Quello che subito colpisce di questa pubblicazione è che Queriniana abbia deciso di riproporre il testo a distanza di quarant’anni dalla prima edizione italiana e poi che si tratti di una «vita di Gesù» scritta da un romanziere giapponese. A rendere la scelta meno improbabile è evidentemente l’associazione di Shusaku Endo con il recente film di Martin Scorsese, Silenzio (2016), tratto da un precedente romanzo dell’autore (1969). La pellicola, giustamente lodata dalla critica cristiana, è stata accompagnata da un’ampia intervista di A. Spadaro al regista (Civiltà cattolica, 167, 24 dicembre 2016), in cui emerge come il film sia il frutto di un progetto durato un ventennio e dunque rifletta anche la vicenda personale del cineasta americano.
Che la storia dei missionari gesuiti nel Giappone del XVII secolo possa aver tanto colpito Scorsese, al punto da mantenere ferma per tanti anni l’intenzione di tradurre quella storia in immagini, è anche spiegabile per la potenza del tema del volto di Cristo che accompagna il protagonista per tutta la vita:
«Mentre parlo con loro, spesso mi viene alla mente il volto di colui che pronunziò il Discorso della Montagna, e immagino la gente seduta o in ginocchio accanto a lui, affascinata dalle sue parole. Quanto a me, forse il suo volto mi affascina a dismisura, proprio perché le Scritture non ne parlano affatto. Poiché non ne viene fatta parola, ogni particolare è lasciato alla mia immaginazione» (Silenzio, p. 49).
Durante le persecuzioni contro i cristiani è a quel volto che il prete ricorre per sopportare gli affronti: «Il volto di quell’uomo lo inseguiva come un’immagine vivida, vivente. Il Cristo sofferente! Il Cristo della sopportazione! Nelle profondità del cuore pregò perché il proprio volto potesse avvicinarsi al volto di quell’altro uomo» (p. 171). Ed è infine l’immagine di quello stesso volto che dovrà calpestare nel gesto di apostasia, indispensabile per salvare altri cristiani dalla morte: «vorrebbe premersi sul volto quel volto calpestato da tanti piedi… il prete solleva il piede… ora egli calpesterà ciò che ha considerato la cosa più bella della sua vita, ciò che ha ritenuto più puro, ciò che riempie gli ideali e i sogni di un essere umano» (p. 183). Ma è da quell’immagine che, dopo il lungo silenzio durato tutto il romanzo, Cristo infine gli parla invitandolo a calpestare: «Calpesta! Calpesta! Io più di ogni altro so quale dolore prova il tuo piede. Calpesta! Io sono venuto al mondo per essere calpestato dagli uomini! Ho portato la croce per condividere il dolore degli uomini» (pp. 183-184).
Scorsese ha scelto il «volto» di El Greco per il suo film, obbligando lo spettatore ad assumere quell’unica versione. Il romanzo invece garantisce la possibilità di tradurre in immagini personali, più intime e significative per la propria storia, e chi si occupa di riscritture sa che non c’è un limite alla proliferazione di tali rappresentazioni, tanto che si può solo parlare di «volti», nella necessaria accoglienza di una pluralità generata da una ricerca inesauribile. E il tema del volto di Cristo non può che essere presente anche in questa Vita di Gesù, come emerge sin dalle primissime battute: «Noi non abbiamo mai visto il suo volto, non abbiamo mai sentito la sua voce. Non sappiamo come fosse il volto di Gesù del quale voglio ora parlarvi» (p. 17). L’incipit sembra quindi ritornare al testo precedente, dal quale questo trae in qualche modo origine, come spiegato nel post-scriptum:
«Per molti anni, dopo aver terminato il romanzo Silenzio, mantenni la decisione di impegnarmi a scrivere in dettaglio un’immagine di Gesù così come il popolo giapponese può comprenderla» (p. 231).
Prima di affrontare il significato che il tema del volto assume in questa «vita», ci tengo a ricordare come anche questo secondo testo di Endo sia stato recentemente citato per essere diventato fonte di ispirazione, questa volta del teologo e poeta Tolentino Mendonça per il suo lavoro di dottorato: «Dovevo aver ascoltato questo episodio decine di volte, ma la cosa che mi ha spinto ad andargli incontro, intrigato e mosso da assoluto stupore, è stato un commento del romanziere giapponese Shusaku Endo, nel suo libro Vita di Gesù. […] Per me Endo è stato questo. Nel suo libro, spiega, in modo semplice, accessibile a qualunque lettore, un espediente piuttosto complesso ma molto frequente in letteratura: il cosiddetto «effetto di realtà». Ora, quello che Shusaku Endo sostiene è che la vicenda di quella peccatrice intrusa, che fa di tutto per toccare l’ospite, è un momento centrale nel vangelo di Luca, più efficace di molti altri nel trasmettere Gesù, anche più delle storie di miracoli perché proprio grazie all’effetto di realtà dà di Gesù un’immagine viva, sorprendente e reale» (Gesù. La sorpresa di un ritratto, San Paolo, Cinisello Balsamo 2016, 7-8).
A dispetto di quanto appena rilevato, è bene tenere a mente il fatto che l’autore intende scrivere una «vita» e non un romanzo. Ben al di là di qualunque tentativo di finzione, fa uso abbondante di fonti, sempre esplicitamente richiamate – i vangeli innanzitutto, oltre a una significativa integrazione di studi storici e biblici del tempo. Eppure, nonostante questo, il testo risulta essenzialmente una riscrittura, dunque un’opera letteraria da leggere all’interno delle coordinate del genere biografico e con l’intento dichiarato di voler offrire una precisa immagine di Gesù nel suo volto amorevole: «Il principale tema che corre per l’intera esistenza di Gesù era come provare l’esistenza del Dio dell’amore e come far conoscere al popolo questo Dio di amore. La vita di Gesù che sto per narrarvi si svilupperà su questo tema» (p. 63). In sintesi si tratta di una biografia «romanzata», che intende presentare un volto di Cristo comprensibile alla cultura giapponese, che amalgami lettura e interpretazione dei racconti evangelici alla luce dell’animato dibattito che si è svolto a partire dagli anni Cinquanta del secolo scorso sul Gesù storico e il Cristo della fede, integrata da un’esegesi del tutto personale.
Con queste premesse possiamo ora seguire il modo in cui l’autore compone la propria immagine di Cristo, che non finirà di stupire per la novità dei caratteri messi in luce, non necessariamente storici ma sempre portatori di un indubbio valore veritativo. Il primo tratto prende spunto da un versetto generalmente poco citato del quarto vangelo, nel quale si afferma che Gesù non aveva ancora cinquant’anni (8,57) e dal quale Endo deduce che «doveva sembrare più vecchio della sua età [e che] forse era così perché sul suo volto aleggiava costantemente l’ombra del dolore e nei suoi occhi stanchi si poteva scoprire una luce triste» (p. 19). L’uomo Gesù che ha attraversato la Palestina del I secolo portava dunque sul suo volto i segni della sofferenza, sperimentata nei tanti incontri con uomini e donne prostrati da ogni sorta di male e di miseria – «sentiva che tutti i dolori degli uomini del mondo pesavano sulle sue spalle» (p. 71). Gesù ne avrebbe assunto il carico ben prima degli anni di vita itinerante resi noti dai racconti evangelici, in quanto già a Nazaret avrebbe fatto esperienza della sventura, della malattia e dell’ingiustizia che le rende inguaribili. E come un leitmotiv torna a più riprese sull’istanza perché il lettore non la perda di vista: «Durante la vita a Nazaret Gesù, come uno del popolo comune, sperimentò l’odore del sudore, la miseria e la povertà dei lavoratori ai quali apparteneva» (p. 25).
Oltre al tema del volto, Endo recupera dal romanzo precedente anche l’altra grande questione che lì veniva assunta come domanda centrale, ovvero se Dio resti in «silenzio» di fronte al male oppure se «in ciò che esternamente sembra miseria c’è un profondo e imperscrutabile mistero» (p. 22). In Silenzio infatti il protagonista soffre sulla propria pelle il tormento dell’assenza divina, capace di rendere insignificante la vita e quindi la morte dei martiri che stanno scorrendo sotto il suo sguardo avvilito: «Al pari del mare, Dio era silenzioso. Il suo silenzio si prolungava [… ma] se non esiste, quanto diventa tutto assurdo! Quale assurdo dramma diventano le vite di Mokichi e di Ichizo, legati al palo e lambiti dalle onde. E i missionari che hanno passato tre anni solcando i mari per giungere in questo paese – che illusione è la loro!» (Silenzio, p. 76). Nella Vita a questo dilemma lacerante si offre una risposta: è Gesù la presenza amorevole di Dio alle umane sofferenze. In Silenzio è quindi Gesù stesso che alla fine parla al giovane gesuita: «Io non tacevo. Soffrivo accanto a te» (p. 203).
Tuttavia, in quanto uomo, lo stesso Gesù ha dovuto assumere una propria immagine del divino. E piuttosto della divinità giudicante e castigante presentata dai sacerdoti, egli pensa che l’unico Dio ad andare in soccorso ai bisognosi deve essere «qualcosa di simile a una madre affettuosa» (p. 39), «un compagno che divida le loro sofferenze e tristezze e pianga assieme a loro, come una madre» (p. 105). Portando avanti questa tesi, Endo sostiene dunque che oltre e accanto ai racconti di miracoli ci siano soprattutto i tanti «racconti di consolazione», in cui emerge come Gesù si avvicini ai tristi e ai sofferenti, condividendone la sorte. Questa sua sensibilità lo rende disponibile a comprendere e accogliere i gesti della peccatrice che incontra in casa di Simone il fariseo, le cui lacrime per Gesù sono un linguaggio efficace a esprimere la sofferenza e le umiliazioni subite: «Le lacrime erano sufficienti, erano sufficienti perché Dio andasse incontro a questa donna con gioia. Gesù deve aver risposto dolcemente: “Basta… so la tua tristezza”. Le parole che egli pronunciò in questa occasione sono tra le più belle di tutta la Bibbia: “Questa donna ha amato molto”» (pp. 68-69). L’interpretazione che, come visto, ha tanto colpito Tolentino Mendonça punta l’attenzione sulla tenerezza della scena, a cui l’autore invita il proprio lettore perché si senta a sua volta coinvolto e partecipe: anche tu non puoi non lasciarti toccare dalla tristezza della donna e dalla voce tranquilla del perdono, che suona come una musica. Un tale espediente letterario, usato qui come altrove – «Nei Vangeli nulla è scritto di questa eccitazione ma essa è rivelata con evidenza dalle parole di Gesù…» (p. 88); «Se immaginiamo le figure di questi discepoli che, in silenzio e con passo stanco, seguono Gesù attraverso la regione desertica e collinosa da Nazaret verso il nord, proviamo una sensazione triste» (p. 99) – non favorisce solo il coinvolgimento nella storia, come si direbbe per un romanzo, ma ancor più la comprensione di quanto è in gioco nella narrazione.
Il tentativo di fornire una figura comprensibile, in un quadro storico il più possibile esauriente, spiega l’inserzione di parallelismi attualizzanti: «Oggi questa regione è organizzata in kibbutz, si vedono fattorie agricole e frutteti, ma quando le terre coltivate finiscono, gli occhi incontrano terra grigia e desolata» (p. 31), «Oggi questi villaggi e paesi sono quasi sepolti sotto la terra e le loro tracce non sono evidenti. Magdala è sepolta sotto un bosco di eucaliptus, di piante selvatiche e di fiori» (p. 65). Sullo stesso piano si pongono le digressioni storiche volte a chiarire, ad esempio, che cosa sia una sinagoga (p. 65), il movimento degli zeloti (p. 84) o l’origine del battesimo di Giovanni in continuità e discontinuità con il rito di ammissione a Qumran. Qui, più che altrove, Endo si dilunga particolarmente nelle spiegazioni, a suo dire indispensabili alla conoscenza del contesto, tanto da ritenere incomprensibile l’assenza della setta essenica nel Nuovo Testamento, a cui evidentemente egli decide di porre rimedio (pp. 32-36; 40-42). Alla comunità di Qumran infine sarebbe da associare, simbolicamente, anche la presenza demoniaca incontrata da Gesù nei quaranta giorni del deserto raccontati nei vangeli, già che il potere mondano «era proprio l’unica cosa che gli esseni del monastero di Qumran ricercavano per il futuro» (p. 42).
Poiché l’autore non intende celarsi dietro una narrazione meramente romanzata, neppure si nasconde ogni volta che azzarda supposizioni basate sul solo intuito personale. L’«io penso» o l’«a me sembra» segnalano dunque con la massima evidenza queste inserzioni in uno spirito di ricerca autoriale, che accompagna il lettore nel compito ermeneutico. E tuttavia, al di là di questi passaggi, il ritratto nel suo insieme risulta davvero molto simile a quello di un personaggio della finzione, come non può che verificarsi ogni volta che si tratta del proprio volto di Cristo. Così, in questa «vita», l’uomo Gesù che si muove per la Galilea e la Giudea è un personaggio tragico, il cui destino è segnato dall’incomprensione che prima o dopo sperimentano molti di coloro che lo incontrano «appena si fossero accorti dell’impotenza dell’amore. Perché gli uomini, dopo tutto, cercano risultati concreti in questo mondo. Gli ammalati di essere guariti, i paralitici di camminare, i ciechi di vedere, essi anelano a risultati immediati» (p. 71). E poiché questa dimensione è ben espressa dall’affermazione di uno dei discepoli di Emmaus («Noi speravamo che egli fosse colui che avrebbe liberato Israele», Lc 24,21), il versetto lucano è accostato ai vari episodi in cui traspare la delusione della folla di fronte alle attese infrante. Gesù capisce tutto questo, ma non ancora come convertire nel cuore degli uomini l’immagine del Dio che giudica e punisce (oltre a restare silenzioso) a favore di un Dio d’amore – un dubbio che ne acuisce la tristezza e solitudine.
Accostare in modo insolito e non tradizionale diversi passaggi evangelici è solo una delle peculiarità di questo testo, che mentre può sortire un effetto stordente nel lettore italiano, risulta pure utile a ricordare come i propri assunti (personali ed ecclesiali) siano sempre inculturati. Dal punto di vista stilistico invece, stupisce l’uso della ripetizione, una modalità retorica poco stimata nel suo valore letterario, ma che qui non appare una preoccupazione per gli intenti dell’autore, che reitera costantemente il motivo di fondo affinché il suo lettore non sia mai distolto dall’interpretazione enunciata in partenza: «Gli uomini sono attirati dalle cose belle e affascinanti ma chiudono gli occhi su ciò che è triste e brutto. Per Gesù era il contrario. Egli sentiva amore per le donne di strada e per i lebbrosi riprovati dalla gente […] il peso dei loro dolori gravava sulle delicate spalle di Gesù» (p. 83). L’intento didascalico è tuttavia ben armonizzato nel testo, che potrebbe essere a pieno titolo stimato anche come catechesi contestualizzata.
L’ampiezza della ricerca storico-esegetica acquisita non sottrae originalità al «volto» ritratto, in quanto i detti e i fatti di Gesù assunti dai vangeli sono per lo più narrati in un modo poco abituale: «Forse egli deve aver mormorato in questi momenti: “Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?” (Mt 27,46). Questa preghiera del salmo che egli stesso pronunciò sulla croce, deve averla ripetuta per il miserabile popolo di Galilea» (p. 84). Come già rilevato, un versetto evangelico ritenuto particolarmente significativo viene sottratto al contesto di origine perché offra nuova luce a un altro episodio, talvolta persino contestando l’interpretazione tradizionale: «Il Sal 22 non è affatto un poema di disperazione ma un canto di adorazione del nostro Signore» (p. 191). L’aver riportato l’inizio della preghiera, secondo Endo, implicherebbe infatti il richiamo all’intero testo, che Gesù avrebbe recitato fino alla fine, incluse le parti di adorazione e fiducia. Analogo stupore coglie il lettore di fronte all’associazione dell’episodio della moltiplicazione con il discorso delle beatitudini che, secondo l’autore, si sarebbero svolti nello stesso luogo e durante il medesimo giorno. Inutile quindi cercare in questo testo una lettura teologicamente accurata o lagnare l’inadeguatezza storica ed esegetica, nonostante gli studi largamente citati. Le fonti sono proposte sempre dialetticamente, in un confronto critico diretto e aperto alla lettura di chi quei testi non li conoscesse. Ma l’obiettivo resta il desiderio di offrire il volto umano e amorevole di Gesù, un volto che secondo l’autore sarebbe stato rifiutato dagli uomini proprio dopo la dottrina enunciata sul monte: «Da quel giorno tra Gesù e la folla erano cominciati delusione e distacco» (p. 90).
Questo volto d’amore non può che rivelarsi pienamente sul Golgota nella fragilità umana di Gesù, a partire dall’incapacità di portare da sé il patibulum «sulle sue delicate spalle» e con «le sue esili braccia» (p. 181). Un’immagine di impotenza totale di fronte al mondo e tuttavia capace di dire l’essenza profonda del cristianesimo: «Sappiamo che il mistero dell’autentico cristianesimo è nascosto in questo punto che Gesù non può far nulla ed è debole […]. E noi sappiamo anche che divenire cristiani significa impegnarsi ad essere “deboli” su questa terra» (p. 185). La reazione della folla del tempo di fronte allo spettacolo di tale debolezza continua però a rispecchiare la gente di oggi tanto che, ancora una volta stupendoci, Endo sostiene come il perdono di Gesù ai suoi persecutori richiesto a Dio sulla croce suoni spiacevole ai giapponesi, ma egli spiega che «Gesù tenta di proteggere, meglio che può, gli uomini “senza amore”» (p. 188).
Coerentemente allora al suo volto amorevole, la morte di Gesù sarebbe salvifica anche per Giuda: «Gesù conosceva il suo tormento e con la sua morte versò amore anche su colui che lo aveva tradito» (p. 164). Ma aveva già suggerito questa tesi in Silenzio – «Cristo non è morto per i buoni e i belli. Morire per chi è buono e bello è piuttosto facile; duro invece è morire per i miseri e i corrotti» (Silenzio, p. 43) – con il personaggio di Kichijiro che, nella viltà di un essere semplice e misero, tradisce il missionario, tratteggiato come figura cristica non appena ne inizia la passione, che culminerà nell’apostasia.
In Silenzio rinveniamo l’eco di alcuni passaggi che tornano nella Vita, sebbene con una diversa intonazione. È il caso del richiamo alle rappresentazioni artistiche che hanno tentato di raffigurare il volto di Cristo: «Quello era il volto di un uomo crocifisso, un uomo che per tanti secoli aveva ispirato gli artisti. L’uomo che nessuno di quegli artisti aveva visto con i propri occhi e di cui tuttavia ritraevano il volto» (Silenzio, p. 75). Come altre riscritture, anche questa si misura con la tradizione iconografica che ha fissato un’interpretazione in immagini divenute universali. Ma in questo secondo testo Endo tende piuttosto a contestarle, come leggiamo per l’entrata trionfale a Gerusalemme che trionfale non sarebbe stata o per le ultime cene (a loro volta tutte riscritture del Cenacolo di Leonardo) che ritraggono la scena in un’intimità poco realistica: «Forse la vera “ultima cena” avvenne nell’atmosfera di una folla che si era spinta fin là e aveva circondato la casa […] in un’atmosfera satura di scontri drammatici tra Gesù e i pellegrini, Gesù e i discepoli» (pp. 149-150).
In questo modo la Vita riprende nella forma argomentativa quanto in Silenzio era presente nella modalità narrativa e romanzata. Ma nonostante l’individuazione di un preciso genere letterario (biografia o agiografia) e la presenza dell’autore come guida e interprete delle fonti, il polso del romanziere resta percepibile in non pochi passaggi. Questo tratto, già emerso nell’analisi proposta, è reso più esplicito laddove si offre un quadro possibile della coscienza di Gesù, in un tipo di narrazione tradizionalmente definita onnisciente: «Forse questa immagine di Dio non era ancora ben chiaramente delineata nel cuore di Gesù, tuttavia durante le notti nel deserto di Giuda, contemplando le stelle scintillanti, egli presentiva qualcosa sorgergli dal profondo del cuore» (p. 39); «Nel cuore di Gesù la tragica morte di Giovanni il Battista lasciò un segno profondo» (p. 58); «Cominciò a udire nel profondo del cuore una voce con la quale Dio chiamava lui solo. Egli già sapeva quanto era doloroso dare ascolto a quella voce» (p. 99); «Sarebbe venuto tra breve il momento nel quale questi pellegrini lo avrebbero abbandonato… quando sarà? Domani o dopodomani? […] Nel giorno nel quale questi agnelli sono uccisi, anch’io sarò ucciso» (p. 138); «Gesù sapeva che questa popolarità e sostegno della folla sarebbero finiti molto presto e in modo drammatico. Voi mi abbandonerete tra poco» (p. 141).
È ancora il tocco del romanziere a notare la tristezza nelle parole che Gesù rivolge ai discepoli in Gv 6,68 (p. 68) – «Anche voi volete andarvene?» – o a visualizzare la figura solitaria di Gesù che, sentendo avvicinarsi la fine, «precedeva i discepoli» (Mc 10,32; p. 126). Tale andatura narrativa si fa poi più chiara all’avvicinarsi della passione, che Endo definisce «terzo atto»: «Un romanziere giapponese come me, non se ne stanca mai, perché io non posso far altro che pensare che la scena della sofferenza e della morte di Gesù che vi è descritta, supera totalmente i molti altri capolavori tragici della storia letteraria» (p. 131).
La tragedia descritta nella Bibbia infatti non narra semplicemente la morte di un eroe, ma quella di un essere divino. La storia di Gesù possiederebbe pertanto un valore letterario di inusitata potenza. Sempre in bilico tra romanzo e storia, la vicenda di Gesù rinarrata da Endo può sollevare indubbiamente in molti lettori la questione del suo valore veritativo. Come prevenendo tale obiezione, l’autore affronta il discorso in due momenti.
La prima volta a proposito di molti passaggi della narrazione evangelica che si presentano come riscritture di brani dell’Antico Testamento: al di là dell’aderenza ai fatti, questi racconti contengono una verità profonda, spiega Endo, in cui è attestata la ricerca del credente. Allo stesso modo, se molto probabilmente Gesù non è nato a Betlemme in quella che tutti festeggiamo come la notte di Natale, per il fatto stesso che questo luogo e questa notte siano un riferimento importante per tanti credenti, diventano «verità dello spirito anche se non sono fatti reali» (p. 230). Analogamente allora il ritratto di Cristo contenuto in questa «vita» non si può occupare dei soli fatti ma, dichiarandolo apertamente, vuole rivelare la propria immagine, inevitabile frutto della proiezione di ciò che si è e si vive.
Questa Vita di Gesù va infine valutata all’interno del prolifico filone che ha inizio nel Medioevo inoltrato con Vita Christi di san Bonaventura e poi Vita Jesu Christi a quattuor Evangeliis et scriptoribus orthodoxis concinnata di Ludolfo di Sassonia († 1377), che ottenne un discreto successo fino all’Ottocento. A queste segue il testo delle Harmoniae evangelicae di Andreas Osiander del XVI secolo e nel secolo successivo la Historia Christi persice conscripta, simulque multis modis continuata a Patre Hieronimo Xavier, opera di inculturazione a favore delle Indie.
Se fin qui si tratta, in continuità con l’iconografia e i drammi sacri, di testi atti a istruire il fedele grazie a un accesso facilitato dalla narrazione, di impronta illuministica sono invece The true Gospel of Jesus Christ di Thomas Chubb e I frammenti di Herman Samuel Reimarus pubblicati da Lessing – e stimati da Schweitzer: «[prima di Reimarus] nessuno aveva tentato di comprendere storicamente la vita di Gesù». Anche Hegel si cimenta in una «Vita» (Das Leben Jesu. Harmonie der Evangelien, nach eigener Übersetzung) pubblicata a fine Settecento, probabile risposta al testo di Kant, La religione nei limiti della ragione. Lo scritto del filosofo di Königsberg si ferma tuttavia alla morte di Gesù, né durante la vita era stato presentato nella sua azione taumaturgica e miracolosa, in una visione prettamente razionalistica. È del 1800-1802 la Storia del grande profeta di Nazareth di Karl Heinrich Venturini, opera in quattro volumi che intervalla il resoconto dei fatti ad ampie spiegazioni. Compaiono qui temi di buon effetto sul pubblico, che saranno successivamente ripresi da vari autori, tra i quali il fascino di Maria di Magdala su Gesù o il rapporto tra Gesù e gli esseni. Anche in questo testo notiamo l’eliminazione dell’elemento soprannaturale e richiamiamo il commento di Schweitzer, secondo cui «direttamente o indirettamente tutte le vite di Gesù narrate si rifanno al tipo creato [da Venturini] e, benché nessuno lo citi, il suo libro è stato plagiato come nessun’altra vita di Gesù».
Dal XIX secolo le Vite di Gesù entrano a far parte del genere romanzo, espressione della modernità e di una nuova visione di soggetto. All’interno di questa diversa modalità narrativa le Vite possono essere più affini alla biografia o al romanzo di formazione. Da questo momento la proliferazione è tale da rendere difficile un resoconto puntuale. Si segnalano pertanto solo le opere più note o di maggiore rilevanza letteraria. Tra le prime ricordiamo Vita di Gesù di Ernest Renan (1863) e Vita di Gesù di François Mauriac (1936), tra le seconde invece L’ultima tentazione del greco Nikos Kazantzakis (1955), Lettere di Nicodemo del polacco Jan Dobraczynski (1952), La Gloria di Giuseppe Berto (1978), Il Vangelo secondo Gesù Cristo, controverso romanzo del premio Nobel José Saramago (1993), e Vita di Gesù di Ferruccio Parazzoli (1999).
A questo proposito richiamo un’osservazione di G. Angelini sull’atteggiamento di svalutazione a cui tutte queste opere sono oggi relegate: «Alla necessità di configurare da capo la vicenda intera hanno dato risposta in passato le molte Vite di Gesù prodotte; quel genere letterario è oggi squalificato dalla ricerca specialistica. Con ragione? La mia convinzione è che sia fino ad oggi possibile e necessario qualche cosa di simile a una vita di Gesù. Ma, appunto, qualche cosa di simile; di che cosa più esattamente si tratti, deve essere precisato».
A conclusione di questa lettura di Shusaku Endo, rilanciamo allora la domanda del teologo milanese, permettendoci di suggerire come parte della risposta vada ricercata nel riconoscimento dell’arte narrativa e letteraria all’interno del percorso teologico.
La ripubblicazione di questa Vita a quarant’anni dalla sua prima uscita dice quindi di una tenuta del testo, a dispetto di quelli che oggi ci appaiono «svarioni» quasi sconcertanti dal punto di vista storico ed esegetico. Le interpretazioni alquanto insolite, parzialmente dovute al diverso contesto di lettura, oltre a una fissazione degli studi a qualche decennio fa, appaiono meno significative se stimate a partire dalla richiesta dell’autore che, come visto, rivendica per la propria narrazione un valore di verità capace di attestare una ricerca credente profonda.
Per questo gli cediamo infine l’ultima parola, avvinti dalla sua passione per il volto di Cristo, qui resa nella voce del missionario gesuita di
Silenzio: «Le nubi sono scomparse dall’acqua ed è comparso invece il volto di un uomo – sì, nel riflesso nell’acqua c’era un volto stanco e incavato. Non so perché, ma in quel momento ho pensato al volto di un altro uomo. Quello era il volto di un uomo crocifisso, un uomo che per tanti secoli aveva ispirato gli artisti. L’uomo che nessuno di quegli artisti aveva visto con i propri occhi e di cui tuttavia ritraevano il volto – il più puro, il più bello che mai abbia ispirato la preghiera nell’uomo e abbia corrisposto alle sue più elevate aspirazioni. Non v’è dubbio che il suo vero volto fosse più bello di qualunque cosa essi abbiano immaginato» (p. 75).
M. Nisii, in
Archivio Teologico Torinese 2/2019, 181-189