«Camminando ogni giorno,raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno. I pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo, e non conosco pensiero così" gravoso da non poter essere lasciato alle spalle con una camminata. Stando fermi, si arriva sempre più vicini a sentirsi malati. Perciò basta continuare a camminare, e andrà tutto bene». Potrei confermare e comprovare pienamente queste righe che Soeren Kierkegaard scriveva in una lettera del 1847 all'amica Jette, righe che erano care anche a quella sorta di filosofo del viaggio che è stato Bruce Chatwin. Ritrovo questa affermazione citata in un delizioso saggio breve di uno dei maggiori teologi tedeschi contemporanei, Gisbert Greshake, classe 1933, a lungo docente a Friburgo in Brisgovia.
Dopo essersi inerpicato coi suoi studi lungo i sentieri che sfociano nelle regioni celestiali della Trinità, dopo essersi affacciato sull'oltrevita gettando lo sguardo nelle praterie infinite dell'escatologia, dopo essersi interrogato su uno dei grovigli mai dipanati dalla riflessione filosofico-teologica e letteraria, quello del male e della sofferenza, egli sceglie ora di inoltrarsi sui percorsi sassosi, ombrosi o assolati del trekking, addentrandosi non solo topograficamente lungo le pendici dei nostri monti Prenestini e Simbruini, ove passa le sue vacanze estive, ma anche simbolicamente entrando nel cuore del «camminare» come archetipo culturale e spirituale. Da teologo, potrebbe assumere come patrono dei viaggiatori san Tommaso d'Aquino che - nonostante il sovrappeso fisico - si è calcolato abbia percorso a piedi più di diecimila chilometri nei suoi non molti anni di vita (morì a meno di cinquant'anni).
Già in passato Greshake aveva scelto di penetrare con un suo libro in un panorama, altrettanto capace di generare metafore, come il deserto, spazio privilegiato per la stessa storia e spiritualità della Bibbia: chi non ricorda le steppe desolate del Sinai, con le sue piste che videro in marcia Israele verso la terra promessa da Dio? Ora è il camminare in sé che è sotto la lente della sua riflessione, tenendo conto subito del fatto che la via è già la vita, come ha testimoniato quella specie di vangelo della Beat generation che è stato il romanzo Sulla strada di Jack Kerouac. Ma anche il serioso Heidegger non esitava a intitolare una delle sue opere più note Holzwege, di solito tradotto con Sentieri interrotti, ma che il filosofo spiegava così: «Holz è un'antica parola per dire 'bosco', nel quale si aprono 'sentieri' (Wege), spesso coperti di erba. Essi talora s’interrompono all’improvviso nel fitto del bosco e si chiamano appunto Holzwege».
L'immensa letterattura di viaggio, a partire dall'Odissea,i diari basati su itinerari, il Grand e il Petit Tour, le narrazioni fantasiose di paesi remoti e di popoli misteriosi occupano intere biblioteche. A livello alto, questi testi sono spesso coperti da una patina «metafisica», con esiti talora sorprendenti. Ad esempio, nella classicità il viaggio reca sovente uno stigma negativo, visto come violazione del limite naturale. Pensiamo al folle volo di Icaro, antenato dei viaggi aerei, alla spedizione degli Argonauti verso un irraggiungibile vello d'oro, allo stesso Ulisse che si avvia oltre le Colonne d'Ercole, alla discesa senza ritorno di Orfeo all'Ade, all'ironia ante litteram di Orazio sulle crociere quando nelle sue Epistole scriveva: caelum, non animum mutant, qui transmare currunt, «coloro che fanno crociere,cambiano il cielo (ossia il clima),non però l'animo».
Ma non lasciamoci catturare da questo filone che ha in Montaigne un critico auto biografico («A chi mi domanda ragione dei miei viaggi, solitamente rispondo che so bene quello che fuggo, ma non quello che cerco») e ritorniamo, dopo questa «deviazione», al volumetto di Greshake. Esso in modo significativo è sottotitolato proprio così: Vie, deviazioni, crocevia, viae crucis. Certo, egli non può prescindere da quel supremo Viandante che fu Gesù Cristo, predicatore e guaritore ambulante, che l'evangelista Luca rappresenta mentre affronta la sua lunga marcia verso Gerusalemme, la città del suo destino ultimo terreno (un viaggio che occupa ben dieci dei ventiquattro capitoli dell'intero terzo Vangelo). Secondo Rilke, egli è «l'ospite che ogni volta va avanti» e non esita ad autodefinirsi come la «Via» per eccellenza (Giovanni 14,6), così come i primi cristiani saranno denominati «i seguaci della Via» (Atti degli Apostoli 9,2). Greshake, però, s'interessa appunto anche delle «deviazioni»: non si dimentichi che in ebraico i termini che indicano il peccato o la colpa rimandano letteralmente a un «deviare» o a uno smarrire la meta, per cui la conversione (e il vocabolo italiano è già trasparente) è shûb, un «ritornare» sulla retta via.
Emblematica in questo senso è la parabola detta del figlio prodigo (Luca 15,11-32), la cui trama è retta in filigrana da una deviazione e da un ritorno. Eppure anche queste esperienze di vagabondaggio al buio, di mete fallite, di passi sanguinanti possono essere feconde e trasformarsi in «crocevia», ove si scopre che il sentiero ingannevole talora è attraversato dalla «retta via» che conduce a salvezza. Anzi, il crocevia è di sua natura una sfida rivolta alla nostra libertà perché compia l'opzione giusta. Non per nulla, già nell'antichità classica si ponevano ai crocicchi delle strade le divinità protettrici, come Hermes, messaggero degli dei, o i Lari, patroni familiari e, nel cristianesimo, si collocavano croci, cappellette, statue o immagini di Maria e dei santi perché orientassero il fedele verso il percorso giusto.
Naturalmente largo spazio è riservato dal teologo tedesco in finale alla via crucis,un cammino processionale che segue le tappe delle ultime ore di Gesù, dalla condanna all'esito tragico della crocifissione sul colle gerosolimitano delle esecuzioni capitali detto Golgota, in latino Calvario, ossia «cranio». È l'attuazione dell'appello che lo stesso Cristo aveva indirizzato al suo discepolo: «Se qualcuno vuole venire dietro a me, prenda la sua croce e mi segua» (Matteo 16,24). Sulla falsariga delle «stazioni» tradizionali, Greshake propone una via crucis commentata che a una selezione delle quattordici soste del libero computo devozionale aggiunge la quindicesima che ha al centro il viaggio pomeridiano dei due discepoli di Emmaus, descritto mirabilmente da Luca nell'ultima pagina del suo Vangelo (24,13-35).
La conclusione del viaggio proposto da questo teologo è chiara: «Camminare è molto di più del moto fisico e comprende corpo, anima e mente. L'intera nostra vita è un unico grande invito a ripartire per un nuovo cammino... Ciò che conta è osare il primo passo, perché soltanto col primo passo dai alla tua vita una direzione».
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 7 giugno 2020, XII