L’opera di Chiodi, di cui si offre di seguito un’ampia presentazione, ha il merito di articolare una originale proposta sistematica nella quale si opera una ridefinizione organica della disciplina. Evitando il rischio di una disposizione paratattica delle tradizionali categorie della morale generale, l’opzione perseguita, raccogliendo precise indicazioni emergenti dalla riflessione di Paul Ricoeur, è di assegnare il baricentro tematico alla teoria della coscienza morale e credente attorno alla quale connettere gli altri elementi ascritti alla morale, compresi come «forme» della sua «esperienza concreta».
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La ricerca teologico-morale in Italia, sotto la spinta dell’impulso di rinnovamento auspicato dal concilio Vaticano II, è stata oggetto a più riprese di riletture retrospettive. Il punto di partenza abituale per tale esplorazione risulta la tormentata receptio dell’istanza allusa nell’inciso del decreto sulla formazione sacerdotale Optatam totius, n. 16 in merito agli studi teologici per una dottrina dei costumi contrassegnata da una più chiara impronta «scientifica» e da un radicamento solido e maturo sulla sacra Scrittura, anche sotto il profilo metodologico, individuando l’oggetto specifico della disciplina all’interno dell’opzione cristocentrica raccomandata dal testo conciliare. Il postulato di revisione, espressamente inserito nella stesura finale del documento, accanto ad altre indicazioni emergenti da altri testi del Vaticano II (Dignitatis humanae e Gaudium et spes su tutti), rappresenta, a cinquant’anni di distanza, uno sfondo a partire dal quale ciascun attore del dibattito teologico ha diversamente rappresentato il profilo disciplinare non senza subire l’influsso dei principali dibattiti che hanno attraversato il contesto ecclesiale, sociale e culturale italiano e internazionale. A prezzo di inevitabili semplificazioni è possibile indicare tre scenari di riferimento per la riflessione etica che si sono succeduti a partire dagli anni Sessanta del secolo passato sino ad oggi. Indubbiamente il fronte aperto con Optatam totius per la ricerca e la modulazione della teologia morale sembra, forse troppo precocemente, ridursi di ampiezza già negli anni successivi al concilio. Il forte dibattito pubblico conseguente alla preparazione e alla pubblicazione dell’enciclica Humanae vitae (1968) porta in primo piano, anche in Italia, l’attenzione all’etica normativa in riferimento sia alla genesi della legge morale sia alla sua ermeneutica, introducendo altrettante questioni inerenti al profilo generale dell’etica cristiana: la sua specificità a confronto con l’autonomia della ratio practica, l’entità propria della legge naturale e il ruolo proprio della coscienza morale, la funzione e il valore del discernimento operato dal magistero ecclesiale.
Più evidente, a partire dagli anni Ottanta del XX secolo, risulta la questione del soggetto, con una rinnovata attenzione al vissuto virtuoso e al profilo teleologico della teologia morale, all’interno del quale ricomprendere in modo più pertinente il pur imprescindibile momento deontologico. Non va comunque dimenticato come tale «svolta al soggetto», oltre che elemento sintonico al più vasto orizzonte culturale, abbia rappresentato per la morale cattolica e i suoi cultori anche una sorta di «uscita di sicurezza» per non affrontare di petto la questione normativa, sottoposta ai ben noti irrigidimenti operati dall’enciclica Veritatis splendor (1993).
Sotto questo profilo l’autorevole atto di magistero di Giovanni Paolo II, il primo espressamente dedicato ai fondamenti della morale cristiana, ha costituito un crinale interpretativo, attestato sul discriminante critico legato alla riproposizione da parte del magistero dell’impostazione neoscolastica, pur formalmente declinato all’interno di un orientamento genericamente «cristocentrico», sulla base di una chiara affermazione dell’oggettività dell’ordine morale. Un’opzione che, in qualche modo, intendeva chiudere la querelle sul profilo della disciplina e, soprattutto, operare un ridimensionamento di teorie più attente alle istanze del soggetto, della libertà e dell’autonomia della ragione.
Il riferimento alla questione della secolarizzazione e l’esigenza dialogica, in vista di una maggiore visibilità da parte dei teologi nell’ambito dell’opinione pubblica, con la conseguente attenzione alla possibilità di rivitalizzare l’etica civile, rappresenta il terzo scenario di riferimento, indicativo del cammino del primo decennio del XXI secolo, con il rinnovato interesse sul (o la pressoché definitiva presa di distanza dal) paradigma interpretativo della legge naturale, se con esso non si vuole intendere immediatamente il riproporsi della questione dell’immutabilità e dell’universalità della norma sotto il suo profilo razionale, bensì la ricerca di punti di riferimento imprescindibili per un ethos (pubblico) condiviso.
Nel volume di Maurizio Chiodi, Teologia morale fondamentale, che inaugura il progetto della Queriniana di affiancare all’analoga collana dedicata alla teologia sistematica un «Nuovo corso di teologia morale» articolato in sette volumi, sotto la direzione dello stesso Chiodi e dello scrivente, il quadro delle principali questioni sottese a questi tre snodi della ricerca teologico-morale è ben attestato, anche se non espressamente e pedissequamente ripreso. Il saggio mostra una peculiare autonomia di pensiero, recettiva dei molteplici dibattiti che hanno attraversato la morale cattolica negli ultimi decenni, e risulta particolarmente curato nella coerenza compositiva. Tale coerenza è rintracciabile nelle due parti del «manuale» con molteplici rimandi interni e guida, nella prima, una pertinente ricostruzione della tradizione e della riflessione sull’esperienza morale nelle scritture ebraico-cristiane, per poi offrire, nella seconda, un ampio momento sistematico nel quale emerge in modo evidente il peculiare tratto di una teoria dell’agire della coscienza credente.
Ai primi due capitoli è derogato il compito di contestualizzare nelle dinamiche del moderno e del post-moderno l’odierna riflessione morale. È operato uno scavo esplorativo per portare alla luce alcuni nodi fondamentali della cultura contemporanea, all’interno della quale è pensata e prodotta l’intelligenza critica della teologia sulle forme dell’agire. La modificazione della religiosità e del sistema delle credenze nell’età secolare (Charles Taylor) e le ambivalenze di una cultura post-moderna della soggettività, non di rado più incline ad accarezzare il profilo emozionale ed estetico che a indirizzare il volere dell’uomo verso ciò che merita dedizione, e, per altro verso, ad affidare la conduzione della vita al sistema di conoscenze e di operatività approntato dal pensiero tecnoscientifico, rappresentano il contesto all’interno del quale non semplicemente denunciare la «crisi dell’etica», ma ripensare la forma della vita buona. Non manca poi un’ampia escussione di indirizzi di pensiero, radicati nella modernità, che «hanno preparato la post-modernità» e «incidono ancora oggi sull’esperienza morale del credente e sulla sua ripresa riflessa nella teologia» (p. 23). Sono puntualmente individuati da Chiodi attorno a tre snodi: l’autonomia della morale e il giudizio su quella religiosa proposto da Kant, la critica radicale alla «morale» rintracciata in Nietzsche, l’influsso delle scienze dell’uomo in ordine alla comprensione del soggetto e della sua libertà. Questi snodi rappresentano altrettanti elementi che pongono in assetto una riflessione la quale, senza rinunciare a un preciso momento valutativo, non si sente autorizzata in primis a una risposta apologetica, ma assume pazientemente il compito di elaborare «una teoria della coscienza che mostri l’originaria relazione ad altri che è iscritta nell’esperienza di sé, costituendone la forma etica e religiosa» (p. 70).
1. Reperire i «nodi concettuali» fondativi: la receptio della rivelazione nella tradizione teologico-morale
L’esame della tradizione morale occupa un posto di rilievo nel testo, come già nella teologia morale fondamentale di Giuseppe Angelini. Maurizio Chiodi si impegna in un’opera di rilettura tesa ad approfondire l’emergenza di problematiche che continuano ad avere consistenza nella chiarificazione dell’assetto sistematico della disciplina, proposto nella seconda parte del volume. Ciò consente di correggere un difetto abitualmente connesso alla ricostruzione storica della disciplina nella manualistica recente nella quale, non di rado, risulta imprecisata la finalità di questo momento rispetto a quello biblico e sistematico, forse pensato più in ossequio a un’invalsa organizzazione del trattato dopo il Vaticano II, sulla scorta delle sobrie indicazioni conciliari, che in vista di una saldatura con l’atto di lettura dei testi rivelati e l’organizzazione della «morale generale». Più in profondità ciò consente di restituire valore alla ricerca storica nell’ambito teologico-morale, con un duplice guadagno. Quello più evidente a favore dei «teologi morali», per rendere ragione dell’emergenza di categorie e modalità di comprensione che non cessano di essere, anche per il presente, oggetto di ripresa, talvolta in forma acritica, conferendo uno spessore interpretativo adeguato agli elementi fondanti l’esperienza morale. Ma anche a favore degli «storici», stimolati ad ampliare la lettura dei dati, alla luce di una migliore intelligenza dei problemi teologici ad essi sottesi. Questa consapevolezza risulta chiaramente espressa da James F. Keenan, che assegna al settore dei saggi di storia della teologia morale l’ambizioso compito di unire al ritorno riflessivo sul passato la sporgenza su ambiti particolarmente sensibili negli attuali dibattiti che attraversano la disciplina.
La verifica della permanenza e degli sviluppi di contenuti e forme di ragionamento in ambito morale; la possibilità di correggere, grazie a una migliore intelligenza dei processi storici, tendenze e modalità di pensiero attualmente accreditate; una più esplicita comprensione scientifica della materia attraverso l’esame critico sulla sua evoluzione; l’opportunità di reperire prospettive di progresso della riflessione a partire da una più salda conoscenza del deposito di tradizione, delineano un compito per il teologo morale che, superando la semplice operazione ricostruttiva, si propone di riprendere momenti del passato con l’impegno di colmare la loro distanza temporale e culturale, evidenziandone indubbi aspetti di valore per la riflessione contemporanea. Pertanto si dà ragione, come proposto da Chiodi – che assume l’intuizione a suo tempo sviluppata da Giuseppe Angelini – della precedenza del momento storico su quello biblico, individuando in tale scelta l’adesione a un’ermeneutica implicante una «circolarità tra il pensiero teologico riflesso e l’interpretazione del testo biblico». La ricostruzione storica del pensiero morale, frutto della lettura reinterpretante della rivelazione biblica all’interno di differenti orizzonti culturali, può così introdurre «ad una lettura meno ingenua della sacra Scrittura» in quanto istruita previamente «dal pensiero nel quale i cristiani l’hanno ripresa e attualizzata» (p. 72). Va dato merito all’autore di aver saputo evidenziare con precisione il debito che ciascuna fase del pensiero cristiano ha impresso nella teologia morale. Senza entrare in una disamina analitica, è possibile rintracciare nella densa scrittura di Chiodi la rivisitazione di alcuni temi che rappresentano imprescindibili riferimenti problematici anche per l’odierna riflessione teologico-morale.
Nella patristica risulta centrale l’impegno di edificare la personalità del credente e plasmare le forme dell’agire cristiano. Ciò ha comportato, fin da subito, una particolare recettività (ma anche reattività) rispetto alla cultura filosofica del tempo, soprattutto stoica e neoplatonica, il cui merito è stato «di provocare l’interrogativo sulla specificità della morale cristiana e sul suo nesso alla cultura e alla filosofia greca» (p. 76), senza per questo dimenticare come già i primi padri abbiano dovuto ricomprendere l’ascendenza e lo smarco del cristianesimo rispetto alla matrice giudaica per riferimento al valore e al senso della Torah mosaica. La ricostruzione rintraccia un momento centrale nel pensiero di Agostino con la sua impronta decisiva riferita a problematiche ricomposizioni concettuali che si proporranno nella seguente teologia scolastica e moderna. Tra queste merita di essere segnalata, in primo luogo, la tensione tra il primato di Dio, unico «oggetto» degno di amore, per definire il desiderio proprio dell’uomo, e la modalità adeguata del rapporto con le realtà create. A riguardo, una possibile ermeneutica dei testi agostiniani può indurre ad accentuare la relazione di subordinazione al superiore amore per Dio di quello per l’altro (prossimo), rendendo meno evidente come il riconoscimento di Dio e il suo primato nella vita del credente «non può essere separato dalla mediazione storica […] perché Dio si dà simbolicamente nei segni del suo buon volere verso gli uomini. Il desiderio – argomenta Chiodi – è buono non se si allontana dalle «cose», ma quando le ama riconoscendone lo spessore simbolico. In secondo luogo la relazione all’amatum dipende dalle libertà umana nel suo rapporto a Dio, che non può prescindere dalla mediazione simbolica dell’agire e si decide nelle relazioni concrete (p. 109)».
Al contributo dell’Ipponate si deve, inoltre, l’introduzione nella teologia occidentale dello scavo riflessivo attorno al rapporto tra «libertà» e «grazia» sotto la spinta delle polemiche dottrinali del tempo. Agostino, con riferimento all’interpretazione pelagiana, ha inteso giustamente difendere il primato della «grazia», ma, secondo Chiodi, avrebbe «troppo insistito su ciò che l’uomo non può senza la grazia, accentuandola in modo unilaterale ed estrinseco rispetto alla libertà umana» (p. 121). Il problema condizionerà la riflessione teologica seguente, ripresentandosi con particolare evidenza soprattutto nell’età moderna a stretto contatto con il pensiero dei riformatori e la replica del Tridentino, per essere ripreso, di lì a poco, all’interno del cattolicesimo, in riferimento alla polemica baiana e giansenista, ma di fatto restando per la più parte sottotraccia nello svolgimento programmatico della theologia moralis del manuale, preoccupata, come noto, della risoluzione pratica dei dubbi di coscienza. La questione antropologica, nell’intreccio tra grazia e libertà, domanda pertanto di essere ripresa come un nodo concettuale ineludibile nella costruzione di una morale fondamentale. Tale aspetto non risulta adeguatamente considerato nell’ambito disciplinare dell’etica cristiana, anche a motivo dell’attribuzione del tema ai trattati di teologia sistematica e fondamentale con una persistente parcellizzazione del sapere teologico a scapito di una necessaria operazione intellettuale in vista di una sua migliore integrazione.
La scolastica medievale persegue l’idea di teologia come scienza, ma altresì introduce la questione della modalità di accesso alla veritas con la posizione del duplice livello di ragione e fede, o di natura e sopranatura, che tenderà a essere accentuata nelle successive fasi del pensiero cristiano. Accanto all’indole scientifica assunta dalla teologia e dal suo modus operandi, per la riflessione morale risulta decisivo il contributo prodotto da Tommaso nell’analisi dell’atto umano (o morale) e dei suoi parametri di valutazione. Il tributo all’antropologia delle facoltà porta a enfatizzare il ruolo che rispettivamente intelligenza e volontà vengono a rivestire nella qualificazione propriamente umana dell’agire, con la ben nota accentuazione della prima, rispetto alla quale la volontà è chiamata a determinarsi in riferimento a ciò che ha ragione di bene per l’intellectus dell’agente. Questo radicamento dell’agire nella dimensione antropologica rappresenta un contributo rilevante a livello teorico, ma altresì si espone a un limite preciso – accentuato soprattutto nella scolastica barocca – nel posizionamento dell’alternativa tra le preminenti facoltà antropologiche cui riferire l’agire libero del soggetto. Come riconosce Chiodi, «il superamento reale dell’alternativa richiederebbe di andare oltre un’antropologia delle facoltà che distingue la volontà dalla ragione come due facoltà separate, e di pensarle invece l’una e l’altra come l’universale e il singolare della coscienza come totalità» (p. 143). Va riconosciuto, in ogni caso, come il rapporto tra ragione e volontà nella Summa tommasiana sia decisamente complesso, pur orientandosi verso il primato della ratio impegnata a offrire alla volontà l’oggetto buono da perseguire nell’azione. Tuttavia, là dove a un’analitica dell’azione subentra una sua descrizione dinamica (STh I-II, qq. 6-17), l’Aquinate sembra tendere piuttosto a un richiamo circolare tra di esse, più che a un rigido schema di subordinazione (precedenza) di una delle due facoltà.9 Nello studio dell’atto umano e della sua valutazione si evidenzia l’impegno di Tommaso a ricercare un equilibrio tra l’oggettivismo estrinsecista, proprio degli antichi libri penitenziali, e l’accentuazione sull’intenzione soggettiva conferita nel modello etico di Abelardo. La soluzione dell’Aquinate, comunque, sembra rilanciare ulteriormente il disagio per una corretta relazione tra la species dell’azione sotto il profilo oggettivo, segnalato dal finis operis, e la sua qualificazione interna conferita dal finis operantis, a partire dalla quale è possibile, tuttavia, arrivare a una considerazione integrale dell’oggetto morale su cui verte l’atto di deliberazione personale. «Ma – afferma Chiodi – il modello teorico che prevede nello stesso atto due fini e due oggetti finisce per separare artificiosamente l’oggetto vero e proprio (actus exterior) e l’oggetto del fine (actus interior)». Il primo coincide con quanto è conosciuto come bene dalla ratio e domanda di essere voluto come fine dalla volontà, senza che «l’agire pratico concorra in alcun modo alla conoscenza del bene». Per questo il difetto evidente è che in tale modello non si rende ragione della correlazione originaria tra «ragione» e atto pratico e così si contrappone l’oggetto al soggetto, ponendo le premesse per due orientamenti morali, oggettivismo o soggettivismo, opposti ma fondati sulla stessa presupposizione (cf. 145-148).
La riformulazione nella theologia moralis post-tridentina di alcune tesi dell’Aquinate porterà ad accentuare in modo estrinsecista l’ambito oggettivo (regolato dal plesso delle leges e dagli atti comandati dalle differenti virtutes) e quello soggettivo della coscienza, enfatizzando parimenti il rilievo dato alla libertà intesa come spazio inizialmente in-differente per l’agire in assenza di una precisa e certa obbligazione sanzionata dal dispositivo oggettivo delle norme.
Accanto a questi elementi – e altri puntualmente segnalati nel testo, come nel caso della lex naturalis – che impegnano il teologo morale a oltrepassare, almeno in parte, l’assetto conferito alla scienza morale da Tommaso, la sua lezione risulta di attualità su aspetti lasciati abbastanza in ombra dalla successiva ripresa tomistica: la «centralità della ratio practica nell’agire umano», con il suo peculiare statuto rispetto alla conoscenza speculativa, che consente «di reinterpretare in senso non materiale né astratto l’istanza della ragione morale, nella articolazione tra lex naturalis, synderesis, conscientia, prudentia»; il tema della gratia, nel suo configurare l’elemento proprio della lex nova, operando quasi un ripensamento dell’intero trattato delle leges, «sia perché la lex nova è indita in noi e dunque non è principium exteriore sia perché essa è di difficile integrazione con la nozione di lex naturalis, che è centrale in Tommaso» (cf. p. 161). La tematizzazione della lex nova come gratia, secondo il modello tommasiano, può, pertanto, condurre «a dare rilievo alla storia, intesa sia come evento della rivelazione sia come esperienza umana nella sua costitutiva forma pratica, temporale, storica, narrativa» (p. 162).
L’orientamento della teologia morale in età moderna non coincide solo con la stagione della «casistica», istruttiva per il sacerdote confessore, e la sua repentina crisi, già a metà Seicento, nelle interminabili polemiche sui sistemi morali e sul valore della opinio probabilis per il raggiungimento di una certezza pratica per agire sine formidine peccati. Non può essere misconosciuto il peso dottrinale dei trattati De gratia e De iustificatione del concilio di Trento sulle successive polemiche teologiche all’interno del cattolicesimo in tema di libertà e grazia. La questione resta ancora sullo sfondo delle polemiche più minute che attraversano la morale in riferimento alla questione del probabilismo. In questa prospettiva si coglie l’episodio del giansenismo, che, nei suoi primi esponenti seicenteschi, soprattutto in Arnauld e Pascal, tenderà ad accentuare la «differenza» etica del vangelo rispetto all’etica naturale, contrastando la metodologia «razionale» dei novatores impostata sulla ricerca del sufficiente criterio di «probabilità» per lo scioglimento del dubbio di coscienza sul valore dell’azione. La ricostruzione della disputa sui sistemi morali restituisce una debolezza perdurante nella teologia morale moderna: quella del probabilismo di giustificare, con le ragioni della libertà, una possibile arbitrarietà di valutazione, sganciata da un riferimento fondato sui criteri normativi oggettivi; quella delle correnti rigoriste di porgere al soggetto, più che un criterio di misurazione della qualità del proprio agire, la certezza della lex, per limitare il giusto esercizio della recta ratio.
Questo giudizio è correttamente espresso da Chiodi in riferimento alla querelle tra «giansenisti» e «probabilisti»: Se c’è davvero una cesura tra la ragione casuista dei probabilisti e l’esperienza pratica del credente, e su ciò ha ragione Pascal, è assurda però la pretesa di negare alla ragione pratica di argomentare, sulla base dell’universale esperienza antropologica ed etica. La reazione giansenista aveva il pregio di denunciare il difetto estenuante del lassismo, ma lo faceva sullo sfondo di un’indebita rigidità morale ridotta anch’essa a norme giuridiche e materiali e nell’orizzonte di una struttura di pensiero che paradossalmente ne manteneva i presupposti (pp. 190-191).
Il periodo contemporaneo (secoli XIX-XX), al di là della ricorrenza di schemi espositivi manualistici, ulteriormente appesantiti dal moltiplicarsi degli interventi dottrinali del magistero ecclesiastico, e di istanze di «rinnovamento» teologico e biblico della disciplina, trova un punto di sensibile criticità nell’«etica della situazione», soprattutto per il tentativo operato da alcuni teologi cattolici di riaprire la questione della legge naturale, delle norme universali e assolute ad essa ricondotte, e del primato del giudizio interiore di coscienza. Tali ipotesi, come a suo tempo riconosciuto da Rahner, corrispondevano a un effettivo confronto con le istanze della complessità sociale, di fronte a un modulo espositivo fortemente condizionato da uno schema deduttivista di applicazione delle norme rintracciabili nella lex naturae e nei precetti della rivelazione. Inoltre suggerivano una correlativa attenzione alla dinamica storica e personale dell’agire. Ma anche il tentativo rahneriano di una «etica esistenziale formale» (1961), avveduto dei limiti ascritti all’etica della situazione censurati dal Sant’Uffizio nel 1956, secondo l’esegesi offerta da Chiodi, risulterebbe imprigionato nei presupposti del modello «trascendentale» di poter comprendere la struttura del soggetto a priori «senza mettere a tema l’interpretazione della sua storia e della sua effettiva esperienza», finendo per mantenere «la distinzione tra l’etica universale (oggettiva) e l’etica individuale (esistenziale) pensandole come due momenti successivi del pensiero riflesso» (p. 207). Così, pur avendo colto che nella coscienza è iscritto il rimando alla verità universale che trascende e compie il senso dato nell’esperienza singolare, Rahner non sarebbe riuscito a pensare la modalità per mantenere insieme «l’obbligatorietà morale (universale), che garantisce da un soggettivismo arbitrario» e «la rilevanza della situazione (singolare) in ordine al discernimento dell’appello della volontà di Dio» (p. 206). Su questa aporia rahneriana Chiodi traccia il compito da perseguire nella parte sistematica del suo volume: «Pensare la verità non come ciò che è conosciuto dalla ragione bensì dalla coscienza, nelle forme concrete dell’esperienza morale, insieme agita e patita, partendo quindi dall’identità del soggetto che, segnato dalle sue relazioni originarie (ipseità), ha un costitutivo profilo morale (p. 207)».
2. Fede e morale: tra Torah ebraica e scritture cristiane
Il compito riflessivo introdotto nella sezione storica guida la ripresa ermeneutica della sacra Scrittura, che attesta la rivelazione in una forma «non riducibile a una conoscenza concettuale nella quale ci vengono comunicati idee o insegnamenti da apprendere», ma come annuncio della «prossimità di Dio all’uomo», nella consapevolezza per cui «questo evento assoluto accade nella storia di un popolo, la cui risposta pratica – nell’agire della fede – è inclusa nella rivelazione stessa come sua parte costitutiva». Inoltre – secondo la peculiarità delle scritture cristiane – nell’esperienza di fede della prima comunità, anticipata dalla parola e prassi di Gesù, si spezza «il nesso tra religiosità e identità etnico-culturale, tipico dell’ebraismo» e si introduce la possibilità (necessità) di un’apertura universale dell’esperienza morale (cf. pp. 210-211).
La Torah del Primo Testamento è posizionata da Chiodi in rapporto dinamico rispetto alla promessa e al compimento, secondo l’andamento stesso del racconto esodico, nel quale la Legge è consegnata al popolo nel tempo del deserto e della prova, per saggiare la qualità della fede nell’Unico all’origine della propria libertà e in vista del suo compiersi: «La promessa attuata nella liberazione è l’anticipazione del suo compimento. Il “tempo della Legge” precede questo compimento, a patto che alla promessa si dia un credito incondizionato. […] Il comandamento viene dopo la liberazione, ma prima del compimento (p. 216)».
L’attestazione della Legge, soprattutto nel codice delle Dieci Parole, conferisce forma pratica all’alleanza. La precedenza sorprendente del dono, che si annuncia nell’autopresentazione di YHWH, consente di articolare il profilo della libertà come autorizzata appunto da tale dono e chiamata a custodirlo, pena il ritorno a una condizione servile, nell’atto in cui se ne riconosce l’origine nell’Unico da tutelare come Altro, senza indebite manipolazioni o appropriazioni. Tale logica della fede, senza soluzione di continuità, configura anche la seconda tavola del Decalogo, portando a comprendere che è possibile permanere nella libertà «vivendo relazioni buone in mezzo a un popolo di fratelli». La saldatura tra fede e morale, tra la dimensione verticale della relazione con Dio e quella orizzontale del legame sociale istituito dalla relazione di prossimità, è ricondotta da Chiodi, seguendo Beauchamp, al «ricordo» e alla «santificazione» del «sabato» (cf. p. 237). In esso trova composizione il massimo di particolarità legata all’esperienza di fede di Israele e il potenziale universalista del riconoscimento della prossimità oltre gli stessi confini etnico-religiosi, con la significativa menzione dello straniero cui estendere il riposo festivo.
Se l’agire morale, secondo la descrizione introdotta da Chiodi, «è la forma della decisione della fede», esso è ricompreso ulteriormente per il credente «come risposta pratica alla rivelazione storica di Dio in Gesù». Pertanto l’esperienza morale cristiana «si fonda sulla singolarità dell’evento di Cristo», senza per questo eludere la comprensione dell’universalità dell’interpellanza morale alla coscienza di ogni uomo (p. 272). L’esposizione dell’etica neotestamentaria è orientata a un disegno di fondo teso a istituire un nesso tra l’annuncio escatologico dell’irruzione del regno di Dio e la «vicenda personale di Cristo nella quale il Regno è presente (cristologia), realizzando definitivamente una nuova forma dell’umano (morale)» (p. 279). Il punto di snodo, che forse poteva essere maggiormente esplicitato, va rintracciato nella «coscienza filiale» di Gesù e dunque nella sua singolare relazione con il Padre. A partire da essa si salda la dimensione teologica della rivelazione di Dio che viene per giudicare e graziare e quella escatologica della vicinanza del Regno. In ogni caso risulta pienamente condivisibile l’osservazione sintetica di Chiodi, secondo cui «l’etica del Nuovo Testamento non è riducibile a un agire che si autodetermina, poiché in essa è il dono che precede, si fa appello e suscita, orientandola, la decisione e questa appartiene in modo costitutivo all’evento», istituendo, oltre l’opposizione bultmaniana, un nesso «tra indicativo e imperativo, per cui l’agire non è semplicemente la conseguenza bensì la necessaria testimonianza dell’annuncio evangelico» (p. 279).
Nella predicazione di Gesù la Torah è liberata da ogni inquadramento riduttivo teso alla proliferazione di singoli precetti esposti e interpretati nel loro profilo legalista: «La morale del Discorso della montagna è contro il minimalismo giuridicista. […] Essa, diversamente dalla norma giuridica, non proibisce atti esterni, ma sottopone l’agire a «radicale» reinterpretazione, come determinazione e forma della coscienza nella sua totalità (cuore)».
La «legge della perfezione», cui sono introdotti i discepoli del vangelo, «non è altro che la “legge compiuta”, portata a quelle conseguenze cui solo Gesù può farci giungere, mediante il dono del suo Spirito. […] Tale legge comporta un’immaginazione creativa, che richiede l’assoluta ubbidienza del soggetto, senza però che le sue forme siano predeterminabili a priori (pp. 300-301)».
Il ruolo primaziale (e sintetico) del «comandamento dell’amore» per l’etica cristiana domanda, pertanto, una rilettura che ne superi l’ovvietà. Nella formulazione sinottica, in stretta referenza con Dt 6,4-5, l’amore per Dio risulta inseparabilmente collegato e comprensibile a partire dall’amore di Dio per noi. La formulazione dell’amore del prossimo di Lv 19,13-18, «esteso» da Gesù sino al «nemico», pone la relazione fondante tra l’altro e il sé: «Tale nesso impedisce di pensare la relazione a sé e all’altro come se si trattasse di due momenti distinti o separati […]. In realtà non è possibile amare sé se non amando l’altro e questo non solo perché tra me e me c’è sempre l’altro – a motivo della costitutiva relazionalità del sé – ma anche perché è amando l’altro che noi amiamo noi stessi, poiché decidiamo della qualità morale della nostra vita (p. 304)».
L’amore del prossimo non solo è posto in unità dinamica con l’amore di Dio, di cui è «omologo», traendo dal primo la sua assolutezza, bensì domanda di essere compreso secondo un approccio «disimmetrico», che consente una corretta articolazione tra fede e morale. Tale articolazione, già percepibile nella formula sinottica, risulta con maggiore evidenza nella tradizione giovannea del mandatum: «L’amore di Dio, proprio mentre è un comandamento, è la formula sintetica del dono di Dio (1Gv 4,10). Perciò da una parte la fede non può essere ridotta alla morale, poiché è nell’agire che il credente attesta la sua risposta all’eccesso di amore che ha compimento nell’evento cristologico e d’altra parte l’etica non è affatto secondaria, poiché è nella decisione pratica che l’uomo si appropria del dono che lo anticipa e lo autorizza (p. 307)».
Si individua ulteriormente nella tesi fondamentale di Paolo della giustificazione «mediante la fede» la denuncia della riduzione in senso materiale e giuridico della Torah. La Legge, secondo l’insegnamento dell’apostolo, che la compendia nell’ultima parola del Decalogo, «vieta all’uomo di far diventare il suo desiderio misura e norma di ogni cosa» e lo invita «a vivere a partire dalla promessa di Dio», nella fede e in una libertà che non si fonda su un autopossesso, bensì su un atto di liberazione compiuto a vantaggio del credente nella Pasqua di Gesù (cf. pp. 327 e 321). Nella riflessione di Chiodi, tuttavia, sembra meno evidente il riferimento all’evento battesimale, tema ampiamente insistito nelle lettere paoline, come «conversione» e «incorporazione» del credente alla pasqua di Cristo, percepito come inizio di una «vita nuova» chiamata a misurarsi con le concrete sfide dell’agire. In questo senso si può cogliere nel tracciato delle grandi lettere dell’apostolo un preciso nesso tra l’annuncio kerygmatico dell’azione definitiva di salvezza compiuta da Dio nella pasqua di Gesù e l’evento dell’esistenza nuova fondata «in Cristo», a partire dal battesimo con il dono dello Spirito, dono che abilita il credente al confronto critico con i differenti ambiti della vita, come riscontrabile nelle sezioni di «casistica pastorale» che arricchiscono l’epistolario paolino.
Il passaggio dalla predicazione di Gesù alla «parenesi apostolica», infine, pone in primo piano la recezione del vangelo in rapporto a culture differenti. Si riguadagna, all’interno della rivelazione, la preoccupazione della prima teologia cristiana, con la tipica ripresa reinterpretante, accanto al vangelo, dei contenuti e delle forme dell’ethos umano: «Non è problematico né casuale che la predicazione morale cristiana sia dipendente dalla cultura e dalle tradizioni circostanti e soprattutto greche, perché ciò conferma il nesso costitutivo tra rivelazione ed esperienza antropologica nella sua qualità originariamente morale» (p. 314).
3. L’organizzazione sistematica come «struttura morale dell’esperienza della coscienza»
Gli elementi sopra evidenziati conducono, nella seconda sezione del «manuale», a una ripresa sistematica che costituisce la peculiarità e il pregio del testo nel quale, anche attraverso la recezione critica di autori e temi della morale cattolica post-Vaticano II, si opera una ridefinizione organica della disciplina. Evitando il rischio di una disposizione meramente paratattica delle tradizionali categorie della morale generale, l’opzione perseguita è di assegnare il baricentro tematico alla teoria della coscienza morale e credente attorno alla quale connettere gli altri elementi ascritti alla morale, compresi come «forme» della sua «esperienza concreta»: il riferimento alla comunità cristiana, all’autorità del magistero ecclesiastico e allo specifico compito del pensiero teologico; la cultura e il costume; «la relazione alla norma (l’altro), l’esperienza della colpa e del perdono che converte, le pratiche della vita buona» (p. 337). Il nucleo teorico risulta, infine, precisato in chiusura del volume ponendo il compito di «pensare insieme la correlazione originaria e asimmetrica tra l’esperienza del sé come coscienza e la nominazione cristologica di Dio», in sostanza affrontando la questione della composizione tra l’universalità dell’esperienza morale e la singolarità della forma compiuta di essa nell’evento cristologico (pp. 337-338).
Senza entrare in dettaglio, l’attenzione qui è posta sulla polarità coscienza e norma, individuata come «il nucleo antropologico decisivo nella teologia morale fondamentale» (p. 389). Nella lettura offerta da Chiodi si supera l’idea unilaterale di coscienza quale facoltà di giudizio e di deliberazione, propria dell’inquadramento della categoria nella theologia moralis post-tridentina, ma anche quella, altrettanto riduttiva, che, attraverso l’accentuazione della semantica psicologica, la identifica con la presenza dell’io a se stesso. Lo stimolo proveniente dal pensiero di Ricoeur e la ripresa della tradizione biblica conducono a pensare ad essa come «forma morale» del sé nella sua «originaria relazione» all’altro: «L’esperienza della presenza a sé non è infatti immediata, perché passa attraverso il rapporto ad altri. È in tale relazione che la coscienza riconosce un bene che la interpella “senza condizioni”, sperimentando di dipendere da un senso che le chiede di affidarsi. Il compito morale non nasce quindi da un astratto imperativo categorico o da una legge conosciuta dalla ragione come naturale, ma dall’esperienza – costitutiva della coscienza – di un dono di cui essa con meraviglia si scopre debitrice. La coscienza è riconoscente in rapporto a quel bene che solo compie il suo desiderio e che le è anticipato come degno della propria dedizione (p. 289)».
In altra parte del saggio l’idea è ulteriormente precisata in una forma che articola la triplice prospettiva, fenomenologica, ermeneutica e ontologica, assunta nella sistematica di Chiodi: «È nella sua anticipata esperienza originaria (fenomenologia), determinata dalla decisione (ermeneutica), che la coscienza accede a quella verità (ontologia) di cui essa non dispone e che le si promette come degna della sua dedizione» (p. 407). Si intende così rimediare al difetto ascritto alla teoria trascendentale, tendente, anche nelle migliori proposte teoriche, come nel caso di Klaus Demmer, a ipostatizzare il soggetto «destoricizzandolo e riducendolo allo studio delle sue condizioni di possibilità» (p. 406), finendo così per reintrodurre il presupposto intellettualistico e, soprattutto, non riuscendo a correlare pienamente il momento fenomenologico a quello ermeneutico.
Tale assunto conduce a riflettere sulle proprietà della legge, soprattutto in riferimento al discusso «teorema» della lex naturalis, ma anche permette di operare una ripresa critica della «opzione fondamentale» e del suo influsso sugli «atti categoriali», con la quale i moralisti cattolici avevano inteso ricomporre, pur lasciandolo intatto nella sua persistenza, il rapporto tra soggettività e oggettività etica. In connessione con la chiarificazione teorica della «legge naturale», reagendo a una sua comprensione ingenua di evidenze etiche razionali concettualmente distinguibili rispetto al sapere morale «conosciuto dalla fede», Chiodi ridefinisce in modo più pertinente la questione della ragione e della fede, trascritta nel nesso «antropologico-teologico» e nella relazione tra quest’ultimo e il «cristologico»: «Il rapporto tra ragione e fede va reinterpretato nella relazione tra teoria della coscienza (antropologica), intesa come esperienza di un bene promesso alla libertà, e teoria della fede cristiana intesa come riconoscimento del compimento donato a tale promessa in Cristo. Su tale fondo il rapporto tra il naturale e il soprannaturale viene reinterpretato come relazione tra l’anticipazione, in quanto promessa, e il suo compimento, che è inscritto in essa fin dall’origine e tuttavia rimane indeducibile (p. 421)».
Sulla scorta di Ricoeur, a partire da una fenomenologia della coscienza originariamente costituita dall’intreccio di attestazione e di ingiunzione, si innesta l’idea di «legge morale», nella quale si rende manifesto il profilo imperativo dell’ingiunzione che colpisce («affetta») la coscienza. Ciò permette di riprendere le caratteristiche della norma morale rintracciate nella «dialogicità», nell’«universalità» e nella «simbolicità». La prima qualità individua l’opposizione al desiderio soggettivo, nella sua espansione autarchica in ordine al senso dell’agire, da rintracciare, piuttosto, a partire dall’incontro con il desiderio dell’altro e dal suo riconoscimento. Inoltre l’universalità della legge morale non appare come una sorta di prerequisito del suo valore e vigenza, ma procede a partire dalla reciprocità delle coscienze e dalla precedenza, codificata dalla cultura, dei rapporti e dei legami sociali all’interno dei quali si compie l’agire morale soggettivo. Infine il carattere simbolico della norma evidenzia come essa non sia «fine a se stessa», ma rimandi oltre per reperirne il senso integrale e il suo compimento, quale «bene promesso», di cui essa è istruzione per accedervi e che risulta in ogni caso «eccedente rispetto alla formulazione della legge» (cf. pp. 458-460).
La riflessione sulla co-implicazione costitutiva di coscienza e legge permette una rilettura della teoria dell’azione che supera lo schema atto materiale-intenzione soggettiva, là dove esso riconduce a un’accezione strumentale del rapporto fini-mezzi: «L’azione non è un puro “mezzo” in funzione di un’intenzione e questa non è un “fine” moralmente giudicabile a prescindere dai mezzi. […] Tra il sé e l’agire c’è una circolarità, che è costituita dalla qualità intenzionale dell’agire, irriducibile a semplice «evento che accade», e dalla forma pratica e temporale della coscienza. L’azione non è riducibile a espressione […] del soggetto, ma è la forma della sua attuazione, nella dialettica originaria [propria della coscienza] tra attività e passività, tra agire e patire, tra soggetto agente e paziente (p. 436)».
A riguardo risulta decisivo il profilo prudenziale assunto dal discernimento, senza per questo «in alcun modo far decadere l’oggettività della norma morale», bensì riformulandone l’istanza propria attraverso la necessaria coniugazione dell’«universalità del bene con la singolarità della coscienza», nella sua attuazione storica e a confronto con le sfide della quotidianità: «La virtù della saggezza (phrónesis, prudentia) è la necessaria mediazione pratica della norma: essa sta nel bene deliberare su ciò che è buono, alla luce del comandamento che custodisce la promessa dischiusa nella vita (p. 461)».
Si apre a riguardo un possibile approfondimento sul modus operandi per giungere a tale giudizio di saggezza relativo alla concreta decisione morale in grado di operare anche una revisione critica dei tradizionali strumenti offerti dalla teologia morale, si pensi alla virtù dell’epikeia, alla soluzione del «dubbio di coscienza» attraverso il ricorso all’argomento probabilistico o ai teoremi del «duplice effetto» e del «compromesso» etico, all’importanza della casistica, in vista del raggiungimento di quella certezza pratica necessaria ad agire all’interno di situazioni complesse sia sotto il profilo fattuale e dell’agente sia di quello relativo a una corretta mediazione del criterio normativo. Questi elementi, pur presenti nell’opera di Chiodi, avrebbero meritato una maggiore attenzione per circostanziare ulteriormente la questione della ratio practica e della logica argomentativa in ambito teologico-morale, offrendo ulteriori spunti riflessivi per avvalorare l’opzione della centralità della coscienza assunta in questo momento sistematico, oltre che introdurre elementi di indubbio valore per la valutazione di alcune importanti questioni di etica normativa, soprattutto riferite alla sessualità e alla bioetica.
L’ultimo capitolo del volume («Universalità e singolarità dell’esperienza morale») risulta decisivo per la comprensione dell’impianto teorico offerto da Chiodi. Sullo sfondo della ricostruzione del dibattito tra «morale autonoma» e «etica della fede», tipico della stagione immediatamente seguente al Vaticano II, focalizza con pertinenza il compito inevaso dalla riflessione teologico morale. In sintesi si tratta di svolgere riflessivamente un’ermeneutica della coscienza che metta in luce la sua originaria forma morale e credente (teologica). In tale quadro l’evento singolare di Gesù Cristo rivela alla fede di tutti (universale o antropologico) quel dono (bene) che compie indeducibilmente il desiderio umano e rappresenta il criterio definitivo – perché originario – del discernimento circa l’agire della libertà (p. 532).
La singolarità della fede e l’universalità della morale vanno alla ricerca di una loro intima correlazione per superare, accentuando la prima, una «inaccettabile eteronomia» o, enfatizzando la componente razionale come garanzia di universalità, di «cadere in un’autonomia che neghi il teologico». Il perseguimento di questo compito comporta il recupero del «significato veritativo della fede come categoria dell’esperienza umana», riconoscendo che un’adeguata teoria della coscienza «implica una teoria della fede, sia nel senso antropologico universale sia in quello specificamente cristologico», come per altro a più riprese fatto emergere già nel corso dell’analisi storica e biblica. La qualità teologica della coscienza è guadagnata a partire da una comprensione della libertà che si decide per il bene, che è ciò che deve essere voluto «come la propria attuazione, non come semplice desiderio opzionale», e da una comprensione pratica della verità a cui l’uomo non perviene «se non affidandosi al bene che gli è donato». Così per la coscienza (libertà) risulta necessario «decidere di sé, in rapporto al senso (fenomenologico) che rivela la verità (ontologica) di cui essa non dispone e che tuttavia non accade se non nella scelta etica (attuazione) nella quale la coscienza decide della sua totalità» (p. 542). Viene da chiedersi, tuttavia, se quanto osserva Chiodi non possa essere inteso come una più pertinente riformulazione dell’opzione fondamentale, non più all’interno di una prospettiva «trascendentale», ma di quella fenomenologico-ermeneutica professata dall’autore: «Il morale implica il religioso, poiché ciò che caratterizza l’esperienza religiosa è il suo carattere di totalità e compimento della libertà. […] Il religioso, o teologico, si dà nell’etico attraverso le evidenze fenomenologiche – istitutive della coscienza – che implicano un nesso con l’aspirazione al compimento e alla totalità (p. 545)».
Il senso donato, che la coscienza scopre nelle sue affezioni e passività, rimanda a un’Origine donante o, secondo la pregnante espressione di Ricoeur, a un «primo dono» o «donatore originario». A differenza del filosofo francese, nel quale questa caratterizzazione resta aperta nella forma di un invito interrogante, più che in una caratterizzazione implicante l’accesso alla singolarità di una fede rivelata, Chiodi si impegna a individuare questo «teologico» come contenuto ed espresso in pienezza nel «cristologico». L’evento-Cristo è realizzazione dell’«esigenza di totalità alla quale la coscienza aspira, senza poterla realizzare». Nella sua singolarità storica «si attua (a posteriori) il compimento dell’anticipazione antropologica (fenomenologica) che è a priori» (p. 547).
L’atto sintetico della fede, nel quale si compie la singolarità dell’esperienza morale del cristiano, se da una parte istituisce il nesso con il compimento del desiderio umano, dall’altra domanda di salvaguardare la disimmetria tra fede e morale, grazie alla quale intercettare in modo più preciso il carattere peculiare dell’etica cristiana. A riguardo meritano di essere riportate alcune espressioni conclusive dell’ampio saggio di Chiodi: «Nella sua struttura la fede cristiana è irriducibile ad etica, in quanto è adesione all’iniziativa di Dio che è sovra-etica e sempre sorprende l’uomo. È il meta-etico che “fonda” l’etico, non perché lo dimostri, ma perché istituisce la possibilità di una relazione rinnovata dell’uomo a Dio nella storia di Gesù. In tal senso l’etica cristiana è “teonoma”. Questo non diminuisce né nega la responsabilità dell’uomo: è l’antecedenza del dono […] che istruisce la libertà del credente. L’etica cristiana non è quindi il contrario dell’autonomia ma è la sua radicalizzazione, perché la chiamata di Dio istituisce il soggetto nella sua unicità, nella reciprocità tra sé e altri. In quanto è obbedienza a Dio e al suo gratuito agire che salva l’uomo, la morale cristiana è la risposta autonoma per la quale questo agire diventa salvifico per me (p. 550)».
Come non notare, in ogni caso, che queste note di Chiodi, più che chiudere la riflessione, consentono al teologo morale di guadagnare un differente punto di vista, anche alternativo alla modalità di proporre i contenuti dell’etica fondamentale negli schematismi scolastici abituali. Ma un pensiero differente è un invito a pensare altrimenti, cioè a tenere aperto il pensiero.
P.D. Guenzi, in
Archivio Teologico Torinese 2/2015, 209-227