Dopo aver insegnato per lungo tempo all’Università di Notre Dame, il quasi ottantenne teologo texano, Stanley Hauerwas, occupa, dal 1984, la cattedra di etica teologica alla Duke Divinity School. Egli pubblica in questo libretto le riflessioni tenute durante una liturgia a cui era stato invitato. Commentando le sette parole di Gesù in croce, egli non vuole cercare spiegazioni e approfondimenti psicologici, addomesticandone la forza e riducendola al nostro modo di pensare umano, ma restare sul piano teologico in cui si svolge il dramma trinitario della morte in croce di Gesù, figlio di Dio. Qui si rivela la troppa luce di Dio, mistero per questo.
«Quella storia, le sette parole di Gesù sulla croce – afferma l’autore –, ci costringe a riconoscere che il passato non è passato finché non è stato redento, il presente non può essere conosciuto con sicurezza fuorché alla luce di quella redenzione, e il futuro esiste soltanto nella speranza resa possibile dalla croce e dalla risurrezione di Gesù. In sintesi, perlomeno uno dei compiti della teologia, quello che ho cercato di svolgere in queste meditazioni sulle sette parole, è quello di fornire una lettura puntuale della Scrittura per il nostro tempo» (p. 15).
Egli si aiuta con l’apporto delle riflessioni di altri autori, specialmente quella di Hans Urs von Balthasar sul misterium paschale. Dopo l’introduzione (leggermente lunga e “aerea”, pp. 11-20), l’autore esamina le parole di Gesù in quest’ordine: 1. «Padre, perdona loro perché non sanno quello che fanno» (Lc 23,34); 2. «In verità io ti dico: oggi con me sarai nel paradiso» (Lc 23,43); 3. «Donna, ecco tuo figlio!»… «Ecco tua madre!» (Gv 19,26s.); 4. «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?» (Mt 27,46); 5. «Ho sete» (Gv 19,28); 6. «È compiuto» (Gv 9,30); 7. «Padre, nelle tue mani consegno il mio spirito» (Lc 23,46) (pp. 21-90). Chiude una breve bibliografia (p. 91-93).
L’autore sottolinea la piena umanità del Cristo, ma anche la drammaticità delle sue parole, vista la sua divinità. Essa sola può assumere la sofferenza e il peccato degli uomini e così invocare il perdono da parte del Padre e dare agli uomini la forza del perdono come l’ha avuta p. Christian de Chargé, il monaco martire di Tibherine.
Lo stralcio di alcune righe del volume può rendere l’idea del tono e dei contenuti presenti nell’opera. Soltanto «Gesù, l’unico Figlio di Dio, ha il diritto di chiedere al Padre di perdonare delle persone come noi, che ucciderebbero piuttosto di affrontare la morte. È per questo che siamo giustamente attratti dalla croce, per questo che giustamente ricordiamo le parole di Gesù, nella speranza che potremo essere per il mondo quel perdono fatto nostro attraverso la croce di Cristo» (p. 31). «Poiché sappiamo così poco di Gesù – continua Hauerwas –, la nostra fantasia corre libera per compensare la laconicità dei vangeli e, in particolare, di queste parole dalla croce. Tuttavia, sono convinto che la reticenza dei vangeli così come queste poche parole dalla croce non siano casuali. Al contrario, questo riserbo è un insegnamento divino che mira a coinvolgerci, a renderci partecipi del silenzio di una redenzione operata dalla croce» (p. 35).
Questo, al dire dell’autore, spiega il nostro turbamento di fronte alla croce di Cristo. Come il “buon ladrone”, anche noi chiediamo «disperatamente di venire ricordati, poiché temiamo di non essere niente. Per contro, questo ladrone domanda fiducioso di essere ricordato perché riconosce Colui che può ricordare. È straordinario. Quest’uomo riesce a vedere e a riconoscere che è proprio costui che salverà Israele. … Il ladrone capisce che questo Gesù è il santo di Dio, che vince la morte subendola» (p. 40). […]
Il linguaggio di Hauerwas è molto accessibile, senza tecnicismi teologici. Le sue riflessioni a respiro trinitario, con la loro semplicità, aiutano a vivere in modo profondo e corretto a livello teologico la Settimana Santa.
R. Mela, in
SettimanaNews.it 4 aprile 2020