M. Seewald (n. 1987), presbitero della diocesi di Stoccarda-Rottenburg, è docente di dogmatica e storia dei dogmi a Monaco e a Boston; in questo testo egli ha curato una serie di dodici brevi interventi frutto di «relazioni e discussioni che si sono svolte il 20 e 21 gennaio 2018 in un piccolo convento presso la Thomas More Akademie di Bensberg» (p. 275). Già nell'introduzione (Teologia e chiesa alla prova del relativismo) appare con chiarezza la posta in gioco: la provocazione del relativismo tocca l'annuncio cristiano in quanto «la professione della fede oscilla tra metafisica e storia, tra universale pretesa di validità e particolare contesto di conoscenza» (p. 7).
Quell'evento, infatti, è storicamente determinato e, in quanto tale, ha una pretesa di universalità non per appartenere all'area del sapere, bensì a quella della fede. Per tale motivo, ponendoci nell'ambito del sapere, la verità cristiana dovrà essere soggetta al destino di ogni sapere, quello di aprirsi a delle possibili varietà interpretative, e «queste varietà sarebbero ciò che si dice relativismo» (p. 9). Seewald sembra qui contestare alla chiesa «la mancanza di una cultura capace di affrontare la propria fallibilità» (p. 23) accettando che, come ogni sapere, anche la dottrina della fede possa essere approfondita e possano crescere gli argomenti della sua persuasività.
È questa la provocazione che ha aperto il dibattito in esame. La chiesa faticherebbe a riflettere sul relativismo in quanto dimenticare la dimensione della verità, ad esempio un diritto naturale o un bene universale, ridurrebbe tutto a prassi e a scelte democratiche della maggioranza, rifiutando una verità che precede e illumina.
I contributi del simposio si collocano nell'ambito delle prospettive filosofiche e dell'analisi del magistero della chiesa; trattano della triade infallibilità/fatti/interpretazioni, del rapporto verità/tempo/storia, delle sfide etiche e del dialogo. L'interesse per queste tematiche appare da subito evidente. Dai sofìsti in poi il relativismo, pur nei vari modi in cui esso si è presentato nei secoli, è stato sempre un problema per una filosofia forte, metafisicamente caratterizzata. In tale posizione, infatti, la nostra coscienza non coglie mai la realtà in sé poiché «non esiste una realtà indipendente dalla coscienza» (p. 35). Il riferimento al filosofo R.H. Lotze, del primo contributo, apre invece alla possibilità di giungere alla verità delle cose del mondo. La difesa della rivendicazione di contenere una verità oggettiva, propria della fede cristiana, acquista validità in primo luogo verificando l'aspetto logico-formale delle proposizioni che costituiscono il depositum fidei. Esse effettivamente rispondono alle condizioni logiche di proposizionabilità, di sistematizzabilità, del possibile valore di verità, di giustifìcabilità.
Una fede cristiana che non rivendichi lo statuto veritativo, si sottolinea, non è del resto possibile: «la rivendicazione della verità della fede cristiana non può essere abbandonata senza smantellare la fede cristiana» (p. 61). Tale rivendicazione configura il ruolo della teologia che elaborerà una metafisica e una teologia filosofica adeguate mettendo altresì in risalto il fatto che la verità cristiana non contraddice le verità elaborate dalle altre discipline umane e scientifiche con le quali dialoga e si confronta. Su tale punto alcuni interventi richiamano la compattezza del magistero mettendo in risalto gli interventi di papa Giovanni Paolo II e, soprattutto, di Benedetto XVI con la sua ben nota critica alla «dittatura del relativismo».
L'indirizzo del dibattito si sposta, a questo punto, sullo statuto di verità proprio della teologia. Gesù infatti afferma di essere venuto per dare testimonianza alla verità (Gv 18,37). Il cuore della questione ha a che fare con la dimensione salvifico-esistenziale della Parola e dell'evento cristiano che l'accompagna, evento capace di dare un fondamento di senso all'esistenza e di superare tutti i deficit delle presunte affermazioni veritative della ragione. Perciò, si propone, il messaggio di Gesù «può essere rivendicato come lo status di una verità esistenziale» (p. 127). Ne consegue che l'ermeneutica teologica non si frammenterà nìccianamente in continue interpretazioni, magari in conflitto, se sarà capace di mantenersi fedele a tale riferimento solido individuato. Nel dibattito attuale, però, segnato com'è dal postmoderno con tutte le sue debolezze, ogni affermazione veritativa mantiene i tratti di una provocazione e perfino di una violenza.
Vi è tuttavia una forma di relatività, si sottolinea nei contributi, che non ha i tratti propri del relativismo militante e che non si oppone alla verità della fede cristiana, ma si sforza di dirne la ricchezza mai esaurita attraverso una lettura sempre nuova del vangelo e una riflessione teologica attenta ai segni del tempo, avendo ben chiaro che se Dio è entrato nella storia, allora egli è un Dio nel tempo, un Dio che viene, crea, redime, punisce, non un Dio statico, eterno, immutabile, ecc.
Utile, in tal senso, il richiamo alla filosofia di Bernhard Welte per il quale «l'ente è saldamente e inviolabilmente connesso all'essere anche nel più grande cambiamento [...], l'assolutezza della verità si manifesta nella storia come un "cristallo indistruttibile"» (p. 183) e vi è un momento sovrastorico e assoluto proprio della verità storica. Le singolarità sono così abolite come assolute e tuttavia restano conservate in una continuità storica che le preserva.
Il dibattito si sposta poi sui temi concreti del bene, della giustizia, del diritto e della pena, sulla questione delicata della libertà. Si offre alla discussione la riserva per un realismo morale che diventa poi diritto naturale e raccolta di leggi universali per cui «se non ci sono fatti morali oggettivi, i giudizi morali possono essere validi solo in relazione a un particolare sistema morale» (p. 215).
Tuttavia da ciò non si dovrebbe necessariamente ricavare un pericoloso relativismo etico perché si possono identificare delle costanti presenti in tutti i sistemi morali. Vi sono dunque norme di validità universale accanto a una ontologia della libertà quale principio strutturale di ogni sistema morale; essa, in buona sostanza, riconosce la libertà dell'altro e la rispetta attraverso norme codificate universali.
L'ultimo ambito oggetto di discussione riguarda l'ecumenismo e il dialogo interreligioso. Qui l'uscita dalla dicotomia assolutismo/relativismo è data, in campo ecumenico, dall'intuizione della gerarchia delle verità sostenuta dal Vaticano II e, nel dialogo tra le religioni, dalla considerazione inclusivista per la quale la verità di Cristo unico salvatore non esclude, ma include, mediazioni relative. Anche se proprio Seewald, che firma l'intervento sul tema, sembra invitare ad andare oltre l'inclusivismo in nome di una necessaria parità delle posizioni tutte capaci di consentire la partecipazione alla vita divina.
Il testo è semplice e anche coraggioso, mette bene a tema le questioni senza conclusioni definitive. Esso sembra tentare di evitare la demonizzazione del relativismo, interpretando in questo modo la posizione di papa Benedetto, per cercare di comprendere la possibile ricchezza di tale posizione. Il punto è che il termine relativismo può essere inteso in vari modi: cognitivo, morale, culturale, ontologico, e avendo diversi significati reclama una considerazione differenziata.
Per questo il dibattito è solo iniziato. Emerge però tra le righe un tentativo di soluzione almeno per quanto riguarda le affermazioni del cristianesimo e quelle della morale, da trovarsi combinando la possibilità di una ermeneutica dinamica e attenta ai segni del tempo e una gnoseologia solida non in balia del divenire.
A. Sartori, in
Studia Patavina 1/2025, 157-159