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Dio - umano
Jürgen Werbick

Dio - umano

Una cristologia ‘elementare’

Prezzo di copertina: Euro 44,00 Prezzo scontato: Euro 41,80
Collana: Biblioteca di teologia contemporanea 212
ISBN: 978-88-399-3612-7
Formato: 15,7 x 23 cm
Pagine: 336
Titolo originale: Gott-menschlich. Elementare Christologie
© 2022

In breve

Werbick offre una “traduzione” nuova della fede in Cristo. Coinvolge nel suo discorso gli inizi della riflessione cristologica, ma bada anche a quanto quegli inizi apportano oggi alla comprensione dei contenuti basilari del cristianesimo, ovvero a ciò che è e resta essenziale in cristologia. Prende forma, così, un libro per avvicinare in modo comprensibile e convincente i contemporanei ai contenuti della fede in Gesù.

Descrizione

In questa sua cristologia Werbick non si accontenta di ripetere le classiche formule dogmatiche, ma muove alla ricerca dei linguaggi adatti alla comprensione odierna, mettendo in dialogo le origini della fede cristologica con la situazione attuale del cristiano. Il teologo di Münster avvia dunque un percorso – più precisamente: «un esperimento sulla figura e sul ruolo di Gesù Cristo» – che consenta di ricomprendere oggi la cristologia “alta” e la soteriologia sacrificale, senza però limitarsi a derivarle dalla storia (e senza neppure congedarle sbrigativamente).
Dio - umano presenta allora l’intuizione cristologica basilare: Dio lo si incontra “umanamente”; Dio vuol essere compreso in un essere umano. L’uomo Gesù di Nazaret è la realtà di Dio in questo mondo, poiché Gesù da lui riceve la propria umanità e da lui riceve vita, così da portare Dio ai propri simili, fino all’estremo.
A partire dal mistero della persona di Gesù, Werbick dispiega in modo originale le formule della cristologia presenti nella tradizione ecclesiale e le interpretazioni teologiche dell’opera redentiva di Gesù Cristo, a volte così “dure da digerire” per la comprensione odierna.
Ecco allora qui una “traduzione” nuova della testimonianza biblica: un libro che avvicina i contemporanei ai contenuti della fede in Cristo, nello sforzo di renderli più comprensibili.

Recensioni

Con questo testo il teologo di Münster affronta la cristologia con lo stile che lo caratterizza. La prospettiva è, infatti, marcatamente fondamentale, nel tentativo di non dare nulla per scontato ed entrare in dialogo con la sensibilità contemporanea post-secolare per cercare di pensare e dire Dio nell'oggi. Va detto peraltro che la presenza di molte domande e lo stile non sempre lineare rendono il testo più facile da affrontare per chi abbia già idea delle problematiche e delle possibili soluzioni sottese; permette insomma al teologo di riprendere tematiche classiche e provare a decostruirle osservandole da prospettive differenti. Questa è pertanto una cristologia elementare perché cerca di non perdersi nelle pur rilevanti questioni cristologiche specifiche, più che non perché tratti le questioni di fondo in modo "elementare"; la si potrebbe pertanto chiamare una cristologia fondamentale.

La struttura del testo segue i misteri della vita di Gesù, in linea con l'intento dell'A. di riproporre la cristologia alta della chiesa iniziando dal basso. Dopo un capitolo introduttivo (1. La. cristologia in epoca post-secolare)vengono analizzati: la venuta di Cristo (2. Venuto concepito),l'annuncio del regno (3. La testimonianza del regno ormai prossimo di Dio e 4. Come Gesù insegna e mette in pratica il regno di Dio), il rapporto con la legge (5. L’adempimento della Torah),per passare ai capitoli fondamentali sulla morte (6. La morte di Gesù in croce: realtà di salvezza?)e la risurrezione (7. Salvezza e rendimento di grazia).Da ultimo vengono riprese e ripensate le domande della storia, in particolare della patristica del IV secolo (8. Dio - umano: la posta in gioco di una "cristologia alta")per aprirsi a una prospettiva trinitaria marcatamente pneumatologica (9. L’esistenza trinitaria di Dio).

La questione guida del testo si chiede se il carico metafisico imposto dalla chiesa antica non sia eccessivo, una specie di lusso che appesantisce inutilmente l'annuncio di Cristo. La risposta, tuttavia, è articolata e invita a «non rifugiarsi nelle formule della "cristologia alta" e della sua teologia sacrificale, ma [...] neppure congedarle con troppa impazienza» (p. 307). L'intenzione è pertanto quella di riprendere, "salvare" le questioni chiave della cristologia alta patristica (da qui la preferenza accordata dall'A. al Vangelo di Giovanni) e anche le prospettive sacrificali del medioevo latino, provando a rileggerle in modo radicale nel contesto e nel quadro di riferimento concettuale attuale. Per fare questo non si vogliono abbandonare le formulazioni patristiche e calcedonensi sulle due nature, ma piuttosto ribadire la priorità dell'attestazione neotestamentaria sulle formulazioni dogmatiche successive. È infatti solo guardando all'evento di Cristo, evento «oltre il quale non può accadere niente di più grande» (Schelling) che le preoccupazioni teologiche ritrovano il loro senso proprio e possono essere ripensate. La cristologia antica si è sentita in dovere di combattere contro le conseguenze di un Dio che si lascia incontrare nell'umanità fino all'estremo, «e proprio in questo risiede oggi la sfida della cristologia per la teologia» (p. 278).

Non potendo dare conto delle molte questioni affrontate nel testo si possono però sottolineare alcuni snodi e questioni centrali. Un primo snodo riguarda il tentativo di leggere la staurologia sacrificale ed espiativa - con le sue radici bibliche ed ebraiche, oltre che con i suoi sviluppi medioevali («il successo ambivalente di un modello biblico», p. 172) - attraverso la legge della sovrabbondanza (Ricoeur). Di fronte all'interrogativo se la croce fosse necessaria, l'intento dell'A. è quello di mostrare come la logica sottostante non possa essere quella del pareggio, nella quale l'espiazione è necessaria per riportare in pari la bilancia, ma piuttosto quella della sovrabbondanza, del compimento eccedente. Il sacrificio esprime la cura della relazione, la cura della comunione, da parte di un Dio la cui volontà comunicativa è incondizionata ed eccedente. «In lui è accaduto ciò di cui non può accadere nulla di più grande: la più profonda, inequivocabile, ferma volontà di Dio di partecipare alla vita umana. E questo è accaduto nell'uomo di Dio, Gesù di Nazaret, la personificazione di questa stessa volontà divina» (p. 195).

Da qui un secondo snodo, ovvero quello comunicativo. «Il paradigma di fondo in cui sto tentando di pensare e parlare in termini cristologici [...] è quello della comunicazione» (p. 291). La prospettiva cristologica dell'A. è fortemente teocentrica ed è a partire da questa centralità che si comprendono alcune scelte teologiche conseguenti. Sul versante di Dio, Gesù può essere visto come la volontà comunicativa di Dio - da cui l'interesse a difendere una cristologia alta. Gesù è consegnato alla testimonianza comunicativa di un Dio radicalmente relazionale, che è coinvolgente perché coinvolto, vincolante perché vincolato. Sul versante dell'uomo, Gesù si presenta come il referente (Bezugsperson) della fede. Cristo, infatti, non più presente come singolo individuo, resta presente nello Spirito e diventa «il referente della fede cristiana, perché le cristiane e i cristiani imparano con lui a credere e desiderare il regno di Dio, e desiderando imparano a vivere nell'impegno a iniziare a realizzare già ora le sue beatitudini» (Ibid.).

L'indirizzo generale di questa riflessione cristologica spinge pertanto in una prospettiva che è al tempo stesso teocentrico-pneumatologica e escatologico-sociale. Da una parte la centralità teocentrica permette di leggere la cristologia in chiave pneumatologica (una pista sostanzialmente non percorsa dalla chiesa antica per timore dell'adozionismo), ma permette anche a tutti di rivolgersi a Dio nello Spirito, vivendo «nel campo di forza dello Spirito santo» (p. 208). D'altra parte, questa inabitazione spirituale non vuole avere nulla di spiritualistico, ma spinge piuttosto verso l'impegno sociale (sulla linea di Metz e Sobrino). L'evento di Cristo è escatologico in quanto smaschera il male e gli idoli e spinge alla realizzazione del regno.


L. Paris, in Studia Patavina 1/2024, 145-147

Il teologo fondamentale Jürgen Werbick, docente emerito dell’Università di Münster, presenta in questo recente volume una cristologia che ha l’intento di dare ragioni e motivare la fede in Gesù Cristo nei nostri tempi. Basandosi sulla testimonianza biblica, l’Autore vuole comprendere quanto la Scrittura ci attesta di Gesù Cristo e cosa può ancora dire questa testimonianza apostolica agli uomini del nostro tempo.

Questo testo di “cristologia elementare” cerca di rendere comprensibile la fede in Gesù Cristo, così come è stata tramandata nel Nuovo Testamento. In questi testi si dà testimonianza di quella autocomunicazione in cui Dio non solo si avvicina agli uomini, ma si dà pienamente a quell’uomo – Gesù di Nazareth – che risponde pienamente al dono che Dio fa di sé, donando se stesso nell’amore.

Quella che Werbick chiama “cristologia alta”, cioè la riflessione della Chiesa primitiva – così come è stata formulata nei concili cristologici dal IV all’VIII secolo d.C. – ha l’intento di farci comprendere questa fondamentale testimonianza del Nuovo Testamento. La riflessione conciliare articola questo kerygma a partire dalle questioni affrontate dalla Chiesa nel corso dei primi cinque secoli.

Nel primo capitolo l’Autore affronta la questione della fede in Gesù Cristo così come si presenta nell’attuale panorama culturale segnato dalla secolarizzazione e in particolare dalla svolta post-secolare della religione. In questo capitolo vengono fornite anche le guide ermeneutiche della riflessione cristologica. Dal secondo capitolo al capitolo settimo, Werbick introduce il lettore ad una riflessione teologica sulla vita e la persona di Gesù. Si affronta in questi capitoli la questione dell’origine di Gesù, il suo concepimento da parte dello Spirito Santo.

Al capitolo terzo e quarto si affronta il rapporto tra Gesù e Giovanni il Battista, il tema dell’annuncio del Regno di Dio in parole (specialmente le parabole del Regno e le beatitudini) e gesti (le guarigioni miracolose di Gesù e l’annuncio del perdono). Nell’interpretazione del rapporto tra il Battista e Gesù, decisamente Werbick previlegia lo schema della discontinuità: «la radicale apocalittica del giudizio, propugnata dal Battista, viene notevolmente relativizzata [da Gesù], se non mutata nella sua stessa essenza» (71). Al capitolo quinto, l’Autore affronta l’ardua questione del rapporto tra Gesù e la legge (Torà). Anche in questa sede si privilegia il criterio della discontinuità nel comprendere tale rapporto.

Il capitolo sesto è dedicato alla morte in croce di Gesù e al significato staurocentrico della salvezza. L’Autore si pone la domanda se la croce di Gesù era necessaria per la salvezza e se è necessario interpretare questa morte come un sacrificio. «La soteriologia staurocentrica, tuttavia, non rimane l’unica possibilità nel Nuovo Testamento per intendere Gesù Cristo quale mediatore escatologico di salvezza» (152). Al capitolo settimo si discute della risurrezione e della novità di questo evento escatologico. L’Autore ben sottolinea l’aspetto incoativo della risurrezione di Gesù Cristo a opera dello Spirito Santo «punto d’avvio della risurrezione escatologica dei morti» (208).

Il capitolo ottavo è dedicato ad alcune riflessioni critiche sullo sviluppo cristologico dei primi concili della Chiesa, in particolare le origini della “cristologia alta” (Nicea e Calcedonia). Werbick si domanda se una cristologia dello Spirito sia meglio capace di innovare l’impianto tradizionale della cristologia conciliare, in particolare comprendendo Gesù come veramente uomo, in cui abita corporalmente tutta la pienezza della divinità (Col 2,9). In questo uomo, infatti, «avviene la definitiva presenza umana di Dio» (232). Infine, il capitolo nono si focalizza sulle questioni di teologia trinitaria, rese possibili dallo studio della testimonianza biblica, richiamate recentemente anche dalla riscoperta dell’ontologia di relazione con comprendere Dio e la sua auto-comunicazione.

Uno dei temi centrali affrontati nel libro è la rilevanza soteriologica della persona di Gesù. Ciò è in linea con l’intenzione dell’Autore che è appunto di elaborare un significato di Gesù Cristo che possa essere rilevante per la fede attuale. Werbick sostituisce alla logica morale-giuridica del dover pagare un debito e quindi qualcosa di “dovuto” – secondo cui un innocente prende il posto e viene punito al posto di altri, affinché questi siano liberati dai loro peccati – la logica del “dono”, cioè della sovrabbondanza e del senza misura.

Il dono eccede il dovuto. In questa prospettiva, la morte in croce di Gesù Cristo non appare più come il sacrificio necessario allo scopo di placare l’ira che Dio nutre verso i peccatori, ma diventa il segno effettivo della riconciliazione, della disponibilità di Dio per il ristabilimento della comunione con Dio stesso.

Anche nell’Antico Testamento, l’espiazione non veniva intesa come il prezzo che l’uomo doveva pagare a Dio per assicurarsi il suo beneplacito (do ut des), ma il dono che Dio faceva all’uomo – attraverso il rito dell’espiazione – di ristabilire la comunione con Lui. Pertanto, coloro che offrono sacrifici sono considerati ospiti, a cui Dio concede che siano introdotti alla Sua presenza salvifica. Werbick utilizza questa logica del “dono” come modello per interpretare la morte di Cristo sulla croce. Cristo prende il posto dei maledetti da Dio sulla croce, per ricondurli a Dio e dare loro la comunione salvifica con Lui.

In tal modo si realizza la disposizione originaria di Dio di voler essere un Dio “con gli uomini”. Secondo il nostro Autore, in questo consiste la volontà salvifica di Dio: condurre l’umanità a se stesso. Lo Spirito Santo opera nei credenti questa presenza salvifica di Dio in Gesù Cristo, affinché anch’essi possano divenire una cosa sola con Dio e vivere così alla Sua presenza.

Werbick elabora la rilevanza salvifica dell’evento di Cristo sulla base della testimonianza biblica – tenendo ben presente il contesto odierno in cui questa fede viene ad essere vissuta – servendosi del paradigma del “dono” e della “sovrabbondanza” di Dio. Questa “cristologia elementare” riesce a ridare un senso teologicamente sano e spiritualmente stimolante al Cristo così come viene formulato e presentato nei dogmi. Senza liquidare le formule della cristologia antica, Werbick è disposto a metterne in discussione i fondamenti biblici e teologici perché siano trasmessi alla comprensione odierna di fede senza che questi fondamenti siano traditi nelle loro più profonde intenzioni.

Comprendere Gesù Cristo non significa ripetere “letteralmente” ciò che egli stesso ha detto di sé e ciò che la Chiesa primitiva ha detto di lui, ma comprendere attraverso la testimonianza biblica e dei concili ciò che è l’essenza della fede cristiana. Solo comprendendone l’essenza nella cultura di quel tempo si può comprendere il cristianesimo nella cultura di questo tempo. La rilevanza salvifica della cristologia, infatti, si dà nell’assumere continuamente – con intelligenza – l’evento della fede, cioè di Dio che si lascia incontrare e comprendere non solo nell’umanità di Gesù di Nazareth ma anche nella nostra umanità.

Seguendo questa linea di ri-pensamento della cristologia, Werbick si sofferma negli ultimi due capitoli (8 e 9) a comprendere meglio la relazione tra infinito e finito, Dio e creato. La cristologia, infatti, ci offre la grammatica di questo rapporto. Al modello conciliare della giustapposizione delle due nature – divina e umana – nell’ipostasi del Verbo, il nostro Autore sostituisce il modello della reciproca inclusione (cf 266). Per elaborare questo modello è necessario però ripensare «la metafisica della perfezione di Dio di stampo platonico» (268).

L’infinito non esclude da sé il finito, ma include quel finito che è reso capace dell’infinito. L’infinito, infatti, è originariamente capax finiti. «Un Dio eternamente in sé compiuto è infatti all’altezza anche della sua alterità: può comunicarsi e consentire la partecipazione a sé, in modo che gli esseri umani possano prendere parte a lui» (269). Va notato, però, che più che di inclusione reciproca o mutuo confronto tra infinito e finito (cf anche 301), si tratta propriamente di una relazione asimmetrica. Infatti, Werbick tiene subito a precisare che il finito «[è] capace di Dio, però, soltanto perché lo Spirito Santo apre a Gesù, in quanto uomo, la possibilità di diventare la realtà dell’autocomunicazione divina di essere colmato infinitamente da essa nella sua umanità finita e storia» (270). Dunque, è vero che la dinamica autocomunicativa di Dio è essenziale, è “interna a Dio”, poiché «Dio è in se stesso perfetta autocomunicazione […] Dio accade come relazione, è relazione» (301), ma tale capacità relazionale di Dio di essere “con-altri” – ciò che la dottrina trinitaria intende formulare – è eterna, per cui le critiche avanzate dall’Autore all’idea dell’immutabilità di Dio sono contraddette dallo stesso Werbick.

Certamente, Dio è «massimamente disposto e capace di entrare in relazione, come colui che non deve escludere da sé l’elemento non divino per preservare la propria identità» (44), ma tale diposizione e capacità dice del destino necessario dell’identità divina che è un Dio non senza l’uomo Gesù.


P. Gamberini, in Rassegna di Teologia 4/2023, 566-568

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