Disponibile
Libertà ovverosia il caso serio
Magnus Striet

Libertà ovverosia il caso serio

Lavorare per Abbattere i bastioni

Prezzo di copertina: Euro 20,00 Prezzo scontato: Euro 19,00
Scarica:
Collana: Giornale di teologia 423
ISBN: 978-88-399-3423-9
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 192
Titolo originale: Ernstfall Freiheit. Arbeiten an der Schleifung der Bastionen
© 2020

Descrizione

Da qualche tempo c’è inquietudine nella chiesa cattolica, un’inquietudine che si riflette anche nel campo della teologia. E il motivo è questo: non è stata ancora risolta la questione di cosa significhi il concetto di libertà. Detto in termini più forti: la chiesa può impegnarsi con una Modernità imperniata sull’idea del diritto all’autodeterminazione individuale?
Il saggio di Magnus Striet, che reagisce con energia a uno scritto polemico di Karl-Heinz Menke (La verità rende liberi o la libertà rende veri?, Queriniana, Brescia 2020), risponde in maniera chiarissima: l’autonomia della libertà dev’essere riconosciuta teologicamente come principio. Sicché la chiesa cattolica, da parte sua, dovrebbe abbracciare finalmente la Modernità basata sulla libertà, per giungere a una nuova, necessaria e urgente comprensione di sé.
Non ne va quindi di una controversia qualsiasi: ci sono in gioco questioni cruciali che intrecciano libertà, verità e autorità.

Recensioni

La morale cristiana non sarebbe morale se non fosse liberamente agita dall'uomo e non sarebbe cristiana se non fosse veramente in rapporto con Cristo. Libertà umana e verità cristiana sono gli ingredienti imprescindibili che la teologia morale è chiamata a "cucinare", rendendo ragione del loro rapporto. La discussione sulla "ricetta" che meglio assolve a tale compito ha visto opporsi, già subito a seguito del concilio Vaticano II, i due fronti di chi, valorizzando la libertà umana, sottolinea l'autonomia della morale cristiana, e chi, richiamando alla verità cristiana, afferma la teonomia della morale cristiana. La discussione teologica ha indotto l'intervento magisteriale dell'enciclica Veritatis splendor, la quale, allo scopo di scongiurare il pericolo «di indebolire o addirittura di negare la dipendenza della libertà dalla verità», ha inteso riaffermare la «fondamentale dipendenza della libertà dalla verità» (n. 34). La recezione dell'enciclica ha tuttavia ulteriormente irrigidito i due fronti, di cui sono emblematica espressione i due testi, tradotti dal tedesco, e qui brevemente recensiti. Pur non essendo i due autori teologi morali, il loro dibattito attiene ai fondamenti stessi della morale cristiana.

Il primo testo di Karl-Heinz Menke, già docente di teologia dogmatica teologica all'Università di Bonn, oppone fin dal titolo la verità che rende liberi alla libertà che rende veri, perorando la prima posizione contro la seconda. Lo scritto espressamente polemico di Menke è antitetico alla tesi che Magnus Striet, docente di teologia fondamentale a Frlburgo, in collaborazione con Stephan Goertz, docente di teologia morale a Mainz, va promuovendo attraverso la collana di volumi Katholizismus im Umbruch, pubblicata presso l'editrice Herder. La loro tesi è che a seguito della modernità, affermatasi con Kant, la libertà deve essere riconosciuta nella sua autonomia. L’autonomia della libertà, per la quale essa determina da sé la verità, non negherebbe la teonomia della verità, poiché «se Dio esiste e se egli è come lo testimonia la Bibbia - deducono Goertz e Striet all'unisono - egli vuole ciò che comanda la ragione pratica che giudica in autonomia» (I,19). L’autonomia della libertà nemmeno scadrebbe nell'arbitrio individualista, poiché chi attribuisce dignità incondizionata alla propria libertà, deve riconoscerla alla libertà altrui.

La determinazione della verità da parte della libertà Implica che la libertà determini anche che cosa sia peccato e che cosa sia moralmente comandato. Il criterio dell'agire morale proposto da Striet prevede che «ciò che è amato e ciò che non interviene nel diritto alla libertà degli altri ed è necessariamente voluto nell'istanza della libertà formalmente incondizionata per il bene dell'altra persona, può essere vissuto» (II,81).

Opponendosi alla concezione autonoma della libertà, Menke argomenta che «la verità si identifica con una persona, cioè con la persona di Gesù Cristo» (I,94), il Lógos di Dio. Il lógos divino si comunica all'uomo attraverso la coscienza, la quale è duplicemente descrivibile, sulla scorta di J.H.Newman e dell'enciclica Veritatis splendor, come voce divina che comanda (sense of duty) e come giudizio della ragione pratica (moraI sense). L'obbedienza alla coscienza, in quanto voce di Dio, mette l'uomo in comunicazione con la verità cristiana. Il giudizio di coscienza, in quanto operato dalla ragione umana, dispone a operare secondo la verità cristiana. Alla fallibilità del giudizio di coscienza, dati i limiti creaturali e i difetti morali dell'uomo, rimedia la Chiesa, la quale, in quanto traditio apostolica e successio apostolica, è il sacramento fondamentale della verità che è Gesù Cristo. La conoscenza della verità percepita nella soggettività della coscienza e testimoniata dall'oggettività della Chiesa è la medesima, poiché medesimo è il Dio all'origine della coscienza personale e della comunità ecclesiale.

L'argomentazione di Menke contempla anche una rivisitazione della Riforma di Lutero, allo scopo di contestare coloro che rinvengono in essa il capovolgimento del primato della verità sulla libertà e la assumono per accreditare l'autonomia della libertà. Producendosi in una recensione storica dell'interpretazione della concezione della libertà in Lutero, Menke conclude affermando che «quando il Riformatore spiega il rapporto dell'uomo con Dio, non parla di autonomia ma, al contrario, di obbedienza della fede. [...] L’intuizione originaria della Riforma non ha nulla in comune con ciò che Striet e Goerzt esigono per l'entrata del cristianesimo nella modernità» (I,183).

Lo scritto polemico di Menke ha presto suscitato la replica di Striet, che con altrettanta vis polemica ha inteso ribadire l'autonomia della libertà come irrinunciabile principio di una teologia al passo della modernità. La ragione moderna rinuncia alla pretesa di conoscere con certezza la verità divina, dalla quale poi dedurre la legge della libertà. Il concetto di ragione di cui dispone l'uomo moderno corrisponde al «concetto di una libertà finita che conosce la propria limitatezza e il proprio legame storico» (II,32). Con tale ragione l'uomo può approdare solamente al «Dio che è possibile pensare» e non, come sostiene Menke, giungere al «Dio reale» (II, 16) sino ad assumere la «prospettiva divina» (II,33) sulla libertà dell'uomo.

Per abbattere la posizione di chi, come Menke, ritiene di poter comprendere la libertà a partire dalla verità, Striet argomenta contro la concezione della coscienza «come splendor veritatis o come una "antenna" della percezione della voce dì Dio» (I,41) e contro la concezione della Chiesa che rimedia alla fragilità creaturale e morale dell'uomo nella conoscenza della verità pratica. Contro la concezione della libertà che, nell'intimità della coscienza, percepirebbe la voce divina e quindi la sua dipendenza dalla verità cristiana, Striet sostiene la necessità che, per quanto sfuggente alla ragione, «la libertà finita deve avere una causa auto-originale, [...] così da poterle attribuire veramente la possibilità dell'auto-determinabilità attraverso se stessa» (ll,83·84).

Rispetto alla chiesa, Striet non ne contesta la concezione sacramentale e apostolica, ma osserva che vi è «molto spazio per comprendere cosa significa essere apostolico e che cosa questo richiede di strutture per arrivare a decisioni responsabili» (II,111). A riguardo poi della necessità della chiesa per evitare che la libertà scivoli nel male, si osserva che tra i bastioni eretti dalla chiesa contro la modernità, il principale da abbattere «è il sospetto, profondamente radicato nella chiesa, che la libertà umana finisca necessariamente nell'arbitrio sfrenato se non si sottomette all'istanza di un magistero, se non è posta sotto la certezza di Dio» (II,40).

È senz'altro vero che la libertà può essere abusata, ma quale alternativa vi sarebbe? Quella di eliminarla? La necessità della chiesa per trattenere l'uomo dal male presuppone che il male presente nel mondo sia tutto riconducibile alla libertà degli uomini. In realtà, la presenza del male nel mondo, pur a fronte dell'amore incondizionato di Dio, rivelato da Gesù sulla croce, lascia in una «cruda incomprensione» (II, 105). Il problema della teodicea non è risolvibile dall'uomo e la sua soluzione può soltanto essere rimessa a Dio.

La replica di Striet riguarda anche l'interpretazione della Riforma proposta da Menke, il quale esclude che Lutero sia il promotore della libertà autonoma in epoca moderna. Striet concorda con Menke nell'escluderlo, ma sul presupposto che Lutero non è per niente moderno, restando ingessato nella teologia tradizionale. «Lutero non ha niente a che vedere con il pensiero nuovo della libertà, il suo padre della Chiesa è Agostino» (ll,125). Egli mutua da Agostino il pessimismo antropologico legato al peccato originale, che compromette irrimediabilmente la libertà dell'uomo, il quale può essere giustificato per sola gratia. In questa ottica, «Lutero non rappresenta un'anticipazione di Kant, ma la reincarnazione di Agostino» (ll,140).

La polemica attestata dai due contigui volumi della collana Giornale di teologia contrappone la teonomia della verità, sostenuta da Menke, all'autonomia della libertà, rivendicata da Striet. l due volumi, scritti entrambi come antitesi alla tesi altrui, si concentrano su una delle due variabili in gioco - la verità o la libertà - perorandone il primato ed evidenziando i limiti dell'altra variabile.

Una disposizione meno polemica e più dialogica esigerebbe che entrambi gli attori meglio illustrino come pongano in relazione le due variabili, evitando di finire nella pura autonomia della libertà, che non riconosce alcuna teonomia della verità, o nella mera teonomia, che non riconosce alcuna autonomia alla libertà.

Da questo punto di vista la riflessione di Menke, come egli esplicitamente dichiara nelle battute finali del suo testo, dovrebbe inoltrarsi nella teologia di H.U. von Balthasar, e la riflessione di Striet sembrerebbe dover considerare non solo Kant, ma quanto meno anche la sua assunzione critica in teologia, come, emblematicamente, in K. Rahner.

Il compito di rendere ragione della interazione di verità e libertà ha conosciuto peraltro significativi sviluppi nell'ambito specifico della teologia morale a seguito del concilio Vaticano II, giungendo a prospettare, per esempio, un'«autonomia teonoma» (F. Böckle) o una «morale autonoma in contesto cristiano» (A. Auer), e poi ulteriormente a pensare la relazione di verità e libertà in chiave trascendentale-ermeneutica (K. Demmer) o fenomenologica (G. Angelini). A fronte di questi sviluppi, la polemica tra Menke e Striet (Goerzt), sembra comprovare che «il pomo della discordia è sempre l'autonomia» (II,90). L’intelligenza critica del rapporto tra la libertà umana e la verità cristiana, da sempre sottesa alla riflessione teologico-morale, rappresenta la questione fondamentale dell’odierna teologia morale.


A. Fumagalli, in Teologia 3/2021, 491-493

Diciamolo subito: abbiamo tra le mani due testi di non facile lettura. Un po' per i contenuti (libertà e verità oggi come vengono coniugate in ambito religioso e, specificamente, cattolico? come si pongono? di cosa si parla?), e un po' per la natura «polemica» di entrambi gli scritti: al "nervosismo" del primo testo (Menke ritiene grave che Striet e Goertz abbiano aperto un forum di discussione [nello specifico la collana di testi «Katholizismus im Umbruch» della Herder] che tale non è dal momento che ospita scritti di un unico tenore: dispute su questioni che "discutono" la dottrina cattolica) risponde diretto e deciso il libro di Striet (Menke con le sue riflessioni non offre una soluzione alla crisi della chiesa cattolica, non intende rispondere con responsabilità all'inevitabilità degli affondi della modernità [concetto estremamente complesso, diversamente interpretato e interpretabile, decisamente plurale e conforme alla libertà], per lui sono "decadimenti" che vanno sanati in radice invece di prestarvi attenzione come chance nell'ambito di una teologia della libertà).

Come scrive chiaramente Striet: «Sullo sfondo del dibattito a cui reagisce Menke, divampa la domanda: come ti poni con la modernità?» (pp. 12-13) nella consapevolezza che «non si deve necessariamente accettare la modernità, ma con essa ci si deve confrontare» (p. 174), accoglierne le sfide anche se «può essere sperimentata come faticosa, perché esiste in un continuo processo di negoziazione» (p. 14). Menke, peraltro, non è per nulla convinto che «l'attuale crisi della tradizione della chiesa» sia una «crisi della modernità [...]. La verità è che la fede cessa di formare la vita» (p. 102s). E denuncia che le attuali annose questiones disputatae (adattamento o liberalizzazioni) non vanno intese come dei meri «cambiamenti» di prospettive ecclesiologiche o morali, oppure delle diverse ermeneutiche di testi conciliari, «si tratta piuttosto di dare una risposta alla questione fondamentale se la libertà rende veri o se la verità ci fa liberi» (pp. 6-7).

Si potrebbe, invero, continuare a lungo nell'elencare le diverse prospettive e le argomentazioni di sostegno dei due autori. Infatti, la lettura dei due testi che si faccia di seguito o in sinossi, risulta lineare, coerente in sé, dialettica certo ma sensata, logica e rigorosa nei diversi passaggi. Entrambi cattolici e rinomati teologi tedeschi, Karl-Heinz Menke (1950, docente di dogmatica a Bonn e membro della CTI) e Magnus Striet (1964, docente di teologia e antropologia a Friburgo im Br.) si assumono la fatica e il rischio di una discussione teologica, anzi di una disputa, inusuale e per certi aspetti singolare per l'argomento dibattuto.

Non che manchino oggi divergenze anche forti nelle ricerche più o meno accademiche dei teologi, ma ciò che manca almeno nel contesto europeo è proprio la discussione aperta e vigorosa (a parte le tifoserie che riempiono di sentenze mal scopiazzate la rete, polarizzandosi nei vari matches tra «tradizionalisti» e «progressisiti»). Forse non se ne avverte interesse per la sovrastante autoreferenzialità di molti teologi o del loro comfort nelle accademie (cf. papa Francesco alla PFTM a Napoli nel 2019), o forse questo ha a che fare con l'evidente perdita di rilevanza della teologia nella prassi e nella cultura del nostro tempo? Qualche dibattito si segnala tra prospettive teologiche intercontinentali, peraltro più ovvio che intenzionale.

La singolarità di questo dibattito, poi, sta nel fatto che l'argomento non è una qualche presa di posizione su questioni morali, pastorali o magisteriali, ma interessa i fondamentali, in questo caso: l'essenza della libertà, la limitatezza della ragione umana e quindi la verità nel suo rapporto con la libertà. Sono temi che non si possono ridurre, nemmeno per necessità divulgativa, a schematismi sintetici tipo: viene prima la verità e dopo la liberta; se la libertà si desse la verità questa non sarebbe vera; la natura viene prima della libertà... e via dicendo. Le scorciatoie in genere causano «tragedie». Occorre imparare a farsi le domande giuste perché non ci può essere verità senza libertà e non si può mai essere (o diventare) interlocutori della verità (di Dio) senza praticare libertà. E non si dà mai una qualche libertà senza autonomia, il che non vuol dire pura anarchia e nemmeno pura autarchia, ma autonomia relazionale realizzata nella forma della responsabilità tanto in orizzontale quanto in verticale.

Non possiamo entrare qui nel cuore del dibattito. A ben vedere, da ultimo, tra Striet e Menke il dialogo non si sblocca. Sullo sfondo rimane l'eco del confronto irrisolto plurisecolare del cristianesimo con la modernità (che la chiesa continua a intendere come istanza di autonoma absoluta determinazione individuale e collettiva).


D. Passarin, in CredereOggi 1/2021, 174-177

Il saggio rappresenta la replica del teologo Magnus Striet, laico, noto docente di teologia fondamentale e antropologia filosofica all’università di Friburgo in Brisgovia, allo scritto polemico (Streitschrift) del collega Karl-Heinz Menke. Prendendo in esame gli scritti di Striet, in particolare le tesi proposte nella collana « Cattolicesimo in transizione » (Katholizismus im Umbruch), curato da Striet e Stephan Goertz, Menke propone – provocatoriamente – un interrogativo secco tra verità e libertà (La verità rende liberi o la libertà rende veri? Uno scritto polemico, Queriniana, Brescia 2020: cf. la recensione qui sopra). La risposta di Striet, scritta « dopo una certa esitazione e in pochissimo tempo » (p. 27) si struttura in appena due capitoli, preceduti da una lunga Introduzione e seguiti da un breve Epilogo. I due capitoli ruotano sostanzialmente attorno all’interpretazione di Kant (capitolo 1 Liberà controversa) e di Lutero (capitolo 2 Modernità normativa, Lutero e il cattolicesimo. Lo stato di diritto secolare). A giudizio di Striet, « i problemi sono piú complicati di quanto espresso dalla questione fondamentale posta da Menke » (p. 8), cioè che la libertà si fonda sulla rivelazione del Lógos. Per Striet questa posizione è fondamentalmente inaccettabile perché non tiene conto dei processi storici di interpretazione del cristianesimo avvenuti lungo la storia e del sistema attuale delle scienze. Il nodo del contendere è – ancora una volta – l’interpretazione della modernità, definita come « il processo del radicale diventar consapevoli della limitatezza della coscienza umana e del legame con la storia di ogni pensiero umano » (p. 14). In risposta a Menke, Striet ribadisce la sua opzione preferenziale per la filosofia trascendentale di Kant, da lui ritenuta come l’unica strada filosofica percorribile e legittima all’interno di una concezione della realtà non piú garantita in senso metafisico-religioso.

Conseguentemente, dal punto di vista metodologico, Striet avanza lungo tutto il saggio delle obiezioni cronostoriche alle argomentazioni di Menke, in nome di un concetto di ragione « che riconosce la propria limitatezza e il proprio legame storico » (p. 32). La libertà trascendentale è per Striet la condizione di possibilità per pensare un’effettiva e non fittizia autonomia delle libertà. Di fronte all’accusa di cadere con queste argomentazioni kantiane nel “modernismo”, Striet afferma: « non posso che dire: va bene, allora sono modernista. Ma con buone ragioni. E il pensiero della libertà da me sostenuto non approda a un relativismo etico, per il quale tutto è valido allo stesso modo » (p. 16). È proprio nel fatto di rifiutare le argomentazioni buone dell’Illuminismo che Striet vede la ragione ultima dell’attuale situazione della chiesa in Occidente, che egli non esita a definire disastrosa: « Il disastro della chiesa cattolica consiste nel fatto che, a causa delle esperienze delle differenziazioni confessionali e a causa di un gene antimoderno profondamente radicato nella gerarchia del magistero […] non si è appresa la necessità di un autorischiaramento permanente. E consiste nel fatto che – lo sottolineo nuovamente – dappertutto si sono coltivati sospetti di relativismo, perché la propria identità era diventata precaria. Perenne tentazione deterministico-naturalistica – anche in teologia » (p. 47). Circa l’interpretazione di Kant, Striet vede nei problemi irrisolvibili legati alla teodicea la cartina al tornasole della fallacia della posizione di Menke. Puntando sulla dottrina del peccato originale e sulla struttura sacramentale della chiesa, Menke non potrebbe affrontare il problema della disuguaglianza del male per gli esseri umani. Il Dio che realizza il suo essere con necessità non può essere compatibile con un Dio libero. Circa l’interpretazione di Lutero, Striet afferma la necessità di storicizzare Lutero, relativizzando le sue riflessioni teologiche circa l’impossibilità per l’uomo peccatore di essere libero. Storicizzare Lutero vuol dire, per Striet, riconoscere che la rilettura cronistorica che lo vede come il pensatore della libertà moderna è una caricatura inadeguata. E tuttavia non è ancora sufficiente convergere – anche con Menke – su questa conclusione per pensare la libertà umana come autonomia. Occorre pensare l’uomo come colui che sta dinanzi a Dio come uomo, quindi autonomamente, cioè solo « se Dio vincola se stesso a rispettare l’uomo nella sua dignità e gli riconosce il diritto a determinare se stesso nella sua libertà secondo ragioni sensibili alla libertà e a vincolarsi a esse » (p. 168). Seguono alcune pagine dedicate allo stato secolare, che riprendono il discorso di Benedetto XVI dinanzi al Bundestag tedesco del 24 settembre 2011.

Emblematica, ma non sorprendente per il lettore, la conclusione del saggio, nella quale, con atteggiamento ancora una volta provocatorio, Striet afferma che « mangiare dall’albero del modernismo non fa male » (p. 175) e ribadisce che l’autonomia della libertà umana va riconosciuta come principio teologico al pari degli altri. Mi pare degno di nota segnalare il fatto che l’editore italiano, nel presentare la versione italiana dei due testi, raccolti in sequenza di apparizione nella collana « Giornale di Teologia », ha posto a guisa di commento una frase squisita di Edith Stein: « Non accettate nulla come verità che sia privo di amore. E non accettate nulla come amore che sia privo di verità. L’uno senza l’altra diventa una menzogna distruttiva ». In effetti, leggendo i due testi si ha l’impressione che non solo non ci sia “amore” tra i due autori, ma che nemmeno si realizzi un vero e proprio “dialogo”. Entrambi i teologi continuano a difendere le proprie ragioni, talvolta persino arroccandosi strenuamente, in particolare nel caso di Striet. Certamente, come egli stesso afferma, « non si deve necessariamente accettare la modernità, ma con essa ci si deve confrontare » (p. 174). Il mancato confronto tra Menke e Striet mostra come sia ancora aperto, non solo per la teologia, ma anche per l’esperienza cristiana, il dossier “modernità”.


S. Didonè, in Studia Patavina 3/2020, 531-533