L’intento di questo recente libro del teologo fondamentale emerito dell’Università di Münster, J. Werbick, è di esaminare il linguaggio polarizzante dei teologi tedeschi nei loro discorsi sociali, ecclesiastici e teologici. Tali estremizzazioni si basano su alternative esclusive che cercano di rendere inaccettabile la posizione opposta, spingendo così per una scelta determinata.
Da un lato, c’è il rischio di diluire l’insegnamento evangelico e l’apporto della tradizione ecclesiale; dall’altro, di esasperare l’adesione rigida alla tradizione. Per esempio: la riformulazione postmoderna dell’etica sessuale contrapposta alla visione dell’ordine eterno della creazione; la tentazione di diluire l’essenza del cristianesimo nell’attivismo sociale o in determinate politiche ecologiche.
Tali differenti e opposte posizioni ruotano attorno a una opzione fondamentale: la verità precede e informa la libertà della coscienza oppure la libertà determina il contenuto di ciò che è vero per la coscienza del credente? Questa alternativa con le sue particolari modulazioni offusca la vera sfida che è invece quella di assumere e sopportare la complessità della realtà.
L’alternativa va ricondotta così all’ambivalente struttura della realtà umana. «Io mi batto per una teologia a cui nulla di umano rimane estraneo, perché nulla di umano è estraneo alla fede cristiana» (9). La teologia non si erge a giudice, ma cerca di comprendere come parlare dell’essere umano, della grazia, della redenzione, della libertà, del piacere e della realizzazione personale, del fallimento e del peccato. In definitiva, la teologia parla di un Dio che non abbandona mai l’umanità a se stessa, ma la trasforma e la rinnova attraverso le sue crisi.
Nel primo capitolo viene esaminato il rapporto tra fede cristiana ed esperienza, e quale di queste debba avere priorità sull’altra. Per la sensibilità contemporanea, il credere non può basarsi su un “sentito dire”, a partire dall’annuncio del Vangelo o di una dottrina di fede. Nulla ha senso, per l’uomo contemporaneo, se non ciò che viene esperito o vissuto in prima persona. L’esperienza individuale, anche quella di fede, è criterio fondamentale per poter aderire a una verità. Dinanzi all’alternativa, credere o sperimentare, cosa scegliere?
Come già detto, qualsiasi alternativa rischia di semplificare la realtà. Nell’esperienza di fede, infatti, è presente sia un aspetto di attività, proprio del soggetto, sia un aspetto di passività, di ciò che viene incontro al soggetto nell’esperienza. La polarità di soggetto e oggetto trova la sua riconciliazione nel circolo ermeneutico di fede e interpretazione (cf 25).
Nel secondo capitolo si esamina l’appello tipico della esperienza religiosa di porre l’uomo davanti alla radicale alternativa del tutto o niente, dove il tutto è Dio (e il Cristo) e il niente è il mondo (con le sue attrazioni e tentazioni). Questo è presente nella proposta del cristianesimo anti-borghese di Søren Kierkegaard e Vladimir S. Solov’ëv. Risolutezza della fede o cristianesimo del compromesso? La via proposta da Werbick è di riconsiderare tale alternativa alla luce della buona volontà di Dio che traspare nella prassi di vita anche dello stesso Gesù, il quale annunciò la radicalità del Regno di Dio, condividendo la sua vita con quella degli uomini del suo tempo. Il Figlio di Dio, infatti, è detto un mangione e un beone (Mt 11,19).
Il terzo capitolo è dedicato alla dialettica tra verità e interpretazione nel cristianesimo. Ritroviamo questo tema, in particolare, nella recente discussione sul relativismo di Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. È possibile accedere direttamente alla verità della fede, evitando la dinamica dell’ermeneutica? Per Benedetto XVI è possibile; per Nietzsche, invece, non ci sono dei fatti in-sé (facta bruta), bensì solo delle interpretazioni. Tale polarizzazione, tuttavia, semplifica l’inevitabile tensione tra evento e interpretazione, che è propria della testimonianza cristiana. «La verità di una testimonianza (di rivelazione) non sta nel fatto che mi informa in modo affidabile sui fatti, ma nel fatto che mi apre fonti di fiducia in Dio e nella vita» (69).
Ciò significa che il conflitto delle interpretazioni è condicio sine qua non per avvicinarsi alla verità. «[N]eppure Dio può scavalcare [le] condizioni della finitezza con un’auto-presenza nel mondo del finito che sia percepita come assoluta e debba essere affermata» (81).
Nel quarto capitolo si affronta l’antica questione ecumenica del rapporto tra grazia e libertà, e tra ragione e fede. Rivisitando storicamente e teologicamente i termini della questione, Werbick privilegia una prospettiva in cui la dualità – presupposta dall’alternativa – viene assunta in una originaria comprensione dell’umano e del divino, in cui i due termini non si escludono ma si compenetrano. La grazia rende possibile la libertà che condiziona la stessa grazia. L’auto-fondazione della fede rinvia alla ragione per averne argomentazioni.
Il quinto e sesto capitolo esaminano le ragioni dell’attuale crisi di fede. Alcuni affermano che la causa è data dall’annacquamento nell’esposizione della dottrina di fede e della morale. La crisi di fede è dovuta, quindi, ad una mancanza di fede. Altri, invece, sono convinti che questa crisi è dovuta alla incapacità della Chiesa di saper intercettare i segni dei tempi, per poter non solo riproporre in maniera nuova il deposito di fede ma saperlo anche riformare, almeno su questioni riguardanti l’etica sessuale, in particolare l’omosessualità. La dottrina ecclesiale e la struttura sacrale della Chiesa non sono qualcosa d’immutabile e irriformabile. La Chiesa ha cambiato – specialmente con il Concilio Vaticano II – la sua dottrina riguardante la libertà religiosa, l’atteggiamento nei confronti dell’esegesi biblica, il dialogo ecumenico e interreligioso. È necessario prendere sul serio «l’umano come luogo di realizzazione della Chiesa», per evitare «la tentazione del monofisismo ecclesiale» (153).
Nel capitolo quinto si dà ampio spazio al recente dibattito tra Karl-Heinz Menke e Magnus Striet sulla questione del rapporto tra verità libera e libertà vera. Per il primo, la verità è all’origine della libertà e informa la sua ricezione nell’esperienza; per il secondo, è solo la libertà che rende possibile la ricezione della verità da parte dei soggetti ecclesiali. «Schierarsi solo a favore del partito del da sempre è così ha danneggiato la communio di tutti coloro che vogliono partecipare alla verità della fede con le loro esperienze» (132). Anche in questo caso, fermarsi allo scontro tra queste due posizioni è riduttivo poiché impedisce di assumere la complessità della formazione di una buona coscienza morale.
Il capitolo settimo è di stampo cristologico. «Niente di umano è estraneo al Dio che si lascia trascinare nell’essere umano» (169). Questa è la tesi di fondo non solo di questo capitolo, ma dell’intero impianto teologico del libro. Dio è essenzialmente autocomunicazione di sé. «Gesù di Nazareth vive umanamente l’essere-Dio di Dio» (184). Le metafore cristologiche e trinitarie non fanno altro che esprimere che Dio è veramente Dio, quando diventa un Dio umano. Nulla di umano, infatti, è estraneo a Dio. Quod non assumptum non est salvatum. Dio condivide se stesso, ciò che è suo, con gli uomini, affinché questi abbiano la vita. Purtroppo, «i concetti hanno preso il posto delle metafore per cogliere l’“essenza” dell’evento-Cristo» (177), rischiando così di contrapporre l’affermazione della vita di Dio a quella degli uomini. La cristologia, invece, ha bisogno di essere elaborata a partire dalla prospettiva di coloro che condividono la vita divina e quindi la solidarietà di Dio con noi. L’umano non è mai in alternativa al divino.
Nell’ultimo capitolo (ottavo), Werbick riprende le sue riflessioni teologiche, focalizzandole sull’idea dell’onnipotenza, così come viene confessata nel Credo apostolico. La Chiesa ha inteso il potere e il suo esercizio in base a un concetto di onnipotenza che rimanda alla capacità di autodeterminazione di un Assoluto privo di limiti. «[L’]Onnipotente è solo da se stesso ciò che è, e solo da se stesso vuole e può realizzare ciò che vuole e realizza» (199). Tale concetto di potenza assoluta, senza alcun legame e coinvolgimento interno con le creature, trasgredisce la compassione divina come è rivelata nelle Scritture. Dio non è né assolutamente onnipotente, cioè senza alcun limite, né bisognoso di ritirarsi da se stesso per far spazio alle sue creature (cf idea cabalistica dello zimzum).
Dio è onnipotente perché rende capaci le creature di avere in se la vita stessa di Dio. Tutte le creature, quindi, sono potenti “in” Dio (panenteismo). Allo stesso tempo, sottolinea Werbick, ciò non significa dissolvere il finito nell’infinito; oltre alla metafora dell’“in” è necessario porre anche l’altra metafora del “di fronte a” che salvaguarda la dimensione personale di Dio. Entrambe le metafore (in e coram deo) possono essere tenute insieme nella confessione trinitaria. In tal modo, infatti, si evita «la precaria alternativa tra il concretismo miracolistico della fede in Dio onnipotente e una relazione saggiamente distaccata dall’Assoluto, una relazione che in fondo non si aspetta più niente da lui» (219).
La qualità speculativa di questo recente volume di Werbick è quella di aver saputo rileggere teologicamente l’attuale situazione ecclesiale, richiamando il principio tipico della fede cattolica che è di assumere nell’“et et” l’alternativa polarizzante dell’“aut aut”, dando così ragione a una realtà complessa che non può riduttivamente essere semplificata.
P. Gamberini, in
Rassegna di Teologia 4/2024, 601-604