«Viviamo in un mondo di segni, ma la realtà che essi significano l’abbiamo perduta». Queste parole di Romano Guardini – il grande pensatore di origini italiane che in Germania è stato maestro di intere generazioni di giovani universitari tra il 1920 e il 1962 – evocano la bellezza dei segni della vita e della liturgia. Nel 1927 egli scrisse un libricino prezioso, intitolato I santi segni (in: Lo spirito della liturgia. I santi segni, prefazione di Giulio Bevilacqua, Morcelliana), un racconto intessuto con brevi pagine d’inarrivabile profondità.
Egli ha riattivato con intensità lo “spirito della liturgia” e attraverso una finissima pedagogia ha cercato di far comprendere i “segni elementari” del corpo, della creazione, della ritualità, del tempo e della liturgia. Questi segni sono da intendere «quali simboli santi, quali elementi dei sacramenti e sacramentali». Riconoscere la loro qualità di “santi segni” è «l’arte sublime […] di cogliere l’essenza delle cose e l’essenza della propria anima nella loro armonia voluta da Dio».
Per Guardini il “segno” è il nome della realtà che parla all’anima, la quale attraverso il corpo si lascia toccare dal mistero della vita. Nel giardino della creazione, l’uomo (Adam) pronuncia il nome di piante e animali e prende «possesso del mondo e di se stesso». Tale relazione però è stata lacerata dal peccato, e può essere restituita alla sua santità nel rito, che provoca la vita a tenere viva la linfa che viene dalle cose e alimenta l’anima. Il teologo di Monaco usa un bel paragone per farsi intendere: se la parola-moneta è come una macchina che distribuisce soldi senza conoscerne il valore, la parola-segno può ritrovare il suo originario candore, quando dischiude «l’esperienza in cui l’anima incontra l’essenza della cosa».
Praticare e raccontare
Riproporre l’attenzione al tema dopo quasi un secolo non può pretendere di imitare l’impresa di Guardini che ha ispirato molti altri tentativi. Il famoso teologo della liturgia ricorda come si dovrebbe trasmettere la sensibilità per i santi segni. Ci vorrebbe – egli afferma – una madre che «formata per conto proprio liturgicamente, insegnasse al suo bambino a far bene il segno della santa croce; a vedere nella candela che arde una persona che apre il suo intimo sentire; a stare nella casa del Padre con tutta la sua viva umanità…». È la pratica cristiana il grande fiume che trasmette di generazione in generazione la vita di fede, con i suoi segni sacri, che non sono donati solo per conoscere, ma anche per ben operare. Non basta spiegare i santi segni, ma il mezzo principale per trasmetterli è di insegnare a praticarli. Il verbo “insegnare” è sovente ridotto al suo aspetto conoscitivo, mentre è la pratica che “insegna” (segna-dentro) nel gesto del corpo, nel rapporto col mondo, nello scorrere del tempo, nelle forme dell’agire che consegnano il saper vivere e il sapore della vita. Lo ricorda fin dall’inizio la Sacra Scrittura, che invita a trasmettere la fede nel Dio unico e tutti i precetti della Torah, iscrivendoli nell’atto di fede con cui l’ebreo ancor oggi tre volte al giorno professa la sua fede. Egli prega così: «Ascolta, Israele: il Signore è il nostro Dio, unico è il Signore. Tu amerai il Signore, tuo Dio, con tutto il cuore, con tutta l’anima e con tutte le forze. Questi precetti che oggi ti do, ti stiano fissi nel cuore. Li ripeterai ai tuoi figli, ne parlerai quando ti troverai in casa tua, quando camminerai per via, quando ti coricherai e quando ti alzerai. Te li legherai alla mano come un segno, ti saranno come un pendaglio tra gli occhi e li scriverai sugli stipiti della tua casa e sulle tue porte» (Dt 6,4-9). La preghiera ha la forma di una confessione di fede che nasce dall’ascolto e di un racconto che invita a praticare e narrare “questi precetti”, perché si fissino nel cuore attraverso la trasmissione tra genitori e figli, la parola viva che riempie la casa, la consuetudine del cammino, l’alternanza di giorno e notte. La loro pratica è come un segno sicuro per la mano, è un pendaglio in mezzo agli occhi per non perdere la strada, è un segnacolo per chi entra ed esce dalla casa. “Praticare” e “raccontare” i precetti del Signore è il modo sicuro perché stiano fissi nel cuore. Non un insegnamento solamente mentale, ma un coinvolgimento pratico nella fede vissuta, perché praticata e narrata. Per la mentalità biblica viene prima l’agire buono, trasmesso di padre e madre in figlio, perché è capace di introdurre al mestiere di vivere. È un sapere pratico, portatore di un senso che s’iscrive nel corpo, passa attraverso il racconto nell’orecchio, illumina la mente e scalda il cuore.
Nella corrente di Scrittura e Tradizione
I precetti della Torah, infatti, riguardano il culto e la carità. Questi due grandi ambiti coprono tutta la vita del credente. La Parola del Signore è guida sui nostri passi e luce sul cammino (cfr Sal 119,105). I suoi precetti si trasmettono parlandone in casa, camminando per la strada, col favore del mattino e sul calar della sera. Bisogna portarli sulla mano come un segno, tenerli bene alla vista degli occhi, inscriverli sull’ingresso della porta. Sì, perché «la via che conduce alla vita liturgica non si dispiega attraverso la mera istruzione teorica, bensì è offerta innanzitutto dalla pratica». Con questa precisa indicazione è possibile rinnovare la pedagogia dei santi segni, non solo conoscendo, ma praticando e tornando sempre di nuovo a narrare. Mamme e papà, catechiste e catechisti, insegnanti ed educatori, sacerdoti e diaconi, possiamo ancor oggi ritrovare la magia dei santi segni.
La ripresa dell’affascinante percorso di Guardini deve beneficiare oggi del rinnovamento biblico e liturgico. La pedagogia dei santi segni può così nutrirsi alla fresca corrente della Sacra Scrittura e della tradizione liturgica della Chiesa. L’immersione nel mondo incantato della pagina biblica e nella ricchezza lussureggiante delle testimonianze della fede lascia col fiato sospeso. È bello dunque ricuperare tutta l’iconografia e l’arredo liturgico, la pittura e l’architettura che hanno prolungato per così dire la capacità di significazione del mondo e dei suoi simboli. Il mondo è una foresta di simboli. La ghirlanda dei “santi segni” non fa che coronare la funzione simbolica del mondo stesso. Il mondo come simbolo dischiude i simboli del mondo perché diventino una rete di segni per vivere.
Come organizzare una visita guidata al mondo dei “segni sacri”, quelli della devozione e della liturgia? Ho tentato di ordinare i “santi segni”, raggruppandoli secondo la loro tonalità principale, nel mio piccolo volume: Praticare e raccontare i Santi segni (Queriniana, Brescia 2020). Talvolta il significato di un segno non esclude che possa significare anche altre dimensioni dell’universo simbolico della preghiera, devozione o liturgia: ad esempio i segni creaturali (acqua, luce, olio, pane/vino) sono i significanti del mondo della grazia. Questo vale però anche per gli altri simboli.
Una visita guidata
Tento di proporre una mappa per la visita guidata al mondo dei segni. Il percorso si apre con il segno della croce e si chiude con la benedizione, che sono segni della totalità. Questi due segni fanno da cornice a cinque stanze in cui sono presenti i simboli connotati col loro tratto prevalente: segni corporei, creaturali, rituali, temporali e liturgici. Il percorso illumina la costellazione dei segni con la ricchezza della Bibbia e della pratica liturgica della Chiesa. Se Guardini vedeva nel “segno santo” il mediatore tra lo sguardo dell’anima e l’essenza delle cose per aprirlo al mistero di Dio, io sono convinto che il segno è lo splendore del mondo che tocca il nostro corpo perché possiamo accogliere con devozione il dono di Dio. Il mondo dei segni manifesta l’incanto della vita e fa nascere nel cuore dell’uomo la devozione. Se la liturgia avviene per ritus et preces, i “santi segni” ne sono il lussureggiante corredo. Nel mio volumetto invito a visitare solo le prime tre stanze, attraverso un’abbondante accesso alla fonte biblica e alle testimonianze tradizionali della Chiesa, senza disperdere il sapore indimenticabile del tentativo di Guardini.
Nella prima stanza (segni corporei) possiamo praticare i segni che s’iscrivono nella postura del corpo. Il corpo parla attraverso il suo linguaggio gestuale e verbale. Noi siamo esseri viventi che fanno segni e creano simboli, perché prima di tutto siamo esseri simbolici. Il nostro io interiore esce da sé e ritorna a sé avendo incontrato l’altro e il mondo mediante il corpo. Il primo gruppo di segni, dunque, s’incarna nella postura del corpo, affinché la persona mediante la gestualità delle membra si esprima come homo religiosus. La devozione e la fede si alimentano mediante lo stare in piedi, l’inginocchiarsi, battersi il petto, levare/allargare e imporre le mani.
Nella seconda stanza (segni creaturali) possiamo ammirare alcuni segni che assumono elementi della creazione e del lavoro dell’uomo perché diventino significanti del dono di grazia: in particolare l’acqua, l’olio, il pane e il vino. A essi si aggiunge la simbolica della luce e del fuoco, che ha una particolare presenza nella liturgia. I segni creaturali attuano in concreto il rapporto tra creazione e salvezza, tra profano e sacro, tra terra e cielo. Nella terza stanza (segni rituali) si tratta di simboli che provengono da elementi naturali o da creazioni umane in cui la Bibbia e la tradizione ecclesiale hanno riconosciuto un significato rituale: cero, cenere, incenso, vesti e campane. Forse sono meno commentati, ma meritano tutta la nostra attenzione. Questi simboli sono l’espansione della dimensione corporea e creaturale dell’uomo nello spazio del sentimento e della devozione quotidiana. È la fiducia nell’incanto delle cose, nella sintonia col proprio essere e nell’apertura al mistero trascendente.
La quarta e la quinta stanza sono ancora in allestimento. In esse potrà essere collocato a pieno titolo un quarto gruppo di segni (segni temporali) che riguardano i ritmi del tempo: le scansioni del giorno nella Liturgia delle ore, i tempi dell’Anno liturgico, le feste della Madonna e dei Santi. E, infine, il quinto gruppo di segni (segni liturgici) ha avuto un forte sviluppo nella storia dell’arte: portale, ambone, cattedra, altare, patena, calice. Essi hanno trovato un posto assai importante nell’azione rituale della Chiesa, perché sono manufatti artistico-liturgici che simbolizzano o sono in funzione di un momento della celebrazione.
La pratica e il racconto dei santi segni sono un’avventura affascinante che fa gustare il sapore della vita: ci vorrebbero un sacerdote, una mamma, una catechista, un maestro che aiutassero a percorrere questi sentieri, narrando e introducendo al mondo dei segni sacri per consegnare il fuoco dell’esistenza. È bello “praticare e raccontare i santi segni” e così poterli trasmettere ancor oggi di generazione in generazione.
F.G. Brambilla, in
Luoghi dell’Infinito 265 (2021) 37-41