Il teologo fondamentale Jürgen Werbick, docente emerito dell’Università di Münster, presenta in questo recente volume una cristologia che ha l’intento di dare ragioni e motivare la fede in Gesù Cristo nei nostri tempi. Basandosi sulla testimonianza biblica, l’Autore vuole comprendere quanto la Scrittura ci attesta di Gesù Cristo e cosa può ancora dire questa testimonianza apostolica agli uomini del nostro tempo.
Questo testo di “cristologia elementare” cerca di rendere comprensibile la fede in Gesù Cristo, così come è stata tramandata nel Nuovo Testamento. In questi testi si dà testimonianza di quella autocomunicazione in cui Dio non solo si avvicina agli uomini, ma si dà pienamente a quell’uomo – Gesù di Nazareth – che risponde pienamente al dono che Dio fa di sé, donando se stesso nell’amore.
Quella che Werbick chiama “cristologia alta”, cioè la riflessione della Chiesa primitiva – così come è stata formulata nei concili cristologici dal IV all’VIII secolo d.C. – ha l’intento di farci comprendere questa fondamentale testimonianza del Nuovo Testamento. La riflessione conciliare articola questo kerygma a partire dalle questioni affrontate dalla Chiesa nel corso dei primi cinque secoli.
Nel primo capitolo l’Autore affronta la questione della fede in Gesù Cristo così come si presenta nell’attuale panorama culturale segnato dalla secolarizzazione e in particolare dalla svolta post-secolare della religione. In questo capitolo vengono fornite anche le guide ermeneutiche della riflessione cristologica. Dal secondo capitolo al capitolo settimo, Werbick introduce il lettore ad una riflessione teologica sulla vita e la persona di Gesù. Si affronta in questi capitoli la questione dell’origine di Gesù, il suo concepimento da parte dello Spirito Santo.
Al capitolo terzo e quarto si affronta il rapporto tra Gesù e Giovanni il Battista, il tema dell’annuncio del Regno di Dio in parole (specialmente le parabole del Regno e le beatitudini) e gesti (le guarigioni miracolose di Gesù e l’annuncio del perdono). Nell’interpretazione del rapporto tra il Battista e Gesù, decisamente Werbick previlegia lo schema della discontinuità: «la radicale apocalittica del giudizio, propugnata dal Battista, viene notevolmente relativizzata [da Gesù], se non mutata nella sua stessa essenza» (71). Al capitolo quinto, l’Autore affronta l’ardua questione del rapporto tra Gesù e la legge (Torà). Anche in questa sede si privilegia il criterio della discontinuità nel comprendere tale rapporto.
Il capitolo sesto è dedicato alla morte in croce di Gesù e al significato staurocentrico della salvezza. L’Autore si pone la domanda se la croce di Gesù era necessaria per la salvezza e se è necessario interpretare questa morte come un sacrificio. «La soteriologia staurocentrica, tuttavia, non rimane l’unica possibilità nel Nuovo Testamento per intendere Gesù Cristo quale mediatore escatologico di salvezza» (152). Al capitolo settimo si discute della risurrezione e della novità di questo evento escatologico. L’Autore ben sottolinea l’aspetto incoativo della risurrezione di Gesù Cristo a opera dello Spirito Santo «punto d’avvio della risurrezione escatologica dei morti» (208).
Il capitolo ottavo è dedicato ad alcune riflessioni critiche sullo sviluppo cristologico dei primi concili della Chiesa, in particolare le origini della “cristologia alta” (Nicea e Calcedonia). Werbick si domanda se una cristologia dello Spirito sia meglio capace di innovare l’impianto tradizionale della cristologia conciliare, in particolare comprendendo Gesù come veramente uomo, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). In questo uomo, infatti, «avviene la definitiva presenza umana di Dio» (232). Infine, il capitolo nono si focalizza sulle questioni di teologia trinitaria, rese possibili dallo studio della testimonianza biblica, richiamate recentemente anche dalla riscoperta dell’ontologia di relazione con comprendere Dio e la sua auto-comunicazione.
Uno dei temi centrali affrontati nel libro è la rilevanza soteriologica della persona di Gesù. Ciò è in linea con l’intenzione dell’Autore che è appunto di elaborare un significato di Gesù Cristo che possa essere rilevante per la fede attuale. Werbick sostituisce alla logica morale-giuridica del dover pagare un debito e quindi qualcosa di “dovuto” – secondo cui un innocente prende il posto e viene punito al posto di altri, affinché questi siano liberati dai loro peccati – la logica del “dono”, cioè della sovrabbondanza e del senza misura.
Il dono eccede il dovuto. In questa prospettiva, la morte in croce di Gesù Cristo non appare più come il sacrificio necessario allo scopo di placare l’ira che Dio nutre verso i peccatori, ma diventa il segno effettivo della riconciliazione, della disponibilità di Dio per il ristabilimento della comunione con Dio stesso.
Anche nell’Antico Testamento, l’espiazione non veniva intesa come il prezzo che l’uomo doveva pagare a Dio per assicurarsi il suo beneplacito (do ut des), ma il dono che Dio faceva all’uomo – attraverso il rito dell’espiazione – di ristabilire la comunione con Lui. Pertanto, coloro che offrono sacrifici sono considerati ospiti, a cui Dio concede che siano introdotti alla Sua presenza salvifica. Werbick utilizza questa logica del “dono” come modello per interpretare la morte di Cristo sulla croce. Cristo prende il posto dei maledetti da Dio sulla croce, per ricondurli a Dio e dare loro la comunione salvifica con Lui.
In tal modo si realizza la disposizione originaria di Dio di voler essere un Dio “con gli uomini”. Secondo il nostro Autore, in questo consiste la volontà salvifica di Dio: condurre l’umanità a se stesso. Lo Spirito Santo opera nei credenti questa presenza salvifica di Dio in Gesù Cristo, affinché anch’essi possano divenire una cosa sola con Dio e vivere così alla Sua presenza.
Werbick elabora la rilevanza salvifica dell’evento di Cristo sulla base della testimonianza biblica – tenendo ben presente il contesto odierno in cui questa fede viene ad essere vissuta – servendosi del paradigma del “dono” e della “sovrabbondanza” di Dio. Questa “cristologia elementare” riesce a ridare un senso teologicamente sano e spiritualmente stimolante al Cristo così come viene formulato e presentato nei dogmi. Senza liquidare le formule della cristologia antica, Werbick è disposto a metterne in discussione i fondamenti biblici e teologici perché siano trasmessi alla comprensione odierna di fede senza che questi fondamenti siano traditi nelle loro più profonde intenzioni.
Comprendere Gesù Cristo non significa ripetere “letteralmente” ciò che egli stesso ha detto di sé e ciò che la Chiesa primitiva ha detto di lui, ma comprendere attraverso la testimonianza biblica e dei concili ciò che è l’essenza della fede cristiana. Solo comprendendone l’essenza nella cultura di quel tempo si può comprendere il cristianesimo nella cultura di questo tempo. La rilevanza salvifica della cristologia, infatti, si dà nell’assumere continuamente – con intelligenza – l’evento della fede, cioè di Dio che si lascia incontrare e comprendere non solo nell’umanità di Gesù di Nazareth ma anche nella nostra umanità.
Seguendo questa linea di ri-pensamento della cristologia, Werbick si sofferma negli ultimi due capitoli (8 e 9) a comprendere meglio la relazione tra infinito e finito, Dio e creato. La cristologia, infatti, ci offre la grammatica di questo rapporto. Al modello conciliare della giustapposizione delle due nature – divina e umana – nell’ipostasi del Verbo, il nostro Autore sostituisce il modello della reciproca inclusione (cf 266). Per elaborare questo modello è necessario però ripensare «la metafisica della perfezione di Dio di stampo platonico» (268).
L’infinito non esclude da sé il finito, ma include quel finito che è reso capace dell’infinito. L’infinito, infatti, è originariamente capax finiti. «Un Dio eternamente in sé compiuto è infatti all’altezza anche della sua alterità: può comunicarsi e consentire la partecipazione a sé, in modo che gli esseri umani possano prendere parte a lui» (269). Va notato, però, che più che di inclusione reciproca o mutuo confronto tra infinito e finito (cf anche 301), si tratta propriamente di una relazione asimmetrica. Infatti, Werbick tiene subito a precisare che il finito «[è] capace di Dio, però, soltanto perché lo Spirito Santo apre a Gesù, in quanto uomo, la possibilità di diventare la realtà dell’autocomunicazione divina di essere colmato infinitamente da essa nella sua umanità finita e storia» (270). Dunque, è vero che la dinamica autocomunicativa di Dio è essenziale, è “interna a Dio”, poiché «Dio è in se stesso perfetta autocomunicazione […] Dio accade come relazione, è relazione» (301), ma tale capacità relazionale di Dio di essere “con-altri” – ciò che la dottrina trinitaria intende formulare – è eterna, per cui le critiche avanzate dall’Autore all’idea dell’immutabilità di Dio sono contraddette dallo stesso Werbick.
Certamente, Dio è «massimamente disposto e capace di entrare in relazione, come colui che non deve escludere da sé l’elemento non divino per preservare la propria identità» (44), ma tale diposizione e capacità dice del destino necessario dell’identità divina che è un Dio non senza l’uomo Gesù.
P. Gamberini, in
Rassegna di Teologia 4/2023, 566-568