Jürgen Moltmann, classe 1926, non cessa di stupire e all’età di novantacinque anni esce ancora con un libretto pieno di saggezza su un tema poco frequentato: la pazienza. «Viviamo in tempi di impazienza»: così esordisce il nostro autore (p. 5), ed effettivamente ha ragione. Non è certo il primo a notarlo, però è un dato di fatto che oggi la vita assuma un moto frenetico e basterebbero pochi esempi per mostrarlo.
Ma questa è solo la premessa, perché in realtà il libro parla del suo opposto: la pazienza, appunto. È una dimensione che dobbiamo imparare e con cui Moltmann ha dovuto confrontarsi in un momento particolarmente triste della sua vita: la malattia di sua moglie, Elisabeth Moltmann-Wendel, sua compagna di vita e apprezzata teologa, mancata nel 2016.
È significativo notare come determinate esperienze molto forti abbiano segnato il percorso di questo teologo, dalla permanenza in vari campi di raccolta britannici di soldati tedeschi prigionieri di guerra, dove diciottenne «fu incontrato da Cristo» e decise di studiare teologia, alla scoperta del pensiero di Ernst Bloch che ha dato lo spunto per la sua teologia della speranza. Tutta la riflessione teologica di Moltmann, dunque, risente di questo legame stretto con l’esperienza della vita vissuta e anche il percorso che qui ci viene proposto ha lo stesso andamento. Esso muove su due linee di forza: il rapporto fra pazienza e speranza e, soprattutto, il tema della la pazienza di Dio.
Moltmann ricorda che da giovane ha imparato a conoscere il «Dio della speranza» (da cui è nato il libro che lo ha reso famoso) e ad amare gli inizi della nuova vita, con nuove idee. Nella vecchiaia, «giunto sul passo estremo della più estrema età» (come canta il Faust nel Mefistofele di Arrigo Boito), ha imparato a conoscere il «Dio della pazienza» e a cogliere l’importanza di ogni giorno che ci viene donato. Del resto, prosegue, giovinezza e vecchiaia non devono essere viste o calcolate in base all’età anagrafica; ma nel rapporto con le due categorie della speranza e della pazienza. Si è «giovani» quando nelle nostre vite domina l’apertura al futuro e quando la luce della risurrezione illumina il nostro percorso, e si diventa «vecchi» quando si impara a sopportare le delusioni della vita e ci si avvicina al Dio della pazienza nel Cristo sofferente.
Le due dimensioni non si pongono una di seguito all’altra né si escludono a vicenda; spesso convivono nello stesso spazio di tempo. Del resto, senza la pazienza, la speranza diventerebbe superficiale e si dileguerebbe rapidamente al comparire delle prime difficoltà e, inversamente, la pazienza cadrebbe nella passività qualora si perdesse la speranza. Nutrita dalla speranza, la pazienza diventa una «passività attiva», diventa perseveranza, capacità di endurance.
Del resto, il fondamento e la forza del pensiero cristiano si radicano su un annuncio gioioso: «Dio ha una pazienza infinita con la sua creatura “essere umano”», afferma Moltmann, «perché Dio la ama, anche se già una volta si è pentito di aver creato gli uomini. Quindi Dio ha ancora speranza in una umanità che sia corrispondente a lui. La pazienza di Dio crea tempo per vivere» (p. 6). Se viviamo nel tempo della pazienza di Dio, questa vita risulta infinitamente preziosa: «Facendo risuonare in noi la melodia della sua pazienza, lodiamo Dio e diventiamo consapevoli che Dio gioisce con noi e di noi. La santificazione di questa vita sta nella corrispondenza al Dio santo» (p. 57).
Specchiandoci dunque nella pazienza di Dio, possiamo a nostra volta imparare la pazienza con gli altri (in particolare coi figli), con gli anziani che sono aggrediti dalla demenza o dalla malattia che conduce a morte, e anche con noi stessi. «Nella pazienza coi figli» sostiene ancora Moltmann «è la speranza, la forza della pazienza. Nella pazienza con chi è affetto da demenza e va incontro alla morte è l’amore, la forza della pazienza. Nella pazienza con se stessi è la fede, la forza della pazienza. Solamente la fiducia di essere perdonati in eterno ci fa guadagnare pazienza con noi stessi quali debitori. Questa fiducia in Dio sostiene la fiducia in noi stessi anche nella colpa [...]. Fede, speranza e amore sono anticipazioni del compimento nel Regno di Dio, per cui “queste tre cose rimangono”. Sono risonanze della pazienza di Dio e presagi della sua speranza nella nostra vita» (pp. 22-23).
E, conclude l’autore: «Occorre convivere con la morte della persona amata. Ma in che modo? “L’amore è più forte della morte”. Io comprendo così queste parole: nell’essere amati e nell’amare noi sperimentiamo il tempo compiuto. Questo è il presente della vita eterna. Questa felicità non tramonta. Neppure la morte ce la può rubare. La gioia della vita amata è essere senza tempo: è la consolazione nelle sofferenze del lutto e nel ritrovarsi soli. Lutto e felicità si accompagnano: io sono triste e lieto allo stesso tempo. È una comunione nuova con la persona cui ho voluto bene» (p. 87).
Alle riflessioni sulla pazienza, Moltmann aggiunge il testo di una conferenza tenuta a Milano nel 2014 e di un articolo, firmato insieme a L. Muraro, sul tema «Misericordia e giustizia». L’autore nella sua riflessione coniuga i due termini, facendo notare che, se la misericordia è soltanto un dono grazioso che discende dall’alto verso i più poveri, rimane una realtà umiliante per chi la riceve. La misericordia deve essere il motivo che colora le strutture della comunità umana − deve strutturarsi come giustizia e solidarietà. «Fare il bene» può significare che siamo dei privilegiati, che si possono permettere la carità – invece, costruire le condizioni perché il bene possa vincere, significa mettersi totalmente in gioco, cercare prima la giustizia e dare una valenza profetica all’azione diaconale.
L’esempio del Samaritano della parabola di Luca 10 è significativo: egli non si limita a soccorrere il malcapitato, ma mette in piedi una rete di sostegno (rappresentato dall’albergatore) e dà così spessore alla sua azione. Diventare prossimo dell’altro non è dunque soltanto un gesto estemporaneo, che dura un momento e del quale poi ci si disinteressa, ma è un «fare sistema», come si dice oggi, per edificare una realtà che prima non c’era. Conclude Moltmann: «La misericordia è, per così dire, il vertice missionario dello stato sociale [...]. La comunità solidale e lo stato sociale funzionano soltanto finché il mondo morale viene connotato da solidarietà e misericordia e non dall’ideologia capitalista dell’avidità [...]. La pietà personale è la traduzione della misericordia di Dio nella nostra convivenza umana» (pp. 122-123).
Con queste note non penso certo di aver esaurito la ricchezza di questo piccolo testo. Spero comunque di aver dato un assaggio della profondità intellettuale e spirituale con cui il nostro autore ha affrontato due temi estremamente attuali e delicati.
P. Ribet, in
Protestantesimo 4/2021, 281-282