Riaccendere la passione pastorale – Il «Liber pastoralis» di Franco Giulio Brambilla
L’articolo di don Giuliano Zanchi (segretario generale della Fondazione Bernareggi di Bergamo e redattore della Rivista) illustra la coraggiosa proposta di un Liber pastoralis esplicitamente pensato quale «ideale vademecum per i pastori e per i loro collaboratori, su cui confrontarsi e su cui discernere: per chiedersi cosa c’è da potare, che altro c’è da valorizzare, che altro ancora da creare di nuovo» nella Chiesa italiana oggi. L’autore del libro – mons. Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara e vicepresidente della Cei – muove dalla percezione di un malessere diffuso nella vita delle nostre comunità, quel senso di accidia nei confronti del compito pastorale, che finisce col mettere «il pilota automatico dell’inerzia operativa». Per riaccendere la passione pastorale occorrono immaginazione, pensiero, discernimento e visione prospettica. Sono le frequenze su cui è sintonizzata la proposta del vescovo di Novara, che, dopo aver delineato la cornice generale in cui situare l’esercizio del ministero, propone una sapiente rilettura dei concreti ambiti in cui si sviluppa l’azione pastorale.
Il primato del compito pastorale
Se dovessi indicare il punto di condensazione e di coerenza delle molte sollecitazioni offerte dall’attuale pontificato direi che esso sta nel primato che nella vita cristiana va sempre garantito al compito pastorale. Semplicemente delineata in una dottrina e prescritta come una morale, la via cristiana è destinata a rimanere una delle tante ideologie che hanno solcato il mare della storia, anch’essa pronta come tutte a risvegliare il dispotismo che sonnecchia nell’inconscio di ogni utopia, portata a risucchiare le singole esistenze di esseri umani unici e irripetibili nell’ingranaggio di un formale accorpamento religioso. A lungo abbiamo tenuto stretti schemi mentali che vedevano nella pastorale il livello meramente applicativo di una dottrina e di una morale che a monte decidono della sostanza del fatto cristiano. Oltretutto legati a una concezione sostanzialmente individualistica della relazione religiosa. Non è nemmeno detto che da questi schemi ci siamo realmente liberati. La torva resistenza che molte iniziative di Papa Francesco continuano a suscitare sembrano dimostrare il contrario.
Invocare il primato della pastorale non significa naturalmente sottovalutare la necessaria consistenza della elaborazione dottrinale e del discernimento morale. Ma sapere che quando la dottrina e la morale non sono a servizio della pastorale diventano subito esercizi autoreferenziali che finiscono, prima o poi, col togliere respiro alle concrete possibilità di una reale pratica cristiana. La sostanza della testimonianza cristiana sta nell’esercizio concreto di una fraternità umana a cui le comunità credenti danno vita in nome del Vangelo. La vita cristiana, se non dà veramente forma a una vita, non è nemmeno realmente cristiana. Il primato che la deve dominare sta quindi nel rendere possibile il reale esperimento terreno di una vita evangelica realmente praticata da qualcuno in mezzo agli uomini. Sapendo che la vita circoscrive per sua natura l’ambito di tutto quello che è condizionato, contingente, situato e specifico, che non assume la forma del vangelo se non sulle basi della sua irriducibile storicità. Il compito pastorale è proprio quello mediante il quale la comunione dei discepoli trova di volta in volta le condizioni più opportune perché in un determinato tempo e in un determinato luogo la vita degli esseri umani possa assumere la forma del vangelo cristiano, coscienti del fatto che il vangelo non respira veramente se non animando i tessuti organici della storia e la circolazione sanguigna della cultura.
Le turbolenze generate da questo necessario riassestamento sembrano del resto avere una storia lunga. Si potrebbe pensare che gli ultimi cinque secoli cristiani siano stati in qualche modo dominati dalla preoccupazione di restituire vigore a uno slancio pastorale in grado di generare cristiani e non semplicemente governare fedeli. L’esplicita natura pastorale del Vaticano II andrebbe così ricollegata all’intenso programma di riorganizzazione pastorale scaturita dal concilio di Trento, che il contesto storico ha spinto ad appoggiare sui pilastri della dottrina e della disciplina, ma che aveva l’intenzione di dare forma pratica a una cura d’insieme, in un modo così creativo ed efficiente da rimanere fino a oggi il nostro inconscio operativo. Il Vaticano II può essere visto come una ripresa coerente alla fine della modernità di quella preoccupazione pastorale che il concilio di Trento aveva onorato proprio ai suoi inizi. Dopo Trento era servita la genialità di uomini come Carlo Borromeo e Francesco di Sales per tradurre tempestivamente la riforma pastorale del concilio nell’applicazione di un modello complessivo di vita cristiana, dotandolo non solo di un modello coerente di Chiesa e di pastorale, ma anche delle basi imprescindibili di un ideale cristiano, provvisto di una spiritualità intimamente connessa a una antropologia. Gli auspici erano diventati invenzione pratica. Questa grande genialità, insieme spirituale e operativa, forse non si è analogamente attivata dopo il Vaticano II, lasciato così a galleggiare nel fluido di pulsioni applicative piuttosto disorganiche, del resto messe alla prova da transizioni inarrestate e incalzanti, perciò alla fine bersaglio dei pruriti, delle prudenze, dei rancori, dei risentimenti, dei pentimenti, delle ritrattazioni e dei contrordini che hanno animato la nostra vita ecclesiale negli ultimi decenni.
Lo sforzo programmatico della Evangelii Gaudium di Papa Francesco sembra riafferrare, non senza un certo evidente azzardo, il filo di quella necessaria declinazione pratica che è sostanzialmente mancata allo spirito della più recente riforma conciliare, mettendosi del resto lungo la linea di una tradizione molto più remota e profonda di quanto non sappiano realmente i molti suoi ingenui difensori di oggi. Ma è lo stile complessivo di questo sorprendente pontificato, dalle prediche a santa Marta alle scarpe nere ai piedi, dai temi sinodali a certe nomine episcopali, che mostra in ogni modo possibile l’intenzione di spingere di nuovo la Chiesa a centrare le proprie preoccupazioni attorno al primario compito della cura pastorale. Tornare quindi a essere di nuovo un segno per tutti, ma chiedendosi soprattutto come e di che cosa.
Sintonizzata su queste frequenze, arriva la coraggiosa prova di immaginazione e di pensiero, di discernimento e di prospettiva, con cui Franco Giulio Brambilla, vescovo di Novara e già Preside della Facoltà teologica dell’Italia settentrionale, rinnova la tradizione del Liber pastoralis. Pubblicato per Queriniana proprio con questo titolo, si cimenta a ravvivare, con dichiarata umiltà, quel compito di invenzione e di cura che i nobili precedenti onorati lungo la storia (su tutti la Regula pastoralis di Gregorio Magno) non devono affatto inibire di fronte alle necessità del presente. La situazione anzi lo esige. Le preoccupazioni da cui nasce questo libro non riguardano infatti semplicemente l’impressione di trovarsi di fronte a un sistema di pratiche pastorali alle volte divaganti da un solido centro di coerenza, modellate su prospettive di fondo spesso variegate e inconciliabili, in qualche caso addirittura puramente meccaniche e vagamente contraddittorie. Si riferiscono piuttosto alla percezione di un diffuso senso di resa nei confronti del compito pastorale: una sorta di ‘accidia’, sedimentata e silenziosa, una rassegnata indolenza che ha messo il pilota automatico dell’inerzia operativa, contaminata peraltro dai molti psichismi che nel dibattito ecclesiale vanno dando libero corso alle ideologie di parte. Questo marciare un po’ catatonico del nostro quotidiano tran tran parrocchiale ha bisogno anzitutto di buoni incoraggiamenti a «risvegliare la passione della carità pastorale» (p.10), a cui questo libro intende dare il suo contributo, cercando di sollecitarne l’intensità a un livello del discernimento che sfugga contemporaneamente al «duplice pericolo dell’idealismo spiritualista e del pragmatismo procedurale» (p.25). Riacquisire una concreta passione pastorale non significa sospendersi all’irrealistica aspettativa di futuribili alquanto mentali. Non significa nemmeno gettarsi alla cieca nel furore quantitativo delle molte ‘iniziative’ da moltiplicare con stakanovismo operativo. La centratura spirituale di una rinnovata e consapevole passione pastorale agisce anzitutto facendo mente locale sulla natura del compito e configurando un ordine nel dedalo delle pratiche, ma soprattutto conducendo l’opera di questo discernimento sotto la luce dello scenario antropologico verso il quale essa si rende necessaria. Bisogna infatti intendersi qui su un criterio di fondo: la vitalità anche istituita della presenza cristiana nella storia, anche quando si prende cura di se stessa, deve sempre avere coscienza di essere relativa a quel mondo di umani che la circonda e che compone il suo presente. La passione che anima il compito testimoniale non può perciò ritrovare coscienza e metodo se non allo specchio di queste miriadi di coinquilini del mondo, che la vita tratta tutti allo stesso modo, e a cui del resto Dio ha già garantito la sua incondizionata benevolenza, ben prima della stesura dei nostri piani pastorali.
Composto di venti agili capitoli, senza che nell’indice vi sia traccia di particolari suddivisioni, questo libro articola almeno tre parti, sempre martinianamente nutrite di esplicite ispirazioni bibliche, oltre che innervate di quella rara congiunzione di competenze, che la biografia dell’Autore è in grado di garantire, in cui la dotazione teologica si unisce all’esperienza pastorale.
Forma pratica e natura comunitaria della testimonianza cristiana
La prima delle parti, che occupa i primi cinque capitoli con l’intenzione di tratteggiare «lo sfondo e il quadro dell’agire pastorale» (p. 142), può essere sintetizzata nella risonanza fra queste due armoniche: il carattere pratico e fraterno della testimonianza cristiana e la natura comunitaria della ministerialità ecclesiale.
A lungo ci siamo consegnati all’idea che il cristianesimo per poter essere fatto dovesse prima essere detto: cominciamo ora a capire che il cristianesimo per poter essere detto deve anzitutto essere fatto. La testimonianza cristiana deve prima di ogni cosa offrirsi nella forma visibile di una reale pratica comunitaria, nella quale l’umanità nuova, a cui il Dio di Gesù vuole aggregare ogni essere umano, possa apparire come una possibilità reale e non puramente immaginaria, quindi anche profetica e attrattiva. Il compito primario della testimonianza cristiana è dare al vangelo la carne e il sangue della sua praticabilità storica e terrena la cui forma eminente sta nella prova reale di una vera vita fraterna. Ritornare in sintonia con questo paradigma di fondo della testimonianza credente richiede contestualmente di riscattare l’ideale antico e nobile della cura animarum dalla sua concezione verticale e individualistica in cui il pastore resta solitario supervisore di una comunità sostanzialmente passiva.
Qui comincia a risuonare la seconda armonica. Alla natura specifica del mandato testimoniale cristiano va restituito il suo carattere condiviso e comunitario, legato alla comune responsabilità per il vangelo assunta mediante il battesimo, chiamata a realizzarsi in una pluralità di ‘ministeri’ che vanno pensati sullo sfondo dell’unico sacerdozio di tutti i fedeli. Non si tratta di riesumare vecchi schemi polemici fra ordine e laicato. Piuttosto va pensata la ministerialità della Chiesa come attributo congenito della comunità come tale, estraendola anzitutto dalla sua propensione a valere prevalentemente come schema delle interne spartizioni gerarchiche, portandola piuttosto a definire l’insieme dei carismi, sinfonico e plurale, che alla Chiesa vengono sollecitati dal suo compito di essere segno per il mondo. In questo senso gli ‘attori della testimonianza’, i cui molti elenchi neotestamentari appaiono ‘irriducibili a un solo schema’, andranno sempre più chiamati da quel laicato che già senza tematizzare troppo la cosa si trova a declinare la forma evangelica negli ambiti dell’esistenza comune, esercitando un ‘ministero’ cui ancora non si è capaci di dare un nome. La posta in gioco della testimonianza in effetti appare condensata in questa sfida.
I paradigmi sociali e antropologici del presente possono anche essere percepiti come enigmatici e provocatori, ma non esiste altra materia in circolazione che anche oggi da credenti siamo chiamati a modellare perché il vangelo prenda ancora vita. Il seme è sempre fatto per il terreno. Non viceversa. La libertà spirituale e l’acutezza interpretativa necessarie a stare in questo compito richiedono l’ingresso accelerato in una logica di sinodalità su cui finora si è consumata molta retorica e realizzata poca pratica. La parola è suadente. Ma gli atteggiamenti che configura, in alto e in basso dell’ingranaggio ecclesiale, possono respirare solo in forme di esercizio davvero praticabili. Si tratta di un livello ‘politico’ che decide di una sostanza tutta spirituale.
Le forme dell’agire pastorale
Con la dotazione di questo sguardo preliminare, nel quale la recensione dei guadagni agisce congiuntamente alla formulazione degli auspici, una seconda parte del liber pastoralis si addentra nell’illustrazione ragionata delle forme pratiche dell’agire pastorale, accettando di svolgerne il racconto sullo sfondo della tradizionale triade annuncio, rito e carità. La loro rapida scansione, che suppone il lettore pratico di vita ecclesiale, prova nel contempo a ribadirne il senso e a diagnosticarne i limiti, provando anche ad aprire sentieri, con una attenzione insieme franca e premurosa, con quella severità che si usa riservare alle cose che si amano. Anzitutto a quel primato della Rivelazione di Dio in Gesù che a noi arriva mediante il testamento di una Parola che ci resta fra le mani e sulle labbra in maniera sempre incerta e immeritata.
Questo primato dovrebbe anzitutto misurare ogni ora e ogni momento la qualità del nostro annuncio evangelico. Che genere di ‘uditori’ siamo? E cosa diventa questo ‘primo ascolto’ nelle pratiche che lo avvolgono delle nostre migliori intenzioni testimoniali? Uno sguardo alle pratiche svela, ormai senza troppa sorpresa, una dispersione retorica della parola, insignificante nell’omelia, inefficace nelle catechesi, sostanzialmente incapace di essere davvero utile formazione in cristiani adulti di una fede matura. Uno degli inceppi più vistosi sta nello scollegare il destinatario della comunicazione. Sempre presupposto, mai coinvolto. La parola evangelica di cui proviamo a essere un’eco virtuosa non riceve mai sufficientemente ossigeno dalle categorie di senso del nostro tempo. Sicché essa arde poco nella coscienza dei suoi destinatari. Si spegne presto. Peraltro sempre trattata semplicemente come linguaggio, mai come vera ispirazione.
Le nostre pratiche pastorali traboccano di parole che vorrebbero generare scelte, ma sono sguarnite di esperienze che potrebbero suscitare coscienza. Una di queste è certamente la liturgia, luogo dei sensi prima ancora che ambito della parola, tempo sintetico della fraternità comunitaria e momento dell’atto comune di fede, che però porta sempre con sé i dinamismi di base della ritualità antropologica e del comune senso del sacro. La cura pastorale della liturgia comunitaria, finita per molto tempo fra gli ozi di margine di un cristianesimo sensibile a cause più concrete, resta il punto di condensazione di una presenza cristiana che mentre sembra occuparsi di sé in realtà ha già il pensiero rivolto al mondo. Essa è nel contempo forma e figura della vita fraterna che la comunità custodisce per se stessa ma che allarga fuori dai propri recinti nell’esercizio della carità. La fraternità mantiene viva la qualità testimoniale della fede cristiana anziché la natura prestazionistica dell’appartenenza religiosa. In questo senso essa non potrà mai essere aggregazione elettiva dei simili, ma sempre convocazione dei differenti.
I cristiani si raccolgono, ma non si appartano. Devono sempre rimanere segno di una umanità destinata a stare insieme. Senza lasciare nessuno ai margini. Per questo il povero sta davanti a tutti come supremo indicatore morale. Le opere della carità, anche quando prodotte per rispondere a bisogni elementari e immediati, hanno di mira una fedeltà al povero che deve andare oltre la soddisfazione delle sue necessità, per stare piuttosto nel segno di una comune integrità dell’umano basata su criteri di sobrietà e di giustizia. Stare coi poveri rende umani. Forse anche cristiani.
Attenzione all’umano
La terza grande parte del libro, ampia quasi la metà dell’insieme, si distende nell’enumerazione di quegli ambiti specifici che il lavoro pastorale di questi decenni ha acquisito come elementi irrinunciabili del proprio copione di base, nuclei di condensazione della cura in cui la sostanza evangelica del segno cristiano prova a intrecciarsi con la densità di senso delle esperienze umane, dall’iniziazione cristiana, alla pastorale giovanile, alla confessione, il matrimonio, la famiglia, l’accompagnamento nella malattia, la morte e il funerale. L’apparente convenzionalità di questo elenco viene smentita dall’essere al contrario ripreso alla luce del discernimento con cui la Chiesa italiana negli ultimi decenni ha sentito il bisogno di «correggere il ripiegamento talvolta autoreferenziale della sua missione pastorale, inducendo l’urgenza dell’“attenzione antropologica”, cioè di una pastorale attenta all’umano» (p.142). I due più recenti convegni ecclesiali, quelli di Verona e Firenze, hanno lavorato in modo abbastanza convergente nel far transitare i criteri di fondo dell’azione pastorale dallo schema della triade tradizionale a quello disegnato sugli ambiti della vita. Non si tratta di un gioco di prestigio nominalistico. Nemmeno dell’astrusa inventiva di una ingegneria pastorale. Ma dell’acquisita coscienza dello stallo a cui è condannata una testimonianza cristiana che non sia più in grado di scorrere nelle elementari esperienze della condizione umana: «L’attenzione all’umano, quindi, significa per la pastorale della Chiesa uno sguardo nuovo sugli uomini e sulle donne di oggi, sulle forme pratiche della loro vita, per dirvi e donarvi il vangelo di Gesù» (p.142). La ‘svolta antropologica’ con cui la teologia del Novecento ha preparato e accompagnato il coraggio del Vaticano II forse trova solo adesso, presto o tardi che sia, le condizioni per innervarsi in un coerente stile evangelico. Questo ritorno all’uomo della pastorale cristiana, che in molti osteggiano come una rinuncia a quelle che vengono immaginate come le prerogative del divino, non significa l’adagiarsi incondizionato fra le molte penombre del costume corrente, ma il riconsegnarsi a quella fraternità di base che consente poi anche il giusto discernimento dei molti idoli che vi hanno piantato i loro piedistalli. Non si tratta nemmeno di lucrare sul saldo fra sfide e opportunità. Ma stare spassionatamente e incondizionatamente dove starebbe Dio. Sempre a fianco dell’uomo. Della sua maldestra ebrezza come del suo indifeso ardore. Alla cura cristiana tocca perciò «stare con la gente, la lingua della vita, le fatiche della famiglia, la passione civile», dove insomma la sostanza spirituale della condizione umana prende consistenza prima ancora di essere avvolta dalla parola religiosa.
La rassegna dei gesti pastorali di cui cominciamo a intuire la profondità antropologica, procede in questo libro sapendo di limitarsi a qualche evocazione, ma non lesina giudizi, segnala i vicoli chiusi, indica priorità, suggerisce percorsi, valuta atteggiamenti, prefigura scenari, mostra le pieghe tra le quali la buona volontà deve aggirarsi con circospezione. Avverte di certe sabbie mobili del senso che i tempi chiedono comunque di affrontare.
Due grandi questioni trasversali mi sembrano percorrere, nel contempo come insidia e come compito, questa specie di cavalcata sulle pratiche cristiane alle prese con la vita. La prima sta nel bisogno di restituire solidità a una ‘antropologia integrale’, riscattata dai molti scorpori che la cultura moderna e postmoderna ha operato sulla concezione dell’umano, in cui appunto ne va della tenuta dello ‘spirituale’ nell’uomo. In questo senso la cultura cristiana avrebbe le carte in regola per tenere con fermezza le linee di questa difesa. Le serve però una reale competenza antropologica. Oltre che un sincero atteggiamento di amore per il presente. Non si fa discernimento dominati dal rancore. La seconda sfida consiste nello sforzo di riallacciare i nodi della trasmissione generazionale. Il compito educativo viene a tutti i livelli ipotecato da questo inedito scollarsi della catena con cui nelle relazioni primarie quanto in quelle sociali ci si consegna il deposito del senso. La crisi della formazione cristiana non può essere compresa nelle sue ragioni di fondo senza avere coscienza di queste dinamiche.
Si tratta anche di restituire a questi processi la loro connaturale vocazione a ‘produrre’ adulti. L’auspicio di una rinnovata capacità ‘generativa’ dell’intera vita sociale deve interessare il cristianesimo con molta più grave pensosità che le sgarbate schermaglie dei suoi restauratori d’interni. Il discernimento antropologico e la questione educativa sono vera sostanza di processi pastorali per cui occorre al più presto ritrovare la passione. Una manciata di pagine al termine del libro lascia il lettore con un congedo per nulla retorico. Il ‘ministero pastorale’ della Chiesa, ci avverte mons. Brambilla, va mutando persino a nostra insaputa, modellato dalle manate della storia. In capriole di contesto come quelle che stiamo vivendo, più che grandi strategie di azione, sono decisivi gli atteggiamenti che si decide di tenere fermi.
Il rancore spingerebbe appunto verso l’indolenza. Quell’accidia con cui in fondo si vorrebbe lasciare il mondo a se stesso. Ma essa non mancherebbe semplicemente di buon cuore, mancherebbe proprio di fede. Ai discepoli del regno infatti, avvertiti che il seme se ne infischia anche del loro sonno, tocca «restare responsabili di fronte al tempo presente» (240). Proprio per ogni presente della storia il Maestro ha lasciato il suo Spirito, non istruzioni per l’uso. La sua assistenza va dunque spesa come un talento di cui rischiare l’investimento, non come un feticcio di cui temere la perdita. Essa ci chiama a esercitare senza viltà il compito di trasformare noi stessi, se questo va a beneficio di tutti. «Tutto ciò che ho scritto non è nient’altro che la declinazione della famosa espressione del libro degli Atti degli apostoli: “Lo Spirito Santo e noi…” (At 15,28)». Questo è il nostro presente. Non dubitiamo del fatto che lo Spirito stia facendo la sua parte. Ma noi?
G. Zanchi, in
La Rivista del Clero Italiano 2/2017, 118-127