconti sono attendibili. Ha recuperato anche materiale non-lucano.
Rappresentativi della concezione di Gesù sono il discorso di Pietro a Pentecoste e quello fatto a Cornelio. Gesù è presentato con una cristologia primitiva, quale uomo accreditato da Dio e costituito Signore e Messia dopo la risurrezione. Luca attinge da fonti molto antiche per comporre il discorso di Pietro. A Cornelio si ripete l’annuncio della morte e risurrezione di Gesù, l’implicita chiamata alla fede con la promessa del perdono e l’annuncio che Gesù è stato costituito giudice dei vivi e dei morti. Molti sono i caratteri primitivi presenti nel discorso (cf. pp. 92-93). «Luca sembra proprio aver seguito di nuovo la prassi tucididea di “tenere a mente le parole precise di quei discorsi che io stesso avevo udito”, espresse come riteneva probabile che il relatore le avrebbe comunicate, cercando nel contempo, per quanto è possibile, di tenersi “vicino al pensiero generale dei discorsi effettivamente pronunciati”» (p. 93).
Nei discorsi degli Atti, Gesù diventa il contenuto del messaggio. L’attenzione precipua cade sulla sua risurrezione. Non è presente ancora una teologia della morte di Gesù e l’attribuzione ad essa di un valore espiatorio (forse per influsso su Luca del giudaismo della diaspora). Manca una tensione tra il compimento e la fine imminente, non c’è un’escatologia realizzata, anche se c’è la convinzione che gli ultimi giorni sono già cominciati.
In Atti non vi è alcun ruolo attribuito a Gesù esaltato. Egli effonde lo Spirito, è l’autorità su cui si poggiano coloro che agiscono «nel nome del Signore»; manca la percezione dell’unione del credente e il Signore esaltato (cf. invece Paolo). Non c’è la formula «in Cristo». Si accenna al rapporto tra il Signore esaltato e lo Spirito Santo in At 16,7-8, con la peculiare espressione «Spirito di Gesù».
Manca il concetto e l’esperienza della figliolanza. Dio è il soggetto principale delle azioni narrate e anche, nella maggioranza dei casi, della risurrezione di Gesù (enfasi “adozionista”). Sottolineature della buona notizia nella predicazione di Atti sono la chiamata alla conversione e alla fede, la promessa di perdono e di salvezza, ovvero del dono dello Spirito a coloro che si aprono alla fede. Assente qualsiasi corollario etico al vangelo presentato.
Paolo
Al pensiero di Paolo su Gesù, Dunn dedica due capitoli interi (pp. 105-146). Paolo sposta l’asse dell’attenzione dalla Siria all’Egeo, apre decisamente ai pagani senza chiedere la circoncisione, organizza la colletta per i poveri di Gerusalemme per rispondere ai sospetti di tralasciare elementi fondamentali della giudaicità dei credenti in Cristo. La peculiarità del vangelo di Paolo è che la parola “vangelo” riassume la buona notizia su Gesù, coincidendo di fatto con la sua morte e risurrezione (almeno una sessantina di volte su settantasei occorrenze nel NT). Paolo sembra mostrare poco interesse alla vita e al ministero di Gesù prima della sua morte e risurrezione, pur conoscendo bene la tradizione su questo punto (e che lui trasmette a sua volta). Cita tre volte l’insegnamento di Gesù e vi allude molte volte nella sua parenesi. Accenna alla imitatio Christi e descrive Gesù come «forma di insegnamento alla quale i credenti sono stati affidati (cf. Rm 6,17). «Cristo morì per i nostri peccati ed è risorto il terzo giorno» è la frase con cui Paolo sintetizza il vangelo a lui trasmesso (cf. 1Cor 15,3). Il cuore del vangelo è la morte espiatrice di Gesù. Egli morì per espiare i peccati degli empi, dei peccatori, dei nemici di Dio. Egli attua un interscambio tra la sua situazione e quella dei peccatori, assumendo il peccato e liberando dal fardello gli uomini credenti in lui. La centralità della morte è espressa anche con la dizione «nel/mediante il suo sangue». Dio però ha risuscitato Gesù dai morti e la sua risurrezione è anche il segno del suo status di «Signore» (cf. Rm 1,1-4). Oltre alle categorie di “redenzione” e “riconciliazione”, Paolo usa spesso le espressioni «con Cristo», «in Cristo» e l’uso dei verbi composto con “syn-/con”.
Molte sono le metafore usate da Paolo per esprimere la sua teologia e il concetto di vangelo. La giustificazione mediante la fede in Gesù è centrale, assieme a quelle di redenzione, libertà, liberazione, riconciliazione. Le metafore forensi sono tratte dall’attività giudiziaria in cui l’imputato veniva ritenuto non colpevole o giustificato. Secondo il vangelo di Paolo, Dio realizza l’accoglienza o la giustificazione del peccatore. «La convinzione è che Dio accoglie il peccatore che confida in lui e che, pur colpevole di aver agito contro di lui, si affida alla sua misericordia. Nel pensiero giudaico “giustizia” denotava l’adempimento degli obblighi da un rapporto; giusto è ritenuta la persona che adempie a tali obblighi» (p. 120).
Per Israele, Dio che ha creato il mondo lo sostiene, è fedele a Israele infedele. La sua giustizia non è punitiva, ma salvifica. Talvolta il termine è reso meglio con «salvezza» o «vittoria». «Secondo Paolo, il punto chiave era che la giustificazione, per la quale Dio accoglie i peccatori nonostante i loro peccati, era per fede e non era determinata dall’individuo che attuava la Legge, o mediante le “opere della Legge”» (p. 121). Paolo lo sperimentò in prima persona e vedendo la recezione dello Spirito Santo da parte dei galati che non conoscevano la Legge ma avevano ascoltato la parola della fede. Per Paolo va evitato di aggiungere qualcosa alla fondamentale chiamata alla fede in Cristo (ad es. la circoncisione e le norme alimentari d’Israele) come se questo fosse importante come la fede (cf. l’incidente di Antiochia). Paolo non vuole abbandonare la Legge, anzi la conferma come guida della vita. Non è importante la circoncisione, ma «la fede che si rende operosa per mezzo della carità», afferma in Gal 5,6.
Paolo ama sottolineare la partecipazione del credente alla vita di Cristo. Lo esprime con le categorie «in Cristo» (83 volte), «nel Signore» (47 volte). Il vangelo di Paolo «può essere sintetizzato proprio in questi termini: (1) l’azione di Dio si è manifestata con la redenzione “in Cristo”; (2) la grazia salvifica è stata sperimentata dai credenti “in Cristo”; (3) i credenti hanno ora vita “nel Signore”. “In Cristo” indica dunque il vincolo, l’unità “con Cristo”» (p. 127). Per Paolo era importante non solo la fede, ma l’esperienza di essere stato preso dal Cristo risorto e vivente. È presente anche l’immagine inversa di «Cristo in noi» (cf. Gal 2,20; Rm 8,10; 2Cor 13,5; Col 1,27).
Paolo parla anche delle persone credenti che vengono inserite in Cristo (eis Christon). È l’incorporazione attuata con il battesimo, che nello stesso tempo inserisce nella Chiesa, corpo di Cristo. Il rapporto con Cristo conosce uno sviluppo, quello di diventare simili a Cristo (più tardi categorizzato come «santificazione») (Rm 8,29; 2Cor 3,18; Col 3,10). Questo comportava anche diventare come Cristo nella sua morte (cf. Rm 6,3). Segno determinante per il credente in Cristo era il dono dello Spirito (cf. Gal 3,2-5; 3,13-14). La comunità di Corinto era scritta non con l’inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente (cf. 2Cor 3,3). Icastica è pure la potente affermazione: «Tutti quelli che sono guidati dallo Spirito di Dio, questi sono figli di Dio» (Rm 8,1). Lo «Spirito di Cristo» è parimenti lo «Spirito di Dio» (cf. Rm 8,14). «Gesù non era semplicemente il Messia che era stato unto dallo Spirito di Dio, ma la divina potenza dell’unzione era talmente identificata con lui che lo Spirito di Dio poteva essere concepito come Spirito di Cristo» (p. 133). Paolo identifica dinamicamente «il Signore» sia con Gesù che con lo Spirito (cf. 2Cor 3,12-18). Il cammino verso la teologia della Trinità è avviato, col contributo fondamentale di Paolo. Il credente in Cristo ha la caparra e la garanzia dello Spirito, che costituisce la comunità dei fedeli in una comunità carismatica, ricolma dei doni dello Spirito. La comunità cultuale può operare efficacemente come corpo di Cristo solo mediante i doni dello Spirito. Dunn si chiede: «noi cristiani abbiamo perduto nel nostro culto qualcosa che Paolo riteneva essenziale per essere il corpo di Cristo?» (p. 136).
La speranza della parusia di Cristo era una convinzione di Paolo ereditata dai primi credenti. Attesa inizialmente come imminente, viene poi dilazionata al momento successivo al dilagare dell’azione del male nel mondo (1 e 2 Ts). Paolo pensa a Cristo non solo come Salvatore e a Dio solo come giudice. Parla di tribunale di Dio (Rm 14,10) come anche di un tribunale di Cristo (2Cor 5,10). Ci sarà la risurrezione dei corpi e il giorno del giudizio per tutti, «il giorno del Signore» e il giudice sarà Cristo (di qui si vede che Paolo conosce i risvolti evidenti di alcune parabole di Gesù). Lo si può affrontare con una certa sicurezza (1Cor 3,10-15).
C’è tensione fra il già e il non-ancora, caratterizzata dallo svilupparsi del processo di assimilazione a Cristo, un processo trasformativo per essere conformati a lui (cf. Fil 3,10-11), al suo corpo glorioso, alla piena adozione a figli che coincide con la redenzione del corpo (Rm 8,23). È un processo che il dono dello Spirito garantisce che sarà completato. Gesù è Signore che incorpora caratteri attribuiti nell’AT a YHWH.
Colossesi annuncia che Cristo è immagine del Dio invisibile, primogenito di tutta la creazione; tutto è stato creato in Cristo e in vista di lui, e tutte le cose sussistono in lui (cf. Col 1,15-17). Cristo è l’oggetto della speranza dei credenti. A lui tutto sarà sottomesso e poi anche lui sarà sottomesso al Padre, cosicché Dio sia tutto in tutti (cf. 1Cor 15,24-28). «Paolo resta un fedele monoteista. Il vertice è Dio» (p. 140).
Le Lettere Pastorali (1Tm, Tt, 2m) sono attribuite da molti studiosi alla tradizione paolina. La visione di Chiesa è molto diversa (cf. la presenza di vescovi/episkopoi), il contesto è mutato. Cristo si manifesta per essere il Salvatore inviato da Dio (2Tm 1,9-10), manifestazione della gloria dell’unico Dio. L’importanza di Gesù resta immutata, sia nelle Pastorali che in Giovanni. La cristologia è espressa in formule dottrinali e inniche definite come «parole degne di fede» (cf. Tt 3,5-8 che menziona Gesù Cristo salvatore nostro, il battesimo, la giustificazione per grazia, l’eredità – nella speranza – della vita eterna). La parusia è attesa, ma senza urgenza. La fede della seconda generazione si è fissata e conservata in formule che sintetizzano le convinzioni al centro del loro culto e della loro esistenza personale e comunitaria. La «fede, ancora iniziale, in Cristo si sta ampliando verso quelle più complesse e meglio definite convinzioni su Gesù che approderanno ai classici credi cristiani» (p. 143). Tali sviluppi sono attribuibili a Paolo o almeno alla sua influenza. Grande è il debito del cristianesimo antico verso l’apostolo per quanto riguarda la comprensione di Cristo. Le sue lettere furono considerate di permanente rilevanza e inserite quindi nel canone.
A p. 144 Dunn riassume «le prime volte» attuate da Paolo col suo pensiero. Lo studioso lamenta poi come nella vita della Chiesa si sia data più importanza a Pietro che non a Paolo, che nel NT ha un peso molto maggiore rispetto a Pietro. Per Dunn, Paolo che sfondò vecchie barriere e incoraggiò la vita nello Spirito a manifestarsi in forme e formule nuove «è colui che più giova al cristianesimo oggi, così come nella missione, per adempiere la quale diede la vita» (p. 145).
Lettera agli Ebrei e Lettere cattoliche
La Lettera agli Ebrei, forse di origine alessandrina, accenna a Gesù come sapienza con cui fu creato il mondo, la sua superiorità sugli angeli, la sua solidarietà con gli uomini e l’affidabilità presso il Padre, in quanto Figlio di Dio. Essa presenta la peculiare visione di Gesù come sommo sacerdote della nuova alleanza, secondo l’ordine di Melkisedek, e che per questo rimane in eterno. Con il dono della sua vita, Cristo entrò col suo sangue di espiazione dei peccati degli uomini nel Santo dei Santi dei cieli, al cospetto di Dio, aprendovi l’accesso a tutti coloro che credono in lui. Realizza in pienezza ciò che era adombrato nella celebrazione durante la Festa dell’Espiazione/Kippur.
Il suo sacrificio e il suo sacerdozio sono unici ed efficaci. Questo – secondo Dunn – rende inutile la presenza di sacerdoti nel culto quali intermediari (stoccata ai cattolici). Per lui le motivazioni del sacerdozio cristiano presenti in Lumen gentium sono eisegesi e difesa speciosa che non ha giustificazione nella tradizione. Secondo lo studioso, «il ricorso a un sistema cultuale che esige tuttora la mediazione sacerdotale e da essa dipende, equivale a rifiutare Ebrei e ad escluderla di fatto dal Nuovo Testamento!» (p. 158).
Ebrei vede Gesù Cristo come autore e perfezionatore della fede, di cui il c. 11 tesse una lunga lode per come è stata vissuta nella storia di Israele. Dunn fa notare che dopo il 70 d.C. l’ebraismo prese la strada della Torah e della figura del rabbino, e divenne una religione del libro e del maestro. Il cristianesimo era iniziato col centro sulla parola predicata e incarnata da Gesù, con sacerdote e sacrifici per niente al centro. Nonostante ciò, «nel II secolo, il cristianesimo ritornò alla concezione e alle pratiche religiose incentrate su sacerdote e sacrificio […] Mentre dunque nel giudaismo il rituale sacerdotale cedeva il posto all’esposizione della parola, nel cristianesimo la parola veniva di fatto subordinata alla reintroduzione del rituale sacerdotale» (p. 161).
Negli ultimi capitoli Dunn presenta il Gesù secondo le Lettere cattoliche: Giacomo, Pietro, Giovanni e Giuda.
La Lettera di Giacomo (che Dunn attribuisce a Giacomo vero fratello di Gesù) appartiene alla letteratura sapienziale e si rifà a Gesù e al suo insegnamento di illustre maestro di sapienza. A p. 167 Dunn presenta un elenco di esempi di dipendenza di Giacomo dalla tradizione di Gesù.
La Prima lettera di Pietro ha delle affinità paoline, dove Cristo è visto come mediatore tra Dio e gli uomini, la cui risurrezione è la base della loro fiducia e che porta eminentemente gloria a Dio. Gesù è chiamato «Signore» (1Pt 1,3, ecc.). Accoglie «pure il pensiero che tra la crocifissione e la risurrezione Gesù sia disceso agli inferi per attuarvi il suo ministero (1Pt 3,18-19)» (p. 171). 1Pt contiene vari echi della tradizione di Gesù. Va notata «l’influenza costante di Gesù e della sua dottrina sul cristianesimo, ormai ben consolidato in Asia Minore» (p. 171; a p. 172 si veda l’elenco di riferimenti di 1Pt alla tradizione gesuana). La sofferenza redentrice di Gesù sulla croce, che richiama quella del servo deuteroisaiano, è esemplare per i credenti chiamati a vivere non più per il peccato ma per la giustizia.
In 1-2-3 Gv si insiste sul realismo dell’incarnazione contro l’incipiente docetismo e gnosticismo. Presenta Gesù Cristo, il giusto, come un altro Paraclito. Si sviluppa il tema del rimanere in Cristo (cf. 1Gv 2,6.24; 3,24; 4,16; Gv 15). Occorre fare la volontà di Dio, non cedere alla violazione della Legge/anomia. C’è il pericolo dei falsi profeti (1Gv 4,1), denunciato da Matteo (cf. Mt 7,15, 24,11.24). Le «lettere di Giovanni attestano che il caratteristico modo giovanneo di ricordare Gesù era radicato nelle memorie, più o meno ampie, dei sinottici» (p. 177).
2Pt sembra attingere dalla Lettera di Giuda (che Dunn attribuisce al vero fratello di Gesù). 2Pt è di datazione tarda: considera le lettere paoline come Scrittura (2Pt 3,15-16) e il ritardo della parusia è diventato un problema (2Pt 3,3-12). Culmine della storia è «il giorno del Signore», mentre all’inizio della lettera si rimanda alla «giustizia del nostro Dio e salvatore Gesù Cristo» (2Pt 1,1). Si cerca di recuperare l’insegnamento di Pietro e si riporta la tradizione sulla trasfigurazione di Gesù (2Pt 1,16-17). Sembra che le risonanze dell’insegnamento di Gesù siano «molto flebili» (p. 179) e la «memoria del ministero di Gesù si sia piuttosto sbiadita […] La memoria di Gesù è tuttora viva, ma il grado di dipendenza dal ricordo della sua dottrina è piuttosto indefinito se confrontato con Giacomo e persino con Paolo» (p. 180).
Le Lettere Cattoliche sono un po’ trascurate, ma per Dunn hanno comunque il merito di manifestare «la ricchezza e la profondità della generazione fondativa del cristianesimo» (ivi).
L’Apocalisse
L’Apocalisse è un libro appartenente alla letteratura della crisi, che vuol infondere speranza alle comunità oppresse dalle prime persecuzioni scoppiate alla fine del I secolo. Il Giovanni veggente di Patmos, non meglio identificato, usa un linguaggio in cui applica spesso a Dio e a Gesù gli stessi titoli o espressioni di potenza, di gloria, di onore. Gesù è presentato con innumerevoli immagini che lo assomigliano al Figlio dell’uomo danielico, colmo di potenza e di Spirito, esaltato in cielo, Agnello di Dio. Partecipe della signoria rappresentata dal trono di Dio, è chiamato «Signore», «Figlio di Dio» ed è considerato espressione di Giuda e compimento delle speranze messianiche di Israele. Egli ha amato e dato la sua vita per i credenti e li ha liberati dal peccato col suo sangue.
La cristologia di Ap non è immediata o semplice. Molti titoli vengono attribuiti a Cristo nelle sette lettere alle Chiese che aprono il libro: Primo e Ultimo, morto e tornato in vita; ha la spada affilata a due tagli; è il figlio di Dio dagli occhi fiammeggianti, Colui che possiede i sette spiriti di Dio e le sette stelle: egli è il Santo, il Veritiero, Colui che ha la chiave di Davide, l’Amen, il Testimone degno di fede e veritiero, il principio della creazione. Egli fa la diagnosi dello stato spirituale delle Chiese e le invita alla conversione e alla perseveranza, promettendo la partecipazione alla sua stessa vita, dignità e potenza (trono).
Gesù è descritto soprattutto come «agnello/arnion (28 volte). È la metafora (non solo pasquale) di colui la cui morte è vista come sacrificio. È sgozzato ma vivo, pieno di vitalità e potenza (corni) e visuale onniveggente (occhi davanti e di dietro). Giovanni pensava anche all’«ariete/amnos», poiché Gesù Agnello condivide il trono di Dio, esercita il giudizio, conquista i suoi nemici, satana e i suoi alleati. Viene osannato dalla moltitudine delle genti e i suoi sette occhi rappresentano lo Spirito di Dio.
C’è flessibilità nel ritratto di Cristo, che rende impegnativo unificare i suoi complessi elementi, ma questo indica la difficoltà a limitare o a restringere troppo le enunciazioni che tentano di esprimere il rapporto tra Cristo e Dio. L’agnello pasquale vittorioso domina la storia, sorregge la comunità dei suoi fedeli nelle persecuzioni, giudica i nemici chiusi a Dio (drago, bestia dal mare, bestia dalla terra, Babilonia ecc.), guida la comunità dei credenti-fidanzata a diventare progressivamente la sposa dell’Agnello. La Chiesa e lo Spirito invocano con intensità la sua parusia.
Dunn ricorda che l’Apocalisse non va letta in modo letterale, ma con i suoi potenti simboli che intendevano rispondere alla crisi con una risposta che non esiste in modo diretto. L’ultimo libro del NT e della Bibbia è utile ancor oggi a trasmettere speranza e a far «guardare oltre il mondo immediato, con la speranza di resistere quando in questo mondo viene repressa la fede» (p. 194). Non è possibile creare un quadro cristologico coerente, unitario. L’importante è il fatto che «nella concezione giovannea Gesù venne ripetutamente visto come la chiave che rendeva comprensibili le crisi affrontate dalle Chiese e come fulcro della speranza per una risoluzione positiva di quelle crisi» (ivi).
Nella Postfazione («Gesù secondo…», pp. 195-196), Dunn invita a scrivere un libro con le esperienze di Gesù vissute dai lettori. Nell’Appendice 1 (p. 197) sono indicati probabili date e i luoghi di origine dei documenti del Nuovo Testamento, mentre nell’Appendice 2 (p. 198) è riportata una cronologia della vita e della missione di Paolo. Le date sono quelle classiche ma per Filippesi, Filemone e Col ipotizzate come composte a Roma c’è il dubbio espresso dal punto interrogativo. Si accenna inoltre al fatto che Efesini per molti studiosi sia stata composta dopo la morte di Paolo, così come le Lettere Pastorali. Chiudono il volume la bibliografia (p. 199), e l’Indice analitico (pp. 201-205).
Libro ricco di dati e di valutazioni, espressione sintetica del pensiero di un grande studioso del Nuovo Testamento e delle origini cristiane, oltreché predicatore della chiesa metodista. Il volume riporta solo rare note a piè di pagina e il linguaggio non conosce tecnicismi. Il testo risulta molto utile per avere una visione sintetica della cristologia del Nuovo Testamento.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 24 maggio 2021