Andrea Grillo, laico e padre di famiglia, laureato in Giurisprudenza e in Filosofia, insegna Teologia sacramentaria presso il Pontificio Ateneo Sant’Anselmo di Roma; con l’editrice Queriniana ha appena pubblicato il volume «Iniziati alla Pasqua. Meditazioni per la Quaresima» (pp. 96, euro 8,50).
A Grillo abbiamo posto alcune domande, partendo da una constatazione forse non irrilevante da un punto di vista pastorale: nel linguaggio corrente, il termine «quaresima» evoca spesso l’idea di un periodo cupo, di una lunga serie di rinunce forzate.
«Il linguaggio ordinario – è la risposta - segnala un problema: la quaresima perde la sua qualità di “cammino verso la Pasqua” e diventa sinonimo di tristezza e privazione. In realtà i temi tipici della quaresima – ossia la penitenza, la preghiera, il digiuno e l’elemosina – interpellano la nostra vita in modo radicale e segnalano un’esigenza di cambiamento e di autenticità. Recuperando la sua qualità di “tempo della prova” – tempo lungo, che sembra non finire mai, come sterminato è il deserto in cui Gesù rimase per 40 giorni vincendo le tentazioni –, la quaresima dovrebbe rimandare alla Pasqua come momento di riconciliazione, pace, lode, benedizione, rendimento di grazie». La costituzione del Vaticano II sulla liturgia «Sacrosantum Concilium» esorta, quando lo richiedano «le circostanze e le necessità del nostro tempo», a rivedere i riti «nello spirito della sana tradizione».
Come si dovrebbe procedere, oggi, per quanto riguarda le celebrazioni quaresimali?
«Io credo che qui la Chiesa si sia mossa bene, riattualizzando in primo luogo la grande tradizione della “parola di Dio”: la quaresima è anzitutto un ciclo di domeniche davvero indimenticabili, soprattutto in questo “anno liturgico A”, che prevede una serie di celebrazioni pensate da molti secoli come “cammino verso il battesimo e la Pasqua”. Vi è però un altro punto, a cui invece bisognerebbe prestare maggiore attenzione in ambito ecclesiale: occorre confrontarsi apertamente con l’esperienza di vita degli uomini e delle donne di oggi, nella quale parla lo Spirito, proprio come nella Scrittura. Ancora il Concilio Vaticano II, nella “Gaudium et spes”, menziona appunto “la luce del Vangelo e dell’esperienza umana” come criteri a cui la Chiesa deve riferirsi per essere fedele alla sua missione».
Nel suo libro «Iniziati alla Pasqua» abbiamo trovato un passaggio molto bello: lei scrive che nel «deserto» del tempo quaresimale noi ci troviamo di fronte, per prima cosa, alla «bestia selvatica che ognuno è per se stesso».
«Il deserto è sempre il punto di partenza della quaresima: ogni anno si ricomincia dal deserto e dalla cenere. Questo è un modomolto lucido di assumere la propria fragilità, ma anche di mettersi in cammino, per un periodo in cui ci è data la possibilità di scoprire il dono della comunione con Dio in Cristo. La nostra umanità è custodita dalla comunione con il prossimo e con Dio. Tuttavia, il percorso quaresimale non deve essere concepito in chiave moralistica: nelle letture domenicali di quest’anno i “modelli” da seguire per incontrare e riconoscere Gesù sono una donna che ha avuto cinque mariti (la Samaritana), un portatore di handicap (il cieco nato) e un morto (Lazzaro di Betania). Questo dovrebbe indurci a pensare. Se non facciamo l’esperienza di essere “come costoro”, non possiamo riconoscere Gesù in quanto salvatore».
Ma riguardo al «fare penitenza», come atteggiamento tipico del tempo quaresimale?
«“Fare penitenza” è un’espressione che oggi facciamo fatica a comprendere. Di solito la colleghiamo a delle “pratiche speciali”, mentre essa attiene alle condotte della vita quotidiana, che durante la quaresima possiamo riconsiderare in profondità. Si tratta di recuperare la “complessità vitale” della penitenza, che rimanda alla necessità di cambiare. Così intesa, la penitenza esce dalla sacrestia della devozione privata ed entra nel mare dell’esistenza: penitenza è prendere onestamente atto degli elementi di passività (la “malasorte”) nella nostra vita, ma significa anche riconoscere l’ambivalenza di molte nostre azioni; significa, ancora, esercitarsi nella pratica della virtù, soprattutto come attitudine a chiedere perdono e a perdonare; la “penitenza”, infine, è sacramento, possibilità di un nuovo inizio che la misericordia di Dio offre sempre al peccatore pentito. Una Chiesa che accanto al momento sacramentale riscopre i precedenti tre è una Chiesa che davvero si lascia toccare dal “genio” della quaresima e della Pasqua».
G. Brotti, in
L’Eco di Bergamo 5 marzo 2017