Il saggista Christopher Hitchens era solito polemizzare con Madre Teresa, spesso con toni sguaiati e a volte ignobili, accusandola di non voler eliminare la povertà ma solo di alleviare il dolore dei poveri. In realtà tutta l’azione della santa non è stata altro che un’infinita opera d’amore verso i derelitti di Calcutta prima e poi di tante parti del globo: un’opera che non ha probabilmente eguali nel corso del Novecento. Un secolo in cui ha operato anche Dorothy Day, una delle quattro figure di grandi americani citate da Papa Francesco nel discorso al Congresso pronunciato a Washington nel 2015 (gli altri erano Abramo Lincoln, Martin Luther King e Thomas Merton). Per Dorothy, di cui è in corso il processo di beatificazione, era importante combattere la povertà oltre che prendersi cura dei poveri. Madre Teresa e Dorothy Day: due vie complementari del cattolicesimo alla questione della povertà.
«Come vorrei una Chiesa povera... e per i poveri!»: chi non ricorda l’esclamazione, un po’ auspicio pieno di speranza un po’ grido di dolore permeato di autocritica verso la Chiesa stessa, di Francesco incontrando i giornalisti subito dopo la sua elezione a Pontefice? Al Papa sta talmente a cuore il destino dei poveri che a essi ha voluto dedicare una Giornata, celebrata il 19 novembre scorso, nel cui messaggio ricorrono due temi: la povertà come stile di vita proprio del cristiano, intesa come «vocazione a seguire Gesù povero», come «atteggiamento del cuore che impedisce di pensare al denaro, alla carriera, al lusso come obiettivo di vita e condizione di felicità», come «metro che permette di valutare l’uso corretto dei beni materiali»; ma al contempo come invito urgente rivolto a tutti i cristiani a prestare soccorso ai poveri, in un’azione di carità modellata sulla testimonianza descritta negli Atti degli apostoli e capace di far uscire dallo stato di bisogno gli ultimi della Terra.
Che l’esaltazione della povertà propria del cristiano non si accompagni affatto al desiderio di lasciare immutato lo stato delle cose ma sia una spinta al cambiamento lo suggerisce anche un recente libretto del teologo canadese André Naud, Il Vangelo e il denaro, pubblicato da Queriniana (Brescia, 2017, pagine 88, euro 9). Un’opera breve ma dirimente rispetto alla questione rifacendosi espressamente al discorso della montagna e agli altri passi dei vangeli.
Naud invita a distinguere tra povertà spirituale come «umiltà davanti a Dio», come atteggiamento di sobrietà e rinuncia ai beni materiali, e povertà materiale che a suo parere non può costituire un ideale; citando Gustavo Gutiérrez, il fondatore della teologia della liberazione, ricorda come «la povertà è uno stato scandaloso che attenta alla dignità umana e di conseguenza alla volontà di Dio».
Per Naud insomma occorre sottolineare bene le ambiguità e le fluttuazioni che hanno circondato la storia del termine povertà. Se essa è lo stato di una persona che manca di mezzi e che soffre per questa insufficienza, non può essere presentata come un modello, ma «è una situazione da cui ciascuno vuole legittimamente uscire e da cui ciascuno deve aiutare gli altri a uscire».
Del tutto differente la logica del consumismo e dell’esclusivo perseguimento di vantaggi materiali che Naud — sulla scia di pensatori come Gabriel Marcel e Jacques Ellul — denuncia con parole forti. Solo lo spirito di condivisione e il dono possono costituire un efficace contraltare alla mentalità dominante.
«Forse Simone Weil — sottolinea l’autore — è colei che ha affermato nel modo migliore l’assoluta priorità del dovere sul diritto. Con ciò voleva dire che occorre saper imperniare la propria riflessione e la propria azione sull’obbligo che abbiamo verso i bisogni degli altri». Di qui il rinnovato invito a condividere i propri beni e a donare a coloro che sono nel bisogno: «Per Gesù l’uomo non è mai solo con se stesso e con Dio quando si tratta del denaro, è sempre ugualmente posto davanti agli altri e in particolare dinanzi ai più bisognosi».
E non è un caso che padre Giulio Albanese abbia posto all’inizio del suo volume Poveri noi!, uscito da poco per le Edizioni Messaggero Padova (2017, pagine 184, euro 15), le parole di dom Helder Camara: «Quando io do cibo ai poveri, mi chiamano santo, quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, mi chiamano comunista». Come ricorda il cardinale Kasper nella prefazione, si tratta di due facce della stessa medaglia: il vero atteggiamento del cristiano non è il pauperismo, ma la cooperazione “con” e “per” i poveri e la scelta di costruire un modello di sviluppo che tenga conto delle esigenze dei più disagiati e non di chi detiene il potere economico e finanziario.
«La povertà — spiega il missionario comboniano — non è legittimazione della miseria e dello squallore, quasi fosse una sorta d’archetipo della vita umana o rifiuto palese dello sviluppo, quanto piuttosto è denuncia del sopruso, rigetto delle angherie dei nababbi, quelle che precludono il progresso e dunque la condivisione». Ma padre Albanese sferza con chiarezza anche la Chiesa, ricordando il patto delle catacombe che un gruppo di vescovi sottoscrisse durante il Concilio impegnandosi in prima persona a uno stile di vita basato sulla povertà e la comunione dei beni, esattamente come facevano gli apostoli.
Il rapporto con la povertà è stato spesso vissuto con ambiguità dai cristiani. Se nelle prime comunità cristiane esso rappresentava una delle realtà più importanti, anzi decisive, con cui fare i conti, nel corso dei secoli la Chiesa si è abituata a convivere con essa. Un tempo c’era “la Chiesa per i poveri”, dal Concilio abbiamo imparato una “Chiesa con i poveri”, ora siamo richiamati, grazie a Papa Francesco, a una “Chiesa povera”. Una Chiesa che sa stare al fianco dei poveri perché essa stessa dà testimonianza di povertà, sobrietà, misura. Altrimenti rischia di non essere credibile agli occhi dell’uomo contemporaneo.
R. Righetto, in
L’Osservatore Romano 14 dicembre 2017