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Riforma
Michael Seewald

Riforma

Quando la Chiesa si pensa altrimenti

Prezzo di copertina: Euro 24,00 Prezzo scontato: Euro 22,80
Collana: Giornale di teologia 444
ISBN: 978-88-399-3444-4
Formato: 12,3 x 19,3 cm
Pagine: 224
Titolo originale: Reform – Dieselbe Kirche anders denken
© 2022

In breve

Un testo per ripensare il modo in cui la chiesa si comprende (e si è compresa in passato) e il modo in cui può cambiare (ed è cambiata in passato).

Descrizione

Qual è lo spazio di manovra per avviare delle riforme dentro la Chiesa? Come concepire il gioco fra identità e cambiamento? Che cosa è, eventualmente, immodificabile e chi lo decide?
In tanti e tante oggi fanno pressione sulla Chiesa cattolica perché qualche cambiamento abbia luogo. La lista dei temi sul tavolo è lunga: corresponsabilità dei laici, ruolo delle donne, ripensamento del ministero ordinato, riconoscimento delle coppie dello stesso sesso... In genere, però, il dibattito sulle riforme si muove entro una cornice dogmatica (e giuridica) assai angusta: si sostiene che non vi siano alternative percorribili.
Michael Seewald spiega con lucidità e schiettezza che la Chiesa potrebbe mostrarsi, invece, molto più aperta al cambiamento di quanto non faccia ultimamente. Egli dimostra come alla Chiesa sia possibile riformarsi in profondità e, al medesimo tempo, restare se stessa. Perché l’attuale forma di “Chiesa cattolica”, anche a uno sguardo storico, rappresenta solo una delle molte possibilità praticabili dal punto di vista teologico.

Recensioni

Il saggio di Michael Seewald, giovane teologo tedesco professore di dogmatica alla Westfalischen Wilhelms-Universität di Münster, già autore di numerose opere su diversi argomenti tra cui quello sullo sviluppo dei dogmi (si veda: Il dogma in divenire. Equilibrio dinamico di continuità e discontinuità, Queriniana 2020) riprende una questione nodale riguardante la possibilità di uno «spazio di manovra in cui si possono muovere le riforme nella chiesa cattolica» (p. 9). Questa è la tesi del libro.

Dopo alcune considerazioni previe sulla nozione di riforma, Seewald colloca la questione entro quella «cornice dogmatica stabilita dal magistero che delinea i propri contorni cattolici senza prospettare alternative e che tuttavia rappresenta soltanto una tra le forme che si può dare la fede cattolica; è una forma determinatasi storicamente, ma non l'unica possibile» (pp. 9-10). Egli si dice convinto che nei discorsi del magistero non si sia disposti alla "radicalità di una (auto-)storicizzazione" che porterebbe alla "relatività" di una determinata concezione della chiesa. Perciò alla domanda: «Si può guardare il medesimo oggetto diversamente? La medesima chiesa è pensabile altrimenti?» (p. 10).

Seewald risponde proponendo un percorso di riflessione in tre tappe. Nella prima tappa afferma che l'architettura magisteriale della chiesa è figlia della modernità che ha condizionato la funzione del magistero: custodire ciò che è antico (cap. I, Il dogma e il suo baluardo: due figli della Modernità).In tal modo è stata intesa la modernizzazione della chiesa. A essa ha fatto seguito lo status quo magisteriale ("ciò che è sempre stato così"), per cui i progetti di riforma che se ne distanziano vengono solitamente interpretati come forme presunte di ribellione e di correzione di ciò che è antico. Conservatorismo radicale da una parte e radicale evoluzionismo dall'altra sono una doppia tendenza che ha caratterizzato il cattolicesimo nella modernità per cui «ci si deve chiedere casomai se la modernizzazione della chiesa cattolica finora attuata sia ben riuscita o se invece ci siano motivi per situare la fede cristiana nel tempo presente secondo un profilo diverso da quello attuato finora» (p. 77).

Nella seconda tappa vengono distinte tre modalità di sviluppo dogmatico: l'autocorrezione esplicita, l'oblianza e l'occultamento dell'innovazione (cap. II, Chiesa docente e magistero discente).Alla loro spiegazione Seewald premette la distinzione tra autorità epistemica e giuridica. La differenza tra loro «consiste nel fatto che la prima mira al giudizio interno, mentre per la seconda è sufficiente l'obbedienza esteriore» (p. 81). Se l'autorità epistemica ha il carattere testimoniale della martyria, l'autorità giuridica invece ne preserva la forma comunitaria «così da permettere che da una testimonianza di fede si formi una confessione di fede» da porre «a servizio della homología, della "confessione di fede" comune» (p. 85). Su questo aspetto il magistero della chiesa, sull'onda della modernizzazione, ha esagerato trasformando la sua autorità epistemica in autorità giuridica espressa ovviamente con linguaggio definitivo. Di conseguenza essa ha trovato difficoltà a riconoscere i propri errori e a imparare da essi, quando è necessario, correggendosi. Tuttavia, da parte del magistero alcuni nuovi orientamenti hanno dato vita a uno sviluppo dogmatico attraverso il modo dell'autocorrezione, piuttosto raro, di cui numerosi sono gli esempi nella storia della chiesa, dai tempi della chiesa primitiva fino ai nostri giorni che hanno visto papa Francesco essere "tacciato di eresia" (vedi p. 103). Il secondo modo è quello dell'oblianza che consiste «nell'introdurre correzioni dottrinali facendo ricorso consapevole all'oblio» (p. 105). Il terzo modo è quello dell'occultamento dell'innovazione che si ottiene rimescolando posizioni vecchie lasciandole nel vuoto, così da omettere di prendere posizione. Ciò è avvenuto a proposito della libertà di religione e della libertà di coscienza, dell'autorità statale a servizio della chiesa.

Nella terza tappa viene precisato il concetto di riforma dal punto di vista della teologia sistematica alla luce del rapporto tra vangelo e dogma (cap. III, Pensare la riforma).Se si guarda alla storia si deve riconoscere che la chiesa ha rielaborato più volte la sua forma riaggiustando il confine tra possibile e reale. Tuttavia, «non si può abusare della storia a scopo di legittimazione» (p. 144), come può essere ad esempio per il caso dell'ammissione delle donne al ministero ordinato. Su questo non si può rimandare la soluzione alla storia della teologia e a quanto è accaduto in passato per il fatto che il passato non può avanzare pretese normative sul presente, a meno che esso si presenti alla chiesa in modo vincolante nella figura della tradizione. Passato e tradizione non sono due cose identiche, motivo per cui «l'atto del tradere non rappresenta semplicemente un passivo ricevere dal passato, ma presuppone un'azione nella quale il soggetto ricevente costituisce attivamente qualcosa» (p. 145). Così la chiesa «riceve, costituisce e riproduce a un tempo la sua tradizione e ciò avviene nel momento in cui essa» si volge alle sfide che le vengono dal presente e «si domanda come possa essere oggi la chiesa di Gesù Cristo che annuncia e vive il vangelo» (p. 146). Ciò ha una duplice conseguenza per la fede e per il "vangelo-chiesa-dogma": la fede può essere pensata immutabile e identica a se stessa nel tempo, ma può anche essere modificata a seconda del tempo dando vita a una autocorrezione teologica (cambiamento dottrinale). Ciò permette alla chiesa di non cadere nell'arbitrio anzi di imparare nel corso del suo sviluppo a trattare la fede «in quanto relazione nei confronti di Dio all'interno della comunione ecclesiale» (p. 154). La relazione "vangelo-chiesa-dogma" è di grande vitalità, poiché pone la fede della chiesa davanti «alla sfida di orientarsi costantemente secondo il vangelo ed eventualmente di correggersi anche in ciò che essa ha proposto con un insegnamento altamente vincolante». (p. 172). In altri termini la chiesa è chiamata a un esercizio di saggezza che sappia mettere in relazione il concreto e l'universale così da essere in grado di affrontare temi nuovi che toccano la dottrina tradizionale, come la dottrina matrimoniale concentrata sulla eterosessualità e sulla generazione, senza cadere in una sterile irritazione.

In definitiva «l'identità della chiesa (il suo restare se stessa) non si determina rimanendo fermi su un'architettura dottrinale posta sotto tutela monumentale per via di autorità giuridica» (p. 182). Essa è data dalla fede in Dio che si è rivelato in Gesù Cristo e si rende presente nello Spirito santo, che prende forma secondo il vangelo per essere all'altezza della sua missione. Oggi si può dire che «il credito di un determinato modo di essere chiesa è esaurito» (p. 186). Sono tuttavia pensabili altre forme possibili di essere chiesa. Il salto dal possibile al reale può incontrare scetticismo ma anche speranza e disponibilità a lottare «con forza ma non senza amore» (p. 187).

Con queste parole Seewald chiude il suo saggio. Sono parole che esprimono l'urgenza di una seria riflessione sulle possibilità che la chiesa ha di pensarsi altrimenti per mostrare l'eccedenza del vangelo sulla forma attuale della "chiesa cattolica" che non è l'unica possibile, anche dal punto di vista storico.


G. Zambon, in Studia Patavina 1/2024, 154-156

Michael Seewald è un giovane (1987) teologo e storico del dogma dell’Università di Münster che ha già al suo attivo diverse pubblicazioni, due delle quali tradotte in italiano. Il volume su cui ci soffermiamo brevemente, intitolato Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti, presenta un’interessante disamina del magistero ecclesiastico e dei dispositivi epistemologici sottesi a questa pratica discorsiva.

Lo sforzo compiuto da questo teologo consiste in una storicizzazione del dogma. Egli ritiene (e noi con lui) che tale impresa sia necessaria per una teologia che intenda essere sempre più consapevole della necessaria appartenenza tanto del magistero ecclesiale quanto della tradizione cristiana ad un orizzonte culturale. D’altra parte, è solo attraverso questa lettura che è possibile riconoscere come la cornice dogmatica stabilita dal magistero rappresenti «soltanto una tra le forme che si può dare la fede cattolica; è una forma determinatasi storicamente, ma non l’unica possibile» (9).

Tuttavia, parlare di formazione storica del dogma può restare un’affermazione generica e non priva di fraintendimenti. Per chi, ad esempio, presuppone che la tradizione cristiana fuoriesca da un’origine nitida e si dispieghi in un progresso storico senza accidentalità, questo studio arrecherà irritazioni piuttosto che interrogativi. Su questo punto è lo stesso Seewald a mettere subito in chiaro che la sua impostazione può essere riconosciuta soltanto da «chi è disposto a storicizzare la propria posizione teologica – o almeno cercadi farlo, dato che non sarà mai possibile farlo del tutto in quanto ciascuno è parte della storia che tenta di interpretare» (9-10).

Entrare in un regime di storicità significa, infatti, prendere coscienza della relatività del proprio punto di vista e dunque assumere un atteggiamento di revisione permanente. Quanto al magistero ecclesiastico e al sapere teologico, far fronte a questo compito significa mettere a tema alcune questioni.

Magistero e modernità

Seewald invita a non leggere il rapporto tra modernità e tradizione in senso meramente oppositivo, e pertanto a non ascrivere alla modernità unicamente la causa di una frattura tra la tradizione istituzionale e il bagaglio di fede del singolo. Tale concezione veicola infatti un modello semplicistico oltre che dicotomico di tradizione: da una parte, vi sarebbe una tradizione unica, continua e oggettiva, custodita dall’autorità religiosa; dall’altra, una tradizione parziale e soggettiva perché frutto di appropriazione e selezione personale.

Mi preme aggiungere che si tratta di un’ingenuità (ma fino a che punto?) messa in evidenza anche da teologi come C. Theobald, P. Gisel e A. Grillo. Per parte sua, Seewald specifica che il magistero non può essere inteso come una sorta di contenitore che raccoglie e trasmette una tradizione già bella e pronta. Al contrario, il magistero costruisce la tradizione di cui si fa garante. Con le sue decisioni, infatti, la Chiesa seleziona, tra una pluralità di possibili dottrine, solo alcune, che diventano pertanto reali. In altre parole, l’ortodossia si costituisce come insieme di possibilità realizzate. Quanto invece viene escluso, resta nello stato di pura possibilità. Professare perciò dottrine che sono state escluse significa entrare nell’eterodossia. Anche la tradizione, che a prima vista appare come semplicemente traghettata da un’istituzione, va dunque percepita – al pari della sua appropriazione da parte del singolo – come un insieme di slittamenti e di riprese.

Non è possibile richiamare qui le tappe principali della costituzione moderna del dogma riprese nel testo. In sintesi, diciamo che nell’epoca moderna l’insegnamento dogmatico si presenta nei termini di una decisione giuridica, avente la forma di una proposizione autoritativa che mira ad essere un’interpretazione corretta della rivelazione (oggetto primario; cf. Dei Filius, in ES 3011). I due soggetti degli insegnamenti dogmatici (magistero infallibile) sono la totalità dei vescovi e il papa (cf. LG 25). Tale insegnamento è esercitato nella forma straordinaria e ordinaria dei vescovi uniti al papa e nella forma straordinaria del solo pontefice (ex cathedra/primaziale).

Seewald si sofferma sulla struttura del magistero infallibile, mettendone in evidenzia lagestazione moderna. Tale magistero «ha avuto lo scopo di presentare l’insegnamentodella Chiesa sotto forma di dottrina dogmatica, proponendola cioè in forma decisionale esanzionata dall’autorità» (57). Questa forma di magistero è perciò già indice del fatto chela Chiesa stessa ha assunto i modelli socio-politici della modernità. Ma si è trattato diun’assunzione «strategica» – chiosa ripetutamente Seewald – nel senso che la Chiesaha accordato un privilegio a quegli aspetti della modernità funzionali all’esercizio del suo potere, mentre ha sbarrato la strada ad altre pretese.

Ed è proprio dentro questo clima strategico che il teologo tedesco rilegge il caso limite del magistero ordinario del romano pontefice (ad es. le “encicliche”). Esso «aveva lo scopo di dare al papa quei poteri e quell’autorità di cui egli aveva bisogno per essere strategicamente all’altezza della modernità e della sua pressione decisionale, senza però doversi conformare sul piano normativo al ruolo centrale che la Modernità riconosceva alla competenza decisionale del singolo in campo religioso» (58).

Il contesto teologico della creazione di un magistero ordinario del papa è databile a metà Ottocento (K. Kleutgen e lo scontro con J.B Hirscher) e il dibattito circa il suo carattere vincolante è attestato nella Tuas libenter di Pio IX e nella Humani generis di Pio XII. Il Vaticano I stabilì la necessità di un actus fidei divinae et catholicae non solo nei confronti del magistero straordinario ma anche di quello ordinario (cf. ES 3011). Su quest’ultimo punto però, aggiunge Seewald, “non” si specificò se tale magistero ordinario fosse riferito unicamente a quello dei vescovi uniti al papa o anche al magistero del solo romano pontefice.

Ciò spiega perché la questione del magistero ordinario del papa abbia dato adito a diversi dibattiti. Sta di fatto – conclude Seewald – che «nella normativa canonica attualmente vigente non è stabilita l’infallibilità» (17), sebbene, azzarda il nostro autore, «ai papi non dispiacesse l’idea di poter fare affermazioni definitive e di porre termine a dispute anche senza impiegare la forma solenne della propria potestà» (18).

Uno sbilanciamento sul piano giuridico: il caso del magistero definitivo

Il Vaticano I non ha dunque stabilito se il magistero ordinario del papa avesse il carattere dell’infallibilità. Neanche il Vaticano II ha fatto affermazioni in tal senso. Inoltre, osserva Seewald, i padri conciliari hanno anche respinto la posizione contenuta nello schema De Ecclesia (23 novembre 1962) secondo la quale l’oggetto del magistero infallibile andava esteso anche all’ambito della natura umana (il non rivelato) e, più nello specifico, della ragione. Siamo qui nell’ambito del cosiddetto “oggetto secondario” del magistero.

Ma a quanto pare, tale aspirazione continuò ad essere coltivata, se si considera che, come fiume carsico, riemerse nei decenni successivi. A partire infatti dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si è assistito all’introduzione di quello che oggi generalmenteviene indicato con l’appellativo di magistero definitivo, sancito in ultima istanza da Giovanni Paolo II con il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). In base all’attuale configurazione giuridica, questo magistero si colloca ad un secondo livello, perché segue quello infallibile e precede quello autentico.

Seewald non lo qualifica in questi termini, preferendo parlare di magistero che si riferisce a ciò che non è contenuto nella rivelazione (oggetto secondario). Il teologo di Münster fa notare che, con il magistero definitivo, si crea un nuovo concetto di dogma, non più legato in modo esclusivo alla rivelazione. «Ora possono diventare dogmi anche le dottrine appartenenti all’oggetto secondario, che dallo stesso magistero non sono considerate rivelate ma soltanto connesse con il deposito della rivelazione» (74).

Il risvolto di questo inasprimento del magistero ecclesiastico è stata la configurazione della Chiesa in senso più giuridico (autorità giuridica) che testimoniale (autorità epistemica). Insistendo sul modo apodittico con cui vengono presentate queste decisioni e dunque sull’osservanza (de fide tenenda) da prestare ad esse, il magistero è andato sbilanciandosi a favore della funzione di insegnare (docendi) piuttosto che di apprendere (discendi). Questo sbilanciamento – osserva Seewald – ha nuociuto alla sua capacità di autocomprensione critica: il magistero è diventato sempre più incapace di riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e di ammettere l’opportunità di cambiare orientamento. Celare le discontinuità è diventata così la sua preoccupazione costante.

Sotto il velo delle continuità: tre tipi di sviluppo dogmatico

Seewald intende allora procedere con una decostruzione di quella che stigmatizza come «cosmesi della continuità» (88), mettendo in luce alcuni cambiamenti attuati dal magistero negli ultimi secoli. In estrema sintesi, egli individua tre principali modelli di sviluppo dogmatico, a ciascuno dei quali consacra uno o due casi specifici.

Il primo modello è quello dell’autocorrezione esplicita: la Chiesa dichiara apertamente di abrogare ciò che ha precedentemente stabilito. Ma l’autocorrezione (e veniamo così al secondo modello) è stato il meno praticato tra i processi di sviluppo dogmatico. Esponendo infatti l’insegnamento della Chiesa alla conflittualità, mette in discussione quell’alone di immutabilità di cui si è soliti fregiarla. Per questo motivo si è preferito un altro tipo di sviluppo dogmatico, quello dell’oblianza. Si tratta cioè di «introdurre correzioni dottrinali facendo un ricorso consapevole all’oblio» (105), nella speranza cioè che nessuno si ricordi delle precedenti posizioni della Chiesa sulla stessa materia.

A proposito di questo secondo modello di sviluppo, Seewald non cela le sue critiche. Evitando un’autocorrezione esplicita, la Chiesa corre il rischio di perdere la sua pretesa di essere un’istituzione di senso. Nascondere le proprie mosse nuoce ad una Chiesa che intende essere credibile sul piano socio-culturale ed entrare nel dibattito pubblico (autorità epistemica). Vi è, infine, per Seewald anche una terza modalità di sviluppo dogmatico. Si tratta dell’occultamento dell’innovazione. In pratica, la Chiesa sostiene con forza una posizione, ma non dice che lo può fare grazie al fatto di essersi corretta di recente su tale questione.

A mio avviso, questi tre modelli di sviluppo dogmatico di cui si è potuto solo fare cenno, stanno a mostrare un dato di fondo: il magistero, al pari di ogni altra forma di comunicazione della fede e più in generale di ogni altra pratica discorsiva, può paragonarsi ad una stoffa su cui è imbastito un disegno. Quello che prima facie si vede è ovviamente il disegno. Occorre girare il tessuto per leggervi le tracce di una cucitura fatta di cesure, riprese, puntelli. È proprio questa tortuosità a costituire la linearità degli effetti di superficie.

Continuità della Chiesa o delle sue proposizioni dottrinali?

Per tenere proficuamente in tensione la «continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» (Benedetto XVI), nella discontinuità vissuta nel corso della sua storia, occorre – per Seewald – far leva sull’indefettibilità della Chiesa (continuità materiale) piuttosto che sull’idea dell’indefettibilità delle norme dottrinali. Queste infatti sono storicamente situate (rispondono alla sacramentalità della rivelazione) e sono affidate alla Chiesa.

Quando perciò la Chiesa non riesce più a presentare in modo credibile il suo insegnamento come Vangelo, deve operare una sterzata. Ma questo significa, prosegue Seewald, che «lo sviluppo dogmatico non si deve pensare come una continua aggiunta di nuovi pezzi a un edificio o come una crescita numerica di decisioni dogmatiche, ma include l’aspetto della correzione del contenuto dogmatico» (160).

Dato che trovo molto importante quest’ultima osservazione di Seewald, provo a ritornarvi con alcune mie osservazioni. Nello studiare lo sviluppo del dogma, occorre indagare criticamente le regole che presiedono alle formazioni discorsive, denominare le procedure interne ai discorsi, come anche individuare i principi che classificano, ordinano e distribuiscono. È quanto hanno fatto alcuni studiosi contemporanei, i quali hanno insistito sulla necessità di portare alla luce procedure come il «commento» (Foucault), il «sistema cumulativo» (Theobald), le «cristallizzazioni» (Gisel).

A mio avviso, si tratta di procedure che obbediscono al dispositivo generale secondo cui essentia involvit existentiam, ovvero quel dispositivo che stabilisce un quadro armonizzante e totalizzante entro cui andrebbero inseriti gli eventi. Le evenemenzialità della storia, alla stregua dei tasselli, riceverebbero perciò la loro significatività entro un mosaico più grande già costituito e normalizzante. Ciò che però viene ad essere depotenziata qui è proprio la storicità della fede stessa, la quale non sempre si accontenta di ri-formulare con altre parole lo stesso contenuto, ma richiede anche l’apertura a nuove comprensioni e, di rimando, l’eventuale correzione di alcune formulazioni.

Consapevolezza e discernimento: per una Chiesa sinodale

La lettura di questo volume mi spinge ad evidenziare almeno due stimoli che l’impresa teorica di Seewald consegna al dibattito teologico.

Il primo input è quello di riconoscere (in termini di consapevolezza) la modernità della Chiesa. Seewald ritiene che una posizione anti-moderna risulta essere comunque un progetto moderno. Slogan del tipo: «La Chiesa deve modernizzarsi», risultano in tal caso ambigui. Associare riforma e modernizzazione è fuorviante perché la Chiesa, scrive Seewald, «è già moderna»! Al massimo occorre chiedersi «se la modernizzazione della Chiesa cattolica finora attuata sia ben riuscita o se invece ci siano motivi per situare la fede cristiana nel tempo presente secondo un profilo diverso da quello attuato finora. Solo attraverso una storicizzazione di questo genere è possibile superare la logora contrapposizione tra uno status quo carico di norme, da una parte, e progetti di riforma che se ne distanziano presentandosi come presunte forme di ribellione, dall’altra. Lo status quo magisteriale, infatti, che nella Chiesa cattolica si circonda volentieri dell’aura di “ciò che è sempre stato così”, a un’osservazione più attenta risulta in realtà relativamente nuovo e risale, se si pensa per esempio allo sviluppo del concetto di dogma sotto Giovanni Paolo II, a un passato recente» (77).

Da qui il compito futuro che individuo in questo programma: quello di fare teologia consapevoli del carico di storia di cui siamo intessuti e delle preoccupazioni del presente in cui il Vangelo del Regno chiede di essere vissuto. Un compito che richiede capacità di argomentazione critica, nel riconoscimento − al di là delle idee e degli orientamenti differenti sul piano ecclesiale e teologico − di dover rispondere sempre ad un presente, senza rimandi a momenti ideali o ad epoche normative, a sviluppi lineari e a processi irreversibili.

Dietro i discorsi ammantati di continuità, come lo stesso Seewald mostra in questo studio, giocano il più delle volte non dichiarate preoccupazioni di ottenere stabilità nel presente e necessità di perpetuare se stessi, piuttosto che effettivi riscontri storiografici e di fede vissuta. La continuità, lungi dal significare il restare bloccati in un’architettura dottrinale, va intesa piuttosto come un fenomeno ecclesiale. Questo significa che la Chiesa deve continuamente vivere un atteggiamento di riforma, nel senso di «dare forma» alla propria missione in linea con il messaggio del vangelo.

Solo se si tiene presente questa esigenza, si comprende la necessità di una correzione anche sul piano dogmatico. Ciò non significa, aggiunge Seewald, che la Chiesa debba cambiare “comunque”. Ma che, anche quando si ritiene di restare fermi su qualcosa, una Chiesa che si pensa altrimenti lo deve fare passando attraverso un confronto argomentativo e non «in base al grado dell’ordine sacro» (183).

In definitiva questo saggio può aiutarci a comprendere il senso di una Chiesa sinodale, ovvero di una Chiesa che intende fare del discernimento e della consapevolezza il suo asse centrale. Il rischio è infatti che, pur partendo da genuine intenzioni, la sinodalità diventi uno slogan della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, anziché criterio e prassi di coloro che intendono mettersi alla sequela di Gesù Messia.


G. Guglielmi, in SettimanaNews.it 8 dicembre 2022

Dopo aver pubblicato nel 2020 Il dogma in divenire, l’editrice Queriniana ripropone al lettore italiano una delle menti più brillanti della teologia tedesca: il giovane Michael Seewald, classe 1987, che con questo nuovo volume affronta in modo originale e stimolante la vexata quaestio della riforma della e nella Chiesa.

Il libro, suddiviso in 3 densi capitoli, è un’analisi critica dell’architettura moderna del cattolicesimo, i cui nodi fondamentali riguardano soprattutto il funzionamento del magistero.

L’autore apre la sua riflessione facendo propria la distinzione del card. Walter Kasper tra «dottrina della Chiesa» e «dottrina dogmatica» che, a parere di Kasper, «non sono identiche». Di ciò Seewald si serve al fine d’ampliare la concezione della dottrina che informa la Chiesa, non come se la dottrina dogmatica semplicemente rientrasse nella dottrina della Chiesa, ma interpretando la prima come «forma specifica nella quale può essere espressa la dottrina della Chiesa».

Con questo, Seewald intende porre l’accento sul processo decisionale da cui risulta la forma dogmatica della dottrina, ossia sulla «decisione giuridica» che ha forza autoritativa e sulla pretesa interpretativa di cui è fatta oggetto la rivelazione. A questo punto, la riflessione teologica dell’autore fa risalire questo stato di cose alle novità culturali della modernità, concepita per lo più in termini di modernizzazione continua. L’analisi di Seewald non manca di considerare la storia, specialmente il contributo derivante dai concili Vaticano I e Vaticano II. A quest’ultimo viene attribuita la correzione, seppure tacita, della «giuridificazione» della dottrina della fede sostenuta dopo il Vaticano I, ma poi non si fa mistero dell’inversione di tendenza che ha caratterizzato gran parte del periodo postconciliare. Nonostante questo, il teologo di Saarbrücken si sofferma sulle tre strategie con cui la Chiesa è costretta a riformarsi in forza del suo paradigma moderno, riscontrabili tutte secondo tempi e modi diversi: l’autocorrezione, l’oblianza, l’occultamento dell’innovazione.

Seewald spiega così la riforma ecclesiale, non cedendo all’identificazione di un passato normativo cui occorrerebbe tornare a rifarsi, ma attualizzando il pensiero aristotelico sulla forma: riformare la Chiesa è «darsi una determinatezza reale», riconfigurare tutto ciò che la Chiesa riceve. C’è un perché: ed è che quello che si realizza lascia sempre qualcosa d’irrealizzato.


A. Ballarò, in Il Regno Attualità 16/2022

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