«Hoc est corpus meum», «Questo è il mio corpo»: con questa scandalosa affermazione, destinata a essere ripetuta nel corso dei secoli, Gesù ha istituito l’Eucarestia, la cena del Signore, che fa parte dei sacramenta maiora insieme al Battesimo e nella quale si ricorda il sacrificio della Parola vivente, vero Dio e vero uomo. La domanda che si posero i cristiani lungo la storia fu come fosse possibile pensare la «presenza reale» di Cristo stesso nel pane eucaristico che si consumava durante il culto. Una problematica che, com’è noto, trovò la sua definitiva sistematizzazione teologica con la dottrina della transustanziazione (il pane e il vino mutano la propria «sostanza» per divenire il corpo e il sangue di Cristo anche se gli «accidenti» restano immutati), che ebbe la sua più compiuta formulazione con san Tommaso d’Aquino nel xiii secolo. Il percorso, in verità, fu tutt’altro che lineare: le sfide per il pensiero furono ciclopiche, i dibattiti furono continui, le posizioni assunte furono caratterizzate da molteplici sfumature.
Ancora oggi termini come «presenza», «realtà», «corpo» sono sottoposti a continue indagini: il volume di Manuel Belli analizza questi tre ambiti ponendosi sul displuvio fra teologia e filosofia. L’autore, infatti, divide il saggio in due distinte sezioni. Nella prima opera una puntuale ricostruzione del processo che si ebbe tra il ix e il xiii secolo a partire dal primo organico trattato interamente dedicato all’eucarestia redatto dall’abate e maestro dell’abbazia di Corbie Pascasio Radberto. Belli mostra che, nel momento in cui il cristianesimo si diffuse in ambiente germanico, iniziò la crisi dell’idea sacramentale, la quale costituì lo sfondo della dottrina della transustanziazione, nonché delle successive accese controversie che si manifestarono nel magmatico periodo della Riforma. L’autore, inoltre, evidenzia come il fatto stesso che attorno all’860 Ratramno di Corbie, con il suo De corpore et sanguini Domini liber, si chiese se ciò che accade durante l’Eucarestia si verifichi in mysterio o in veritate, resti un inequivocabile indizio di un modo di intendere il sacramento laddove il dato simbolico e il dato reale vengono visti contrapposti.
Al contempo, il porsi stesso delle problematiche connesse con il Sacramento dell’Altare andò a incidere in maniera tale da allentare l’unità tra segno sacramentale e realtà significata. Tale alleggerimento diede il via alle contese medievali sulla Cena con i due estremi rappresentati da chi abbracciava la prospettiva materiale-obiettiva e coloro che, viceversa, esaltavano dell’Eucarestia il lato spiritualistico.
Al riguardo, Belli concentra la propria analisi su altre due figure: Lanfranco di Bec, il quale, con il suo Liber de corpore et sanguine Domini redatto nel 1063, rispose al trattato Scriptum contra Synodum di Berengario di Tours, alfiere riconosciuto della concezione spiritualistica. Il risultato dello scontro fu che si diffuse una concezione della presenza reale quasi «mitica» nel suo acceso sensualismo, implicante un oggettivo svuotamento del concetto di sacramento, su cui dovettero lavorare non poco i teologi dell’alta Scolastica, volti come furono a riscoprire, tramite il fondamentale aiuto della filosofia naturale aristotelica, la dimensione della fede.
In questa situazione, nel cosiddetto «Secolo d’oro» del Duecento si pose come momento centrale della elaborazione teologica e filosofica medievale la Summa Thelogiae di san Tommaso d’Aquino, il quale, adottando la distinzione terminologica di accidente e sostanza, offrì la possibilità di esprimere nel medesimo tempo sia la realtà dal cambiamento (sostanza), sia la realtà permanente del segno esterno (accidenti), recuperando così il signum efficax, efficit quod significat, vale a dire la realtà in segni. Grazie alla filosofia dello Stagirita sembrò ai teologi e filosofi dell’epoca di aver superato il «materialismo» della concezione precedente, approdando a un’interpretazione realistico-intellettualistica.
In merito, facendo un salto di secoli, Belli riporta le critiche di Karl Barth e di Jüngel nei confronti della posizione dell’Aquinate, che, come evidenzia lo stesso autore, fu promotore di «una metafisica della necessità che non può che aprirsi ad una dinamica della più che necessità: l’eucarestia pone un’ipoteca su ogni schema causale che sembra inadeguato ad esprimerne le qualità» (p. 203).
In breve, per Belli non possiamo chiedere a san Tommaso una soluzione alle questioni poste dai due citati teologi protestanti, piuttosto nella sua teologia dei sacramenti emergono elementi di una impostazione metodologica foriera di conseguenze filosofiche. Sulla scorta di queste considerazioni, nella seconda parte del suo saggio Belli esplora scenari fenomenologici a partire da una domanda che funge anche da titolo all’ultimo capitolo del volume: «L’Eucarestia dà da pensare?». Il recupero del metodo fenomenologico offre, pertanto, a Belli la possibilità di schiudere un perimetro teologico differente da quello tradizionale.
Mettendo da parte tutte le possibili traiettorie interpretative sedimentatesi nel corso dei secoli, l’Eucarestia viene considerata nella sua nuda concretezza e, messa in tensione con l’intersoggettività del dato rituale, assume un diverso segno, rivelando potenzialmente ai credenti che vi partecipano una molteplicità di significati.
D. Segna, in
Protestantesimo 2-3/2024, 309-310