Michael Seewald è un giovane (1987) teologo e storico del dogma dell’Università di Münster che ha già al suo attivo diverse pubblicazioni, due delle quali tradotte in italiano. Il volume su cui ci soffermiamo brevemente, intitolato Riforma. Quando la Chiesa si pensa altrimenti, presenta un’interessante disamina del magistero ecclesiastico e dei dispositivi epistemologici sottesi a questa pratica discorsiva.
Lo sforzo compiuto da questo teologo consiste in una storicizzazione del dogma. Egli ritiene (e noi con lui) che tale impresa sia necessaria per una teologia che intenda essere sempre più consapevole della necessaria appartenenza tanto del magistero ecclesiale quanto della tradizione cristiana ad un orizzonte culturale. D’altra parte, è solo attraverso questa lettura che è possibile riconoscere come la cornice dogmatica stabilita dal magistero rappresenti «soltanto una tra le forme che si può dare la fede cattolica; è una forma determinatasi storicamente, ma non l’unica possibile» (9).
Tuttavia, parlare di formazione storica del dogma può restare un’affermazione generica e non priva di fraintendimenti. Per chi, ad esempio, presuppone che la tradizione cristiana fuoriesca da un’origine nitida e si dispieghi in un progresso storico senza accidentalità, questo studio arrecherà irritazioni piuttosto che interrogativi. Su questo punto è lo stesso Seewald a mettere subito in chiaro che la sua impostazione può essere riconosciuta soltanto da «chi è disposto a storicizzare la propria posizione teologica – o almeno cercadi farlo, dato che non sarà mai possibile farlo del tutto in quanto ciascuno è parte della storia che tenta di interpretare» (9-10).
Entrare in un regime di storicità significa, infatti, prendere coscienza della relatività del proprio punto di vista e dunque assumere un atteggiamento di revisione permanente. Quanto al magistero ecclesiastico e al sapere teologico, far fronte a questo compito significa mettere a tema alcune questioni.
Magistero e modernità
Seewald invita a non leggere il rapporto tra modernità e tradizione in senso meramente oppositivo, e pertanto a non ascrivere alla modernità unicamente la causa di una frattura tra la tradizione istituzionale e il bagaglio di fede del singolo. Tale concezione veicola infatti un modello semplicistico oltre che dicotomico di tradizione: da una parte, vi sarebbe una tradizione unica, continua e oggettiva, custodita dall’autorità religiosa; dall’altra, una tradizione parziale e soggettiva perché frutto di appropriazione e selezione personale.
Mi preme aggiungere che si tratta di un’ingenuità (ma fino a che punto?) messa in evidenza anche da teologi come C. Theobald, P. Gisel e A. Grillo. Per parte sua, Seewald specifica che il magistero non può essere inteso come una sorta di contenitore che raccoglie e trasmette una tradizione già bella e pronta. Al contrario, il magistero costruisce la tradizione di cui si fa garante. Con le sue decisioni, infatti, la Chiesa seleziona, tra una pluralità di possibili dottrine, solo alcune, che diventano pertanto reali. In altre parole, l’ortodossia si costituisce come insieme di possibilità realizzate. Quanto invece viene escluso, resta nello stato di pura possibilità. Professare perciò dottrine che sono state escluse significa entrare nell’eterodossia. Anche la tradizione, che a prima vista appare come semplicemente traghettata da un’istituzione, va dunque percepita – al pari della sua appropriazione da parte del singolo – come un insieme di slittamenti e di riprese.
Non è possibile richiamare qui le tappe principali della costituzione moderna del dogma riprese nel testo. In sintesi, diciamo che nell’epoca moderna l’insegnamento dogmatico si presenta nei termini di una decisione giuridica, avente la forma di una proposizione autoritativa che mira ad essere un’interpretazione corretta della rivelazione (oggetto primario; cf. Dei Filius, in ES 3011). I due soggetti degli insegnamenti dogmatici (magistero infallibile) sono la totalità dei vescovi e il papa (cf. LG 25). Tale insegnamento è esercitato nella forma straordinaria e ordinaria dei vescovi uniti al papa e nella forma straordinaria del solo pontefice (ex cathedra/primaziale).
Seewald si sofferma sulla struttura del magistero infallibile, mettendone in evidenzia lagestazione moderna. Tale magistero «ha avuto lo scopo di presentare l’insegnamentodella Chiesa sotto forma di dottrina dogmatica, proponendola cioè in forma decisionale esanzionata dall’autorità» (57). Questa forma di magistero è perciò già indice del fatto chela Chiesa stessa ha assunto i modelli socio-politici della modernità. Ma si è trattato diun’assunzione «strategica» – chiosa ripetutamente Seewald – nel senso che la Chiesaha accordato un privilegio a quegli aspetti della modernità funzionali all’esercizio del suo potere, mentre ha sbarrato la strada ad altre pretese.
Ed è proprio dentro questo clima strategico che il teologo tedesco rilegge il caso limite del magistero ordinario del romano pontefice (ad es. le “encicliche”). Esso «aveva lo scopo di dare al papa quei poteri e quell’autorità di cui egli aveva bisogno per essere strategicamente all’altezza della modernità e della sua pressione decisionale, senza però doversi conformare sul piano normativo al ruolo centrale che la Modernità riconosceva alla competenza decisionale del singolo in campo religioso» (58).
Il contesto teologico della creazione di un magistero ordinario del papa è databile a metà Ottocento (K. Kleutgen e lo scontro con J.B Hirscher) e il dibattito circa il suo carattere vincolante è attestato nella Tuas libenter di Pio IX e nella Humani generis di Pio XII. Il Vaticano I stabilì la necessità di un actus fidei divinae et catholicae non solo nei confronti del magistero straordinario ma anche di quello ordinario (cf. ES 3011). Su quest’ultimo punto però, aggiunge Seewald, “non” si specificò se tale magistero ordinario fosse riferito unicamente a quello dei vescovi uniti al papa o anche al magistero del solo romano pontefice.
Ciò spiega perché la questione del magistero ordinario del papa abbia dato adito a diversi dibattiti. Sta di fatto – conclude Seewald – che «nella normativa canonica attualmente vigente non è stabilita l’infallibilità» (17), sebbene, azzarda il nostro autore, «ai papi non dispiacesse l’idea di poter fare affermazioni definitive e di porre termine a dispute anche senza impiegare la forma solenne della propria potestà» (18).
Uno sbilanciamento sul piano giuridico: il caso del magistero definitivo
Il Vaticano I non ha dunque stabilito se il magistero ordinario del papa avesse il carattere dell’infallibilità. Neanche il Vaticano II ha fatto affermazioni in tal senso. Inoltre, osserva Seewald, i padri conciliari hanno anche respinto la posizione contenuta nello schema De Ecclesia (23 novembre 1962) secondo la quale l’oggetto del magistero infallibile andava esteso anche all’ambito della natura umana (il non rivelato) e, più nello specifico, della ragione. Siamo qui nell’ambito del cosiddetto “oggetto secondario” del magistero.
Ma a quanto pare, tale aspirazione continuò ad essere coltivata, se si considera che, come fiume carsico, riemerse nei decenni successivi. A partire infatti dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso, si è assistito all’introduzione di quello che oggi generalmenteviene indicato con l’appellativo di magistero definitivo, sancito in ultima istanza da Giovanni Paolo II con il motu proprio Ad tuendam fidem (1998). In base all’attuale configurazione giuridica, questo magistero si colloca ad un secondo livello, perché segue quello infallibile e precede quello autentico.
Seewald non lo qualifica in questi termini, preferendo parlare di magistero che si riferisce a ciò che non è contenuto nella rivelazione (oggetto secondario). Il teologo di Münster fa notare che, con il magistero definitivo, si crea un nuovo concetto di dogma, non più legato in modo esclusivo alla rivelazione. «Ora possono diventare dogmi anche le dottrine appartenenti all’oggetto secondario, che dallo stesso magistero non sono considerate rivelate ma soltanto connesse con il deposito della rivelazione» (74).
Il risvolto di questo inasprimento del magistero ecclesiastico è stata la configurazione della Chiesa in senso più giuridico (autorità giuridica) che testimoniale (autorità epistemica). Insistendo sul modo apodittico con cui vengono presentate queste decisioni e dunque sull’osservanza (de fide tenenda) da prestare ad esse, il magistero è andato sbilanciandosi a favore della funzione di insegnare (docendi) piuttosto che di apprendere (discendi). Questo sbilanciamento – osserva Seewald – ha nuociuto alla sua capacità di autocomprensione critica: il magistero è diventato sempre più incapace di riconoscere i propri errori, le proprie debolezze e di ammettere l’opportunità di cambiare orientamento. Celare le discontinuità è diventata così la sua preoccupazione costante.
Sotto il velo delle continuità: tre tipi di sviluppo dogmatico
Seewald intende allora procedere con una decostruzione di quella che stigmatizza come «cosmesi della continuità» (88), mettendo in luce alcuni cambiamenti attuati dal magistero negli ultimi secoli. In estrema sintesi, egli individua tre principali modelli di sviluppo dogmatico, a ciascuno dei quali consacra uno o due casi specifici.
Il primo modello è quello dell’autocorrezione esplicita: la Chiesa dichiara apertamente di abrogare ciò che ha precedentemente stabilito. Ma l’autocorrezione (e veniamo così al secondo modello) è stato il meno praticato tra i processi di sviluppo dogmatico. Esponendo infatti l’insegnamento della Chiesa alla conflittualità, mette in discussione quell’alone di immutabilità di cui si è soliti fregiarla. Per questo motivo si è preferito un altro tipo di sviluppo dogmatico, quello dell’oblianza. Si tratta cioè di «introdurre correzioni dottrinali facendo un ricorso consapevole all’oblio» (105), nella speranza cioè che nessuno si ricordi delle precedenti posizioni della Chiesa sulla stessa materia.
A proposito di questo secondo modello di sviluppo, Seewald non cela le sue critiche. Evitando un’autocorrezione esplicita, la Chiesa corre il rischio di perdere la sua pretesa di essere un’istituzione di senso. Nascondere le proprie mosse nuoce ad una Chiesa che intende essere credibile sul piano socio-culturale ed entrare nel dibattito pubblico (autorità epistemica). Vi è, infine, per Seewald anche una terza modalità di sviluppo dogmatico. Si tratta dell’occultamento dell’innovazione. In pratica, la Chiesa sostiene con forza una posizione, ma non dice che lo può fare grazie al fatto di essersi corretta di recente su tale questione.
A mio avviso, questi tre modelli di sviluppo dogmatico di cui si è potuto solo fare cenno, stanno a mostrare un dato di fondo: il magistero, al pari di ogni altra forma di comunicazione della fede e più in generale di ogni altra pratica discorsiva, può paragonarsi ad una stoffa su cui è imbastito un disegno. Quello che prima facie si vede è ovviamente il disegno. Occorre girare il tessuto per leggervi le tracce di una cucitura fatta di cesure, riprese, puntelli. È proprio questa tortuosità a costituire la linearità degli effetti di superficie.
Continuità della Chiesa o delle sue proposizioni dottrinali?
Per tenere proficuamente in tensione la «continuità dell’unico soggetto-Chiesa, che il Signore ci ha donato» (Benedetto XVI), nella discontinuità vissuta nel corso della sua storia, occorre – per Seewald – far leva sull’indefettibilità della Chiesa (continuità materiale) piuttosto che sull’idea dell’indefettibilità delle norme dottrinali. Queste infatti sono storicamente situate (rispondono alla sacramentalità della rivelazione) e sono affidate alla Chiesa.
Quando perciò la Chiesa non riesce più a presentare in modo credibile il suo insegnamento come Vangelo, deve operare una sterzata. Ma questo significa, prosegue Seewald, che «lo sviluppo dogmatico non si deve pensare come una continua aggiunta di nuovi pezzi a un edificio o come una crescita numerica di decisioni dogmatiche, ma include l’aspetto della correzione del contenuto dogmatico» (160).
Dato che trovo molto importante quest’ultima osservazione di Seewald, provo a ritornarvi con alcune mie osservazioni. Nello studiare lo sviluppo del dogma, occorre indagare criticamente le regole che presiedono alle formazioni discorsive, denominare le procedure interne ai discorsi, come anche individuare i principi che classificano, ordinano e distribuiscono. È quanto hanno fatto alcuni studiosi contemporanei, i quali hanno insistito sulla necessità di portare alla luce procedure come il «commento» (Foucault), il «sistema cumulativo» (Theobald), le «cristallizzazioni» (Gisel).
A mio avviso, si tratta di procedure che obbediscono al dispositivo generale secondo cui essentia involvit existentiam, ovvero quel dispositivo che stabilisce un quadro armonizzante e totalizzante entro cui andrebbero inseriti gli eventi. Le evenemenzialità della storia, alla stregua dei tasselli, riceverebbero perciò la loro significatività entro un mosaico più grande già costituito e normalizzante. Ciò che però viene ad essere depotenziata qui è proprio la storicità della fede stessa, la quale non sempre si accontenta di ri-formulare con altre parole lo stesso contenuto, ma richiede anche l’apertura a nuove comprensioni e, di rimando, l’eventuale correzione di alcune formulazioni.
Consapevolezza e discernimento: per una Chiesa sinodale
La lettura di questo volume mi spinge ad evidenziare almeno due stimoli che l’impresa teorica di Seewald consegna al dibattito teologico.
Il primo input è quello di riconoscere (in termini di consapevolezza) la modernità della Chiesa. Seewald ritiene che una posizione anti-moderna risulta essere comunque un progetto moderno. Slogan del tipo: «La Chiesa deve modernizzarsi», risultano in tal caso ambigui. Associare riforma e modernizzazione è fuorviante perché la Chiesa, scrive Seewald, «è già moderna»! Al massimo occorre chiedersi «se la modernizzazione della Chiesa cattolica finora attuata sia ben riuscita o se invece ci siano motivi per situare la fede cristiana nel tempo presente secondo un profilo diverso da quello attuato finora. Solo attraverso una storicizzazione di questo genere è possibile superare la logora contrapposizione tra uno status quo carico di norme, da una parte, e progetti di riforma che se ne distanziano presentandosi come presunte forme di ribellione, dall’altra. Lo status quo magisteriale, infatti, che nella Chiesa cattolica si circonda volentieri dell’aura di “ciò che è sempre stato così”, a un’osservazione più attenta risulta in realtà relativamente nuovo e risale, se si pensa per esempio allo sviluppo del concetto di dogma sotto Giovanni Paolo II, a un passato recente» (77).
Da qui il compito futuro che individuo in questo programma: quello di fare teologia consapevoli del carico di storia di cui siamo intessuti e delle preoccupazioni del presente in cui il Vangelo del Regno chiede di essere vissuto. Un compito che richiede capacità di argomentazione critica, nel riconoscimento − al di là delle idee e degli orientamenti differenti sul piano ecclesiale e teologico − di dover rispondere sempre ad un presente, senza rimandi a momenti ideali o ad epoche normative, a sviluppi lineari e a processi irreversibili.
Dietro i discorsi ammantati di continuità, come lo stesso Seewald mostra in questo studio, giocano il più delle volte non dichiarate preoccupazioni di ottenere stabilità nel presente e necessità di perpetuare se stessi, piuttosto che effettivi riscontri storiografici e di fede vissuta. La continuità, lungi dal significare il restare bloccati in un’architettura dottrinale, va intesa piuttosto come un fenomeno ecclesiale. Questo significa che la Chiesa deve continuamente vivere un atteggiamento di riforma, nel senso di «dare forma» alla propria missione in linea con il messaggio del vangelo.
Solo se si tiene presente questa esigenza, si comprende la necessità di una correzione anche sul piano dogmatico. Ciò non significa, aggiunge Seewald, che la Chiesa debba cambiare “comunque”. Ma che, anche quando si ritiene di restare fermi su qualcosa, una Chiesa che si pensa altrimenti lo deve fare passando attraverso un confronto argomentativo e non «in base al grado dell’ordine sacro» (183).
In definitiva questo saggio può aiutarci a comprendere il senso di una Chiesa sinodale, ovvero di una Chiesa che intende fare del discernimento e della consapevolezza il suo asse centrale. Il rischio è infatti che, pur partendo da genuine intenzioni, la sinodalità diventi uno slogan della stagione ecclesiale che stiamo vivendo, anziché criterio e prassi di coloro che intendono mettersi alla sequela di Gesù Messia.
G. Guglielmi, in
SettimanaNews.it 8 dicembre 2022