«Gesù ha annunciato il regno di Dio, ma è venuta la Chiesa». La celebre battuta di spirito di Alfred Loisy può sembrare, in tempi come questi – dove il populismo anti-establishment rischia di mettere sotto accusa ogni istituzione, Ecclesia compresa –, una facile via d’uscita quando si parla del ruolo, presente e futuro, dell’istituto ecclesiastico. Soprattutto quando si prova ad avere una pista per orientarsi nei mutamenti in corso, come recita il sottotitolo di La chiesa è paradosso a firma del gesuita tedesco Alex Lefrank.
Invece in questo testo non troviamo né senso di amarezza rabbiosa né rivendicante fervore. Lo scorrere delle pagine del testo ha una sua freschezza d’intuito, forse frutto anche della provenienza non religiosa dell’autore, che non venne educato dalla famiglia alla fede ma che quindi scoprì il cristianesimo, e i suoi tesori, da giovane. Proprio questa provenienza è forse la chiave di comprensione per capire perché Lefrank sottolinei spesso il tratto paradossale della Chiesa: istituzione e divina e umana, fallibile e santa, fatta di santi e di peccatori, da accettare così com’è, perché luogo di trasmissione dei sacramenti, e al contempo passibile di riforma.
I paradossi, nella chiesa, sono all’ordine del giorno: «L’unione interiore delle membra del corpo con il capo e tra di loro è reale, però non si manifesta visibilmente»; essa vive «un’unità piena di tensione. Per essa occorre lottare incessantemente». Per Lefrank è certo che «noi stiamo vivendo in una nuova epoca della Chiesa cattolica». Quella che abbiamo alle spalle è la stagione in cui si pensava alla Chiesa di popolo, ma, attenzione, «la forma di Chiesa che attualmente sta andando in frantumi non è la Chiesa». Sta andando in pezzi quell’idea – sostanzialmente tridentina – di trasmissione famigliare della fede e, di conseguenza, che vedeva nella Chiesa il luogo in cui ottenere gli strumenti per questa trasmissione.
Ecco allora una prima diagnosi che pone il dito nella piaga di tante difficoltà pastorali di oggi: «La fede non può essere trasmessa come una cosa. Deve essere testimoniata. Testimoniare significa arrischiarsi a uscire dal proprio intimo spazio spirituale con una propria convinzione, esponendosi così al giudizio degli altri».
Seconda diagnosi quanto mai azzeccata, e che scalfisce un pregiudizio diffuso sia ad intra che ad extra: «La Chiesa non è un grande gruppo industriale internazionale che distribuisce l’unico e medesimo prodotto nel mondo perché sia consumato dal maggior numero di persone». Cosa è dunque la Chiesa? Citando Joseph Ratzinger nonché facendo eco alla Lumen gentium (ponendo, con un’esegesi sapiente, in continuità effettiva gli ultimi tre pontefici), Lefrank afferma che «il senso della Chiesa consiste nell’essere la rappresentanza pubblica dell’agape davanti al mondo».
Si diceva più sopra del tratto paradossale della Chiesa, elemento centrale e ben visibilizzato dal titolo. Che, en passant, può fungere anche da elemento tranquillizzante per tanti pastori d’anime smarriti in questi tempi difficili, quando non sanno rispondere alla domanda: «A che serve la parrocchia, la pastorale, la Chiesa?». Lefrank spinge l’acceleratore sull’elemento del paradosso, perché da un lato la Chiesa è chiamata a inculturarsi, ovvero «deve cercare dove e come può ricollegarsi agli aneliti e agli interrogativi di un’epoca»; dall’altro deve rispondere ad un’altra vocazione, «esclulturarsi», un termine usato in altra accezione dalla sociologa francese Danièle Hervieu-Léger: «La fede cristiana non deve essere tanto inculturata da scomparire nella cultura».
Come fare, allora? Il suggerimento di Lefrank è quello di intraprendere una pastorale che funga da accompagnamento e da sollecitazione della domanda religiosa, più che da soddisfacimento di servizi spirituali a domicilio: la chiesa può arrivare qui «solo se il divenire cristiani viene compreso e attuato come un processo». E questo può comportare alcune conseguenze non indifferenti: «Diventare cristiani richiede sempre più la disponibilità ad andare contro la corrente delle opinioni comuni». Che si tratti della questione migratoria o dell’accettazione del matrimonio tra persone dello stesso sesso, l’autore evidenzia come il messaggio cristiano sia ormai “esculturato”, ovvero estraniato dalla cultura dominante.
Lefrank pone ad un certo punto una domanda che può risultare sgradita, ma che mantiene la forza di un’interpellanza radicale: «Non utilizziamo anche noi in campo ecclesiale troppe energie per riscuotere considerazione e influenza nella società invece che per guadagnare uomini e donne per Cristo, che grazie a questo siano capaci di collaborare in modo nuovo alla configurazione della società?».
In conclusione, oltre ad alcuni spunti di diagnosi altamente qualificati e pertinenti, Lefrank abbozza anche alcuni suggerimenti per il futuro: chiede una Chiesa che proceda in maniera più catecumenale («Diventare membro della Chiesa non può avvenire semplicemente come si fa in un’associazione, con una dichiarazione di adesione e una quota associativa»); prospetta una Chiesa più “cellulare” ovvero meno organizzata in strutture istituzionali ma più basata su piccoli gruppi che «vivranno insieme un modello di vita cristiana, che darà testimonianza di Cristo»; una Chiesa meno mediatica, più pluralista, non assimilabile a nessun ghetto ma dove responsabilità e collaborazione saranno gli assi portanti di una comunità impegnata a testimoniare il vangelo.
L. Fazzini, in
Avvenire 24 luglio 2020