«Omne creatum est finitum» (STh III, 7, 11). È un dato di fatto, ma forse nell’espressione della finitezza c’è anche un giudizio di valore. È positiva o negativa questa finitezza? È un limite o una opportunità?
Il saggio di Jan-Olav Henriksen, Finitezza e antropologia teologica edito dalla Queriniana esplora questa dimensione imprescindibile del nostro essere da diversi punti di vista. L’A. considera la finitezza da diverse prospettive quali quella fenomenologica, biologica, filosofica, psicologico esistenziale e teologica. Egli non si limita a mettere uno accanto all’altro questi contributi ma tenta di legarli insieme in un contesto interpretativo che offra una visione complementare e integrale.
Come anticipato, anche l’A. parte da questa constatazione: «Come umani siamo dipendenti, limitati, situati, vulnerabili e la comprensione che abbiamo di noi stessi e del mondo presenta continuamente limiti e restrizioni. Questi aspetti fanno parte di quella che chiamiamo finitezza. L’argomento di questo libro è come le diverse dimensioni della finitezza, e le sue ambiguità, possano essere comprese nel contesto dell’antropologia teologica cristiana» (15) e mostra che «affermare la finitezza dell’esistenza umana è un modo per intensificare le esperienze cha la vita ci presenta» (17).
La finitezza è condizione per l’esperienza e l’impegno di analisi interdisciplinare portato avanti dall’A. manifesta la sua importanza e centralità in vari ambiti del sapere e del vivere. La finitezza si presenta come condizione esistenziale che plasma la vita umana sotto ogni aspetto.
Affermare e confessare la nostra finitezza ci fa diventare spazio per l’altro, rende possibile l’ospitalità nella nostra vita. E per quanto riguarda la relazione con Dio una distinzione è fondamentale: mentre il peccato «plasma la struttura vitale che mette gli uomini in opposizione a Dio», «la nostra finitezza ci differenzia da Dio senza separarci da lui» (27). Anzi, il peccato in qualche modo è non riconoscere e non benedire il limite. Il peccato è il paradosso in cui gli umani vogliono essere infinitamente finiti. «Il peccato implica sempre una forma di vita in cui gli esseri umani non vogliono riconoscere la loro finitezza e la loro differenza da Dio (l’Infinito)» (28).
Dal punto di vista fenomenologico, noi ci relazioniamo a noi stessi e al mondo precisamente perché abbiamo e siamo un corpo. «Il corpo è la nostra condizione di base per avere un mondo e per partecipare al mondo» (39). Il corpo non è un oggetto, ma uno spazio relazionale. È – nella terminologia di Maurice Merleau-Ponty – le corps propre, il corpo che ho, il corpo che sono e il corpo che vivo. Sperimento il mio corpo ed esso è la condizione della mia esperienza. È una parte vitale che forma la finitezza del mio essere e il trampolino da cui mi lancio per tuffarmi nell’universo infinito.
«Il corpo è una parte vitale di ciò che forma il carattere finito di un essere umano. Pertanto il desiderio di superare la finitezza, o di farla scomparire, non soltanto sembra essere vano, ma è anche un desiderio che, se soddisfatto, renderebbe l’esperienza umana in generale impossibile (almeno nelle forme che conosciamo)» (49).
Anche gli altri aspetti come il linguaggio e l’apparire dell’altro esprimono la natura prospettica della finitezza. L’A. riprende Levinas e mostra come «l’Altro viene prima dell’Io – ed è l’altro che mi costituisce come persona, come soggetto» (83). Inoltre, come sottolinea lo stesso Levinas, l’altro è via verso l’Altro: «Non può esserci alcuna “conoscenza” di Dio a prescindere dalla relazione con gli uomini».
Tra i diversi aspetti puntualizzati dall’A., quello sul «Trascendere e affermare la finitezza nel desiderio» è di gran lunga quello che più affascinante. Come intendere il desiderio? Come qualcosa che apre o che chiude in relazione alla finitezza?
Maurice Merleau-Ponty nella Fenomenologia della percezione spiega che «il desiderio è un modo di rapportarsi al mondo che esprime un’intenzionalità che condiziona l’esistenza umana e la volontà e pretende di essere articolato. Il desiderio è un elemento che copre interamente lo sguardo incarnato che ho verso il mondo e me stesso, è un momento del mio essere-nel-mondo».
Il desiderio non è primariamente un elemento della mia coscienza. È l’altro a muovere il mio desiderio. Se è vero dire “io desidero” è altrettanto vero dire: “il desiderio accade in me”. «Il desiderio non ha la sua origine in me, né nell’Altro in quanto tale, ma nella relazione» (106). Il desiderio mi dirige verso l’altro, mi mostra la mia insufficienza. Con il desiderio l’altro diventa familiare, diventa costitutivo della mia propria azione. Il desiderio mi ridefinisce riorientandomi verso l’alterità.
I miei bisogni vengono da me, il desiderio, invece, mi porta all’altro, ma è sempre mio, esso «esiste sempre in una struttura dialettica, nel movimento o nell’oscillazione, tra la mia relazione all’Altro e la mia relazione con me stesso» (106). Il desiderio implica un movimento dal soggettivo all’intersoggettivo, dall’individuo alla comunione e alla comunicazione.
R. Cheaib, in
www.theologhia.com 7/2016