Durante il lungo periodo che ho trascorso come Prefetto della Biblioteca Ambrosiana di Milano una delle esperienze più divertenti è stata quella di sfogliare i fondi epistolari, prevalentemente di paternità celebre. Le sorprese erano molteplici. Tanto per esemplificare, molte lettere erano la conferma lampante di una riga di una missiva con cui Cicerone all’amico Lucio Lucceio osava chiedere di comporre una propria biografia, consapevole ormai della sua fama ma ammantandosi del velo di un’umiltà pelosa. Quella riga è divenuta un proverbio: Epistula non erubescit, la lettera non arrossisce perché può esprimere anche quello che non si ardirebbe dire a tu per tu (chi vuole leggere integralmente quello scritto ciceroniano, lo troverà nelle Epistulae ad familiares 5,12). In altri casi era la grafia, talora indecifrabile, a incuriosirmi, confermando un altro detto classico a tutti noto: Gallina scripsit, donde il nostro scrivere «a zampe di gallina» (questa volta era Plauto nel v. 30 del suo Pseudolus). E ancora, quando si inseguiva una raccolta progressiva di lettere, si scopriva l’amarezza di chi in un testo precedente si era lasciato andare a qualche eccesso e confermava un altro motto latino, altrettanto noto, di origine medievale: Verba volant, scripta manent.
Questa divagazione, che potrebbe dilatarsi nei casi più vari (scoprii, ad esempio, un biglietto di Ezra Pound che, in un italiano sgangherato, chiedeva al Prefetto di allora una serie di riproduzioni fotografiche di un manoscritto poetico del ’500), introduce liberamente il sorprendente epistolario inventato da un noto teologo ed esegeta tedesco, Gerhard Lohfink, classe 1934, docente emerito all’università prestigiosa di Tubinga. Indirizzandosi a una famiglia fittizia, i coniugi Westerkamp con la figlia Hannah, egli elabora una corrispondenza di 50 lettere che sono la conferma di una delle trecento massime dell’Oráculo manual pubblicato nel 1647 dal pensatore gesuita spagnolo Baltasar Gracián (e recentemente tradotto e commentato in un’edizione esemplare da Adelphi): «Una lettera è una conversazione scritta». In verità, lo studioso tedesco precisa di aver scelto «la forma epistolare, volendo evitare il più possibile quella del trattato». Infatti, il filo conduttore è nientemeno che la fede cristiana nella sua struttura e nelle molteplici derivazioni e declinazioni, ivi comprese le obiezioni avanzate dall’esterno.
In questa linea Lohfink potrebbe ricorrere al patronato di san Paolo, anche se gli esegeti discutono sul genere letterario delle sue lettere cosparse di segnali epistolari ma nella sostanza più vicine al trattato (si pensi solo alla Lettera ai Romani). Lo spunto simbolico che genera la sequenza del carteggio di Lohfink è offerto da un fatto che si ripete spesso in molte famiglie. «Alcuni mesi fa sua figlia Hannah di nove anni - scrive il teologo - è venuta da lei, dichiarando di voler fare la prima Comunione insieme ad altre bambine della sua classe. Se ho compreso bene la sua lettera, lei, sig. Westerkamp, non è battezzato. Sua moglie invece è battezzata e cresimata, ma poi ha perso ogni contatto con la Chiesa». L’ultima delle 50 missive è indirizzata proprio a Hannah che ormai si è fatta battezzare ed è pronta per la sua prima Comunione. Anche a lei il sacerdote scrive introducendo un’implicita obiezione: «Per te ci saranno ancora decisioni da prendere. La fede va continuamente conquistata di nuovo. Non è una cosa a buon mercato, che si ottiene tanto facilmente. Le cose grandi e belle nella vita sono sempre un rischio. Sai anche che i tuoi genitori si ritrovano davanti a un tale rischio. Tuo padre si chiede se deve farsi battezzare e farsi così accogliere nella Chiesa. Finora non sembra che vi sia nulla di deciso. Tutto è ancora in gioco».
L’approccio è interessante perché esorcizza ogni forma di proselitismo, ma rimane come interpellanza a una scelta consapevole e tutt’altro che scontata ed emotiva. In questa prospettiva s’intesse tutta la «conversazione» epistolare che è implicitamente dialogica, anche se non si introducono le lettere dell’interlocutore, ma sono evocate solo in filigrana. La trama del discorso sulla fede potrebbe essere comparata a una sorta di procedimento cinematografico che parte dal campo lungo e avanza restringendo sempre più e specificando l’orizzonte da riprendere. Così, all’inizio le prime lettere puntano sulle questioni cosmo-antropologiche generali, come la creazione, l’infinito fisico e trascendente, l’evoluzione («dall’animale all’umano»), il male e il dolore.
L’obiettivo progressivamente si restringe e si fissa sulla storia così come è letta attraverso il prisma della fede. Entrano, così, in scena gli attori fondamentali, l’Israele biblico e Gesù Cristo («tutto da Israele, tutto da Dio»), la Legge sinaitica e il Vangelo, il popolo dell’alleanza con Dio e la Chiesa, il Decalogo e il comandamento dell’amore, i libri sacri e così via. In primo piano vengono, infine, messi a fuoco, da un lato, il dialogo orante con Dio (la preghiera) con tutta la sua articolazione esistenziale e, d’altro lato, ci si affaccia sulla morte, il giudizio e l’oltrevita. Il tutto spiegato sempre in modo piano e trasparente, in uno stile quasi narrativo, così da evitare il genere pedante di un catechismo capace di creare reazioni allergiche nei due interlocutori, il marito agnostico e la moglie non praticante.
È, quindi, un testo che - oltre a mirare al mondo della formazione ecclesiale attraverso l’affresco delle figure, dei simboli e dei temi della fede - si rivolge anche a chi desidera ritrovare le ormai sepolte radici della sua vita personale o scoprire un orizzonte forse ignoto, tutt’altro che ingenuo, bigotto o clericale.
G. Ravasi, in
Il Sole 24 Ore 24 gennaio 2021