Con il titolo Riconosciuti da Dio. Il contributo della fede alla formazione della personalità, per la collana Giornale di teologia, l’editrice Queriniana permette al lettore italiano l’accesso a un terzo volume del teologo tedesco Christoph Böttigheimer, docente di teologia fondamentale all’Università cattolica di Eichstätt-Ingolstadt. Dopo le prime due opere tradotte – Comprendere la fede. Una teologia dell’atto di fede (BTC 167) e Le difficoltà della fede. Riflessioni teologiche su problematiche questioni di fede ed esperienze ecclesiali (Gdt 365) – che manifestano già il carattere interdisciplinare e ricco di riferimenti dell’autore – Böttigheimer incrocia in quest’opera (versione tedesca originale del 2018) due problematiche che solo a prima vista possono sembrare disparate: formazione della personalità e salvezza. Lo sviluppo offerto dall’autore ne mostra l’intima affinità teologica. L’opera consta di tre parti, ognuna delle quali si sviluppa in due capitoli.
La prima sezione (9-102), intitolata Formazione della personalità, parte da una larga panoramica sul patrimonio teologico e culturale riguardo all’essere umano come persona al fine di vagliare il contributo della fede cristiana al concetto di persona e alla formazione della personalità. Dal contesto trinitario della riflessione sulle persone divine, appare chiaro che il tratto distintivo della persona è la reciprocità delle relazioni. La persona (divina) per Agostino è relazione, è il quid relativum rispetto all’unità di natura condivisa tra le tre ipostasi trinitarie. Anche Tommaso d’Aquino collega il concetto sostanzialistico di persona – ereditato da Boezio – alla relazione, definendo la persona come relazione sussistente. Dal canto della filosofia, l’autore dialoga con vari pensatori come Kant, Hegel, Scheler, Heidegger, Lévinas e Bloch ed evidenzia come pure in campo filosofico non mancano voci che affermano che la persona, sebbene definita dall’autocoscienza e dall’esperienza di sé, non può essere pensata senza relazioni interpersonali. Da qui la conclusione: «Se l’uomo non può diventare persona senza il rapporto con altri, non può cioè formare la sua autocoscienza e costruire una riuscita relazione con se stesso, questo in definitiva significa che l’essere umano non può vivere senza riconoscimento costitutivo della sua esistenza» (37-38). La formazione o la deformazione della personalità passano per l’esperienza relazionale del riconoscimento.
Pur riconoscendo la distinzione tra il concetto filosofico di persona e quello psicologico di personalità, appare chiaro come un concetto relazionale di persona aiuti a dare un orizzonte per lo sviluppo della personalità. La categoria del riconoscimento, come anche la sua negazione, ossia il non riconoscimento e il disconoscimento reciproco costituiranno in questo senso un punto di riferimento importante per tutta la trama del volume. Attraverso le relazioni sociali e le interazioni tra le persone avviene la formazione della personalità. Le condizioni di una sana conoscenza di sé e di una fruttuosa formazione della personalità passano per l’esperienza dell’essere accettati e riconosciuti per quello che si è.
Alla luce delle acquisizioni appena accennate, l’autore offre, nella seconda sezione (103-187) intitolata Prospettive di salvezza, un’ermeneutica del messaggio di salvezza del cristianesimo in chiave di riconoscimento. La salvezza, argomenta l’autore, può essere intesa come riconoscimento incondizionato da parte di Dio e tale gesto aprioristico permette alla fede di giocare un ruolo liberante per una personalità realizzata. «La fede cristiana promette all’uomo un illimitato e incondizionato essere riconosciuto e un essere approvato da parte di Dio che precede di principio il divenire persona e ne è il fondamento» (106). Il concetto teologico di persona (e di dignità della persona) non è derivato da determinate peculiarità come la coscienza, la libertà, le capacità, il merito, ma dall’incondizionatezza dell’essere persona creata a immagine e somiglianza di Dio. Questa realtà di fede da sola costituisce un terreno fecondo per lo sviluppo personale. Si può dire, in altri termini, che fides autem facit personam (Martin Lutero). Nel messaggio cristiano, non sono il rapporto con se stessi, la coscienza o l’autocoscienza a costituire la persona, bensì il riconoscimento da parte di Dio. Dati questi presupposti teologici, non condivisi dal contesto culturale, non meraviglia allora che «nei discorsi etici, la posizione della chiesa è avvertita spesso come massimalistica e come rigida» (117). La visione cristiana, però, non si limita soltanto a indicare il dono incondizionato, ma evidenzia il percorso per non vanificare il dono. «La dignità dell’uomo rinnovata da Cristo trova la sua realizzazione concreta nella sequela di Cristo» (132), nell’abbandonare l’uomo vecchio e rivestire «l’uomo nuovo, creato a immagine di Dio nella giustizia e nella vera santità» (cf. Ef 4,22-24). Questo passaggio non è indifferente perché mostra come l’uomo è collaboratore di Dio nella formazione della propria personalità. L’esperienza della salvezza «è vincolata alla libertà della persona umana e si realizza nella formazione della propria personalità nelle relazioni con gli altri esseri umani. Là dove l’uomo, con libertà e in amore, si apre all’altro, si può verificare la salvezza» (158).
Alla luce di questa traduzione della salvezza in chiave di riconoscimento, di accettazione accolta che diventa occasione dell’accettazione di sé, l’autore tenta di vedere, nella terza sezione (189-260), se anche la prospettiva della redenzione possa essere declinata con la categoria del riconoscimento. In forza della libertà concessagli, l’essere umano ha la possibilità di rifiutare a Dio il riconoscimento e di tradire la sua somiglianza con Dio quale destinazione del suo peregrinare. Rifiutare l’essere riconosciuti da Dio è comprendere se stessi «non come immagine ma come prototipo» (195). Attraverso un’analisi vetero e neo-testamentaria della categoria di peccato l’autore cerca di mostrare che la categoria del riconoscimento non è estranea al concetto biblico di peccato il quale «è più di una mera opposizione alla norma. Rappresenta in definitiva il rifiuto del diritto di Dio, un no all’attenzione e al riconoscimento di Dio» (203). In altri termini, il discorso sul peccato (e sulla redenzione) nella prospettiva biblica si pone sempre in seconda battuta, dopo l’annuncio di salvezza. Anzi, c’è di più: «Solamente chi conosce l’amore sconfinato di Dio, la grazia della riconciliazione e della conversione, riesce a parlare senza pietà della propria colpa, a staccarsi da essa e condannarla» (215). Alla luce di queste acquisizioni, l’autore confronta criticamente le idee di sacrificio, espiazione e di sostituzione vicaria suggerendo altre piste ermeneutiche, ispirate alla Bibbia, che manifestano ad esempio che l’espiazione non designa il tentativo umano di agire su Dio, ma l’azione di perdono di Dio. L’autore arriva così a indicare Gesù come il pro-esistente disinteressato (l’espressione è di Heinz Schürmann), ovvero colui che riconosce gli altri in maniera incondizionata.
L’opera di Böttigheimer è ricca di spunti. Non le mancano nemmeno delle autocritiche ecclesiali coraggiose. È lodevole lo sforzo di coniugare i temi apparentemente astratti dei trattati teologici che interessano poco alla gente normale, alle tematiche che polarizzano l’interesse come la formazione della personalità. Se la prima e la seconda sezione del volume sono ricche di sviluppi e di approfondimenti, la terza parte ci è parsa scritta rapidamente. Essa resta un po’ vittima della brevità della trattazione. Ci sono intuizioni interessanti, ma redimere la pagina sacrificale e vicaria della teologia della redenzione necessita, a nostro avviso, più spazio, più tempo e maggiore riconoscimento delle difficoltà inerenti alla questione della redenzione.
R. Cheaib, in
Teresianum 73 (2022/1) 461-463