La problematica di fondo è chiarita sin dall’incipit con cui si apre il saggio del teologo tedesco Jürgen Werbick: «In questo libro ci si occuperà di ciò che significa credere». Un inizio che restituisce intatto il sapore della sfida posta da una questione quanto mai all’ordine del giorno: credere, infatti, vuol dire avere, come lo stesso autore acutamente evidenzia, una concentrazione della fede su se stessa e, necessariamente, capire i riflessi che tale concentrazione ha sulla vita di chiunque si proclami credente.
Il rimando è all’esortazione apostolica Evangelii gaudium, laddove papa Francesco dichiara che «l’annuncio si concentra sull’essenziale, su ciò che è più bello, più grande, più attraente e allo stesso tempo più necessario» (n. 35; EV 29/2141) e dove ricorda che il concilio Vaticano II ha affermato che «esiste un ordine o piuttosto una “gerarchia” delle verità nella dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana» (n. 36; EV 29/2142). Ciò vale tanto per la dogmatica su cui si fonda la fede medesima quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, a iniziare da quello morale.
Dinanzi a tali fondate posizioni espresse dal pontefice, Werbick si domanda se esse – nel momento in cui la plurimillenaria fede cristiana si è, di fatto, trasformata in una sorta di versione che non esita a definire profondamente ambigua circa la comprensione (post)moderna del sé e del mondo – siano sufficientemente innovative e radicali per portare avanti un nuovo intendimento della fede di cui si sente sempre più l’incalzante necessità.
Al riguardo, l’autore non esita a mettere a confronto le risposte che provengono dal mondo islamico e da quello cristiano, sia cattolico sia protestante, per sottoporre al lettore quale sia l’effettiva posta in gioco. Alla domanda se ci si dichiari fedeli alla Chiesa di Roma oppure se ci si professi evangelici, frequentemente si ottiene come risposta «né l’uno né l’altro, sono normale», come se l’essere cattolici o protestanti fosse un segno di anormalità; viceversa, se l’interlocutore è una donna islamica, essa attesta la propria fede indicando meravigliata che non lo si sia già notato in precedenza a motivo del fatto che nel suo abito è presente il velo.
In breve, gli interrogativi del dove e del come accade la fede e, ancora, del dove essa conduce e del dove intende guidare coloro che si richiamano alle Scritture bibliche sono indubbiamente necessari, ma è ancora più imprescindibile la discussione sul significato della fede della Bibbia e della Chiesa cristiana, se il cristianesimo vuole sopravvivere. Nell’attuale fase storica, caratterizzata da società multietniche e multiculturali in continua evoluzione, le tradizionali formule con cui sinora si è espressa la religione cristiana, nelle sue diverse declinazioni confessionali, hanno perso di significato tra la gente comune.
Ciò è accaduto perché, come scrive il pedagogo della religione Hubertus Halbfas, citato da Werbick nella Premessa al volume, la loro fede non si caratterizza più come un «ritenere vero». In estrema sintesi, per Halbfas: «Al posto della “fede” pongo l’impegno, in cui non si tratta di assumere delle idee, ma di vivere dei valori. Paolo ha difeso una dottrina di fede che pretendeva obbedienza. Gesù ha difeso un modo di vivere che non ha bisogno di essere dimostrato con argomenti, che non è soggetto ad alcuna usura perché possiede un’evidenza in se stesso» (7).
A fronte di questa affermazione Werbick si chiede e, allo stesso tempo, domanda al lettore (che è sempre parte attiva nell’affrontare la lettura del testo) se siamo realmente in cammino verso una riforma così intrinsecamente radicale della fede, oppure se il portato dei tempi correnti richiede una diversa e più articolata prospettiva.
La robusta navigazione teologica che affronta il teologo tedesco nell’esplorare, nelle pagine del pregevole saggio, il rapporto del credere con il sapere, sia esso filosofico o scientifico, con il sentire, con la libertà, con l’agire non conduce in una tranquilla insenatura di immutabili certezze al riparo, dunque, dai tempestosi venti e dalle insidiose correnti della storia; piuttosto scava nelle controversie religiose, nell’esperienza sempre accessibile del credere medesimo con gli strumenti di una teologia fondamentale declinata come «teologia del credere», laddove lo sforzo intellettuale di Werbick è tutto proteso a delineare una collocazione teologica della fede in grado di ri-orientare il credente in una soteriologia in cui l’Eterno non considera nessuno di noi perduto, in quanto vuole essere «eternamente» presente in noi e con noi.
Perché solo in questa disagevole rotta il gesto quotidiano della preghiera coincide con la richiesta stessa della fede e del lasciarsi coinvolgere in quello che Werbick chiama «il futuro di Dio».
D. Segna, in
Il Regno Attualità 20/2024, 624