Scriveva Rilke a un giovane aspirante scrittore: «Se la sua vita quotidiana le sembra povera, non l’accusi. Accusi piuttosto se stesso». È una scelta vivere la vita come una strisciante e trascinata monotonia o come un’impegnativa ma soddisfacente sinfonia.
Nel libretto di meditazioni Alltägliche Dinge (1964), tradotto in italiano dalla Queriniana con il titolo Cose di ogni giorno, Karl Rahner, noto solitamente per la complessità del suo linguaggio, presenta una raccolta di meditazioni incantevoli nella loro semplicità e profonde nella loro immediatezza. Lo stile delle meditazioni è lontano dallo stile prosaico e carico di gergo che distingue varie opere di Rahner.
Occupandosi dell’Eterno e dell’eternità, la teologia non deve dimenticare che l’ambito e l’itinerario verso l’Eterno e il sacro è il quotidiano e il profano. Per questo le meditazioni di Rahner sono un pungolo per riflettere sulle cose di ogni giorno e vivere una spiritualità incarnata. Gli ambiti considerati sono esperienze che costituiscono la fabbrica della vita quotidiana come lavorare, camminare, sedersi, vedere, ridere, mangiare e dormire.
Con realismo, Rahner sottolinea dall’inizio che la teologia non è opera di magia o facile alchimia che trasforma il feriale con un colpo di bacchetta in festa. «Il feriale non va né addolcito né idealizzato. Solo in questo modo esso è proprio ciò che deve essere per il cristiano: lo spazio della fede, la scuola della sobrietà, l’esercizio della pazienza, il salutare smascheramento delle parole pesanti e degli ideali fittizi».
Ma questa stessa quotidianità, nella sua semplicità e anche nel suo tedio, «nasconde il miracolo eterno e il mistero silenzioso che chiamiamo Dio e la sua grazia recondita proprio quando rimane quotidianità». Le cose di ogni giorno, fatte di istanti, sono «messaggere di eternità». Sono come «gocce d’acqua nelle quali si riflette tutto il cielo, come segni che rimandano oltre se stessi».
A volte viviamo il lavoro come fuga dalla vita e a volte vogliamo sfuggire a tutto ciò che è lavoro e dovere. «Il lavoro autentico, però, sta nel mezzo, non è né il vertice né l’analgesico dell’esistenza». Rahner, con realismo, ricorda che il lavoro «non ci può mai ‘andare a genio’ del tutto». Il lavoro, solitamente, instaura una routine, «grigia fatica del ripetere gli stessi atti».
Per cui, la prima cosa che una teologia del lavoro deve dire è che esso è e rimarrà comunque lavoro, «affaticante monotonia, rinuncia alle proprie esigenze, realtà quotidiana». Ma il lavoro è anche trasformazione della terra e di noi stessi, è esercizio di fedeltà e spazio di pazienza e responsabilità. È palestra di maturazione.
I due capitoli dedicati al camminare e al sedersi sono per certi versi complementari e si illuminano a vicenda. Rahner riflette sull’ovvio ma non sempre riflettuto fatto di poterci muovere come esseri umani. Non siamo piante prigioniere del proprio terreno. «Siamo noi stessi che cerchiamo il nostro ambiente, lo trasformiamo, lo scegliamo e lo esploriamo camminando».
L’altra faccia della medaglia, il sedersi, è un’esperienza qualificante delle fatiche ma anche dei luoghi. È un’esperienza di libertà e liberazione dalla continua fuga da se stessi in attivismi che esiliano l’essere.
Sedersi è anche spazio di preghiera. È la una presa di coscienza che «Solo nell’unione amorosa col mistero infinito che chiamiamo Dio si può arrivare a non dover andare oltre, si può trovare il riposo, che non è solo una pausa in un vagabondare, si può udire la parola per la quale ogni mettersi a sedere e riposare è solo un simbolo e una promessa: “Il vincitore lo farò sedere con me, sul mio trono” (Ap 3,21)».
Il mangiare può essere vissuto nella sua dimensione di espressione della nostra indigenza e necessità, squalificandoci come umani, o può essere espressione della nostra convivialità, come atto di tutta la persona.
«È difficile trovare qualcosa di più misterioso del nutrirsi: trasformazione di ciò che è morto in una realtà vivente, appropriazione di elementi estranei, integrazione di un essere, che conserva le sue proprietà, in una realtà superiore e più ampia».
Se il libro si apre con il lavoro, esso chiude con il sonno, con il dormire. Anche il sonno quotidiano è una realtà molto misteriosa. Solo tramite questo abbandono, che costituisce quasi un terzo della nostra vita, noi abbiamo vera presa sulla nostra vita. Il sonno, che nella Scrittura è immagine della morte, è anche condizione della sopravvivenza.
Il sonno esprime un grande paradosso: «L’essere umano, che è persona e libertà, che padroneggia e governa se stesso, nel sonno si abbandona, rinuncia al controllo di sé, si affida alle potenze della sua esistenza, che egli non ha creato e non domina. Il sonno è un atto di fiducia nella intrinseca giustezza, sicurezza e bontà del mondo dell’uomo, un atto di onestà e di accordo con la realtà di cui non si può disporre». Se vissuto così, il sonno non è più un fatalistico cedere al fisiologismo, ma è un’esperienza dell’anima e dello spirito. «L’addormentarsi ha veramente qualcosa di simile all’intima struttura della preghiera, anch’essa un abbandono fiducioso di se stessi alla volontà di Dio accolta come amore».
R. Cheaib, in
www.theologhia.com 06/2016