Morte, giudizio finale, inferno, paradiso: parole che, a parte la prima che designa l'inaggirabile, sono non solo rimosse dalla riflessione pubblica, ma anche, in particolare le ultime tre, letteralmente scomparse dal vocabolario quotidiano. Segno della profondità della secolarizzazione? Eppure, queste quattro parole, chiamate nella tradizione cristiana i Novissimi o le Realtà ultime, sono state al centro nell'ultimo secolo di una profonda discussione da parte della teologia protestante e cattolica. Una storia di questo dibattito è ora offerta da Rosino Gibellini in un libro breve, perspicuo e intenso, pubblicato dalla Queriniana, Meditazione sulle realtà ultime.
Grazie alla sua competenza e curiosità intellettuale, Gibellini, da oltre mezzo secolo direttore della stessa casa editrice, ne ha letteralmente modellato il catalogo: basti ricordare le collane "Giornale di teologia" e "Biblioteca di teologia", punti di riferimento per gli studiosi a livello internazionale. Una competenza che l'ha portato a scrivere una storia della teologia del Novecento, tradotta in più lingue, diventata canonica.
L'ultimo libro si apre con due affermazioni tra loro opposte: da un lato, le parole di Teresa di Lisieux che, nel 1897, al termine della giovane vita scriveva: «lo non muoio, entro nella vita»; dall'altro, le parole del teologo liberale protestante Ernst Troeltsch, che nel 1901 affermava: «L'ufficio escatologico è quasi sempre chiuso».
Le pagine seguenti sono la ricostruzione della riapertura della questione escatologica, al fine di interpretare il senso delle parole di Teresa di Lisieux, che riecheggeranno anche negli ultimi istanti di Dietrich Bonhoeffer, prima di essere impiccato dai nazisti. Una ripresa dello sguardo sul senso ultimo della vita che inizia nella teologia protestante con Karl Barth, cui faranno seguito le riflessioni di Rudolf Bultmann e Oscar Cullmann: nella questione escatologica in gioco sono l'incarnazione storica di Gesù e la promessa biblica della risurrezione dei morti.
Una dottrina contrapposta a quella tradizionale, di origine platonica, dell'immortalità dell'anima. Una riapertura dell'ufficio escatologico che nel mondo cattolico è fatta da Karl Rahner, Jean Danielou e Hans Urs von Balthasar, per arrivare alla contrapposizione tra Gisbert Greshake, per il quale si deve parlare di risurrezione nella morte, e Joseph Ratzinger, secondo il quale è necessario restare fedeli alla dottrina dell'immortalità dell'anima, intesa come immortalità del dialogo con Dio.
Gibellini mostra come la riflessione sui Novissimi, in particolar modo con von Balthasar, sia nel Novecento un superamento del problema dell'inferno, a favore di una considerazione del Dio misericordioso che salva tutti. L'apocalisse, il giudizio finale, sarà un nuovo inizio: «Dio, e non il male, ha l'ultima parola». Una prospettiva dove, al di là delle differenze confessionali, la teologia concorda, al punto che il teologo protestante Jürgen Moltmann può dire: nella morte «noi siamo attesi da Dio». Come se, con il Novecento, la tensione tra il Dio misericordioso e il Dio terribile del giudizio finale si fosse stemperata a favore della prima immagine. In tal senso, i Novissimi sono ritornati d'attualità ma riformati: da quattro sono diventati due, il giudizio finale e l'inferno sono scomparsi dall'orizzonte. Forse perché la storia stessa s'è mostrata un inferno e Dio si salva solo se la promessa di riscatto è per tutti, al di là delle colpe dei singoli?
Ma che ne è della responsabilità individuale, se siamo da sempre salvati? Come ogni libro profondo, il libro di Gibellini apre interrogativi, tra i quali: possiamo fare a meno del Dies irae, di fronte allo scandalo del male che si perpetua? Nondimeno, come ricorda Gibellini, il Dio biblico è il «Dio che sarà tutto in tutti». Una antinomia inaggirabile.
I. Bertoletti, in
Humanitas 6/2019, 1159-1160